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La tecnologia in aiuto per le Pellegrini del futuro

Come costruire, in parte, le Pellegrini o i Phelps del futuro.
In questi giorni di Olimpiadi, in cui stelle consolidate come la Pellegrini o Phelps hanno cominciato a mostrare segni di logoramento si affacciano alla ribalta nuovi campioni come la cinese Ye. Successi che tuttavia fanno sollevare dei dubbi per vari motivi: in primis il fatto che, nonostante le differenti dimensioni, la Ye vada più veloce dell'americano Lochte; inoltre, come le vicende degli atleti oltre-cortina di qualche decennio fa ci hanno insegnato, la politica sportiva di alcuni paesi ha avuto molti pochi scrupoli nel creare super-atleti letteralmente sulla loro pelle grazie ad "allevamenti" intensivi (non è refuso per allenamenti, vedi i baby-ginnasti cinesi come esempio) o i dopaggi drammatici (atleti Germania-est).
Molto meglio invece sono le innovazioni tecnologiche che permettono di massimizzare le potenzialità di ciascun atleta semplicemente studiandone la dinamica e la fisiologia.
Studi del genere sono in parte noti al grande pubblico grazie ad i costumi ultradinamici spesso mostrati. Riporto qui alcune innovazioni interessanti emerse qualche mese sul sito della  École Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL) risultato della collaborazione con l'Università di Losanna.
Gli scienziati ed ingegneri locali si sono prodigati nello sviluppare sistemi che permettessero di valutare al meglio le prestazioni degli atleti e di facilitare il lavoro degli allenatori permettendo loro di intervenire sulle variabili fondamentali. Un lavoro che fino ad ora ha utilizzato strumenti come le riprese video ad alta definizione.
Il prodotto della loro ricerca è un sistema chiamato Physilog III che somiglia ad un tipico costume da nuoto professionale equipaggiato però con accelerometri e giroscopi in grado di misurare tutta una serie di parametri mentre l'atleta nuota.
I sensori sono localizzati in tasche poste in posizioni strategiche, di cui quattro sono nelle braccia, uno sul dorso e due nelle gambe.
Farzin Dadashi, il ricercatore capo del progetto dice "a differenza delle riprese video che permettono di focalizzarsi su un atleta alla volta visto che l'analisi dei dati necessita di parecchi giorni, questo sistema permette di avere dati istantanei su molti atleti".
Oltre alla parte dinamica vengono analizzati anche i dati fisiologici. I parametri respiratori ad esempio vengono misurati attraverso una specie di boccaglio. Tutti questi dati nel complesso permettono di valutare l'efficienza della nuotata, intesa come energia consumata rispetto al lavoro prodotto.
In un certo senso anche questo potrebbe, da qualcuno, essere visto come doping tecnologico. In realtà è un modo per ottenere il meglio da un atleta professionista evitando di indulgere in pratiche "chimiche" loro si estremamente scorrette oltrechè pericolose per la salute, soprattutto quando sono i più indifesi cioè gli atleti più giovani ad esserne esposti.

Sull'argomento Scienza e agonismo vedi anche  "olimpiadi e scienza".

Sonda Curiosity: ci siamo quasi

Fra pochi giorni, il 6 agosto, inizierà la missione della sonda Curiosity su Marte. Una missione di cui abbiamo già trattato (vedi 1, 2) e che vedrà due parti topiche. La prima è l'atterraggio che sfrutterà una modalità nuova (e quindi rischiosa per la sonda e soprattutto per le coronarie dei progettisti NASA). La seconda riguarderà la raccoltà di dati scientifici volti ad una maggiore comprensione del terreno marziano e, ovviamente, alla ricerca di acqua.
Dopo le grandi soddisfazioni fornite dalle precedenti sonde, le aspettative sono molte.
Manca poco! Incrociamo le dita.

 Sotto due video: il primo in inglese e comprensivo di interviste. Il secondo un riassuntino in italiano pubblicato dal CDS.



Aggiornamento  ____________
VIDEO DEL GIORNO DELL'ATTERRAGGIO
6/8/2012
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post correlati precedenti
1 e 2

Iniziata la sperimentazione di un vaccino terapeutico per il Parkinson

Il morbo di Parkinson è causata dal lento ma inesorabile declino nel numero di neuroni secernenti la dopamina, un neurotrasmettitore fondamentale per funzioni quali l'apprendimento, il movimento, la cognizione, etc.
Nessuna delle terapie ad oggi sperimentate è in grado di bloccarne il decorso. Nel migliore dei casi, come con il trattamento con la L-DOPA, si può agire attenuandone la sintomatologia. Questo non elimina tuttavia la moria delle cellule con il conseguente progredire della malattia. In pratica si cerca di compensare il deficit di dopamina con una sostanza esogena.

E' quindi un ottima notizia quella dell'inizio della sperimentazione clinica, sponsorizzata da una industria farmaceutica austriaca (AFFiRiS), su un farmaco inibente l'alfa-sinucleina, una proteina presente in forma anormale (sotto forma di fibrille insolubili) in alcune patologie neurodegenerative come il Parkinson, alcune forme di demenza e la Multiple System Atrophy.
Il farmaco in questione è in realtà un vaccino di tipo peptidico il cui scopo dovrebbe essere quello di creare una risposta immunitaria umorale (di tipo anticorpale) che favorisca la rimozione "naturale" della proteina alterata.
Esperimenti compiuti da AFFiRiS in collaborazione con Eliezer Masliah, un neuroscienziato della UCSD, ha mostrato come il vaccino PD01 sia in grado di ridurre, in animali da laboratorio, i livelli della alfa-sinucleina nel cervello rallentando fortemente la morte neuronale ed evidenziando un sensibile miglioramento nelle capacità cognitive.
La sperimentazione clinica prevede di testare due diverse dosi del vaccino, mischiato ad un adiuvante come l'ossido di alluminio, su un campione di 32 pazienti, di età compresa fra i 45 ed i 65 anni, nelle prime fasi del Parkinson. Lo studio si protrarrà per un anno dopo il trattamento in modo da monitorarne la sicurezza e la efficacia clinica. Un periodo di tempo in cui Achim Schneeberger, il responsabile medico della sperimentazione, spera di riuscire ad osservare i primi segni di un miglioramento. 
Il verbo "sperare" non è casuale. Uno dei problemi del Parkinson così come dell'Alzheimer è che mancano indicatori certi sulla progressione della malattia diversi da quelli istopatologici. E questi ultimi sono ottenibili solo con l'esame autoptico. Questo per dire che in assenza di chiari miglioramenti bisognerà attendere il decesso del paziente per capire se il mancato funzionamento sia conseguente ad una mancata efficacia nel ridurre la quantità di proteina anormale o se sia dovuto ad altre cause (ad esempio la riduzione della proteina non è sufficiente a revertire la malattia).
La sperimentazione non è priva di rischi teorici: indurre una risposta immunitaria in una zona delicata come il cervello espone a rischi potenziali molto seri (vedere i problemi causati dal vaccino sperimentale AN-1792 descritti in Nat Med. 2002 Mar;8(3):199-200)
Rischi confermati dallo studio di Howard Gendelman presso la University of Nebraska Medical Center. In questo studio si è visto che il un frammento della alfa-sinucleina usato come vaccino su animali da laboratorio ha causato una risposta infiammatoria di tipo cellulare che ha colpito, uccidendole, le cellule producenti dopamina. In altre parole il vaccino ha causato l'effetto opposto (vedi PLoS One 3, e1376, 2008).

Pericolo in vista quindi? In realtà no. La scienza impone delle correzioni una volta trovato un punto critico: i ricercatori della AFFiRiS hanno tenuto in debito contro questi dati ed hanno escluso, in base a dati sperimentali, che la loro tipologia di vaccino scateni una risposta immunitaria cellulare.

E' importante ricordare come parte dello studio clinico sia stato reso possibile grazie al contributo finanziario, pari a circa 1,5 milioni di dollari, della "Michael J. Fox Foundation for Parkinson's Research". Una fondazione fra le più serie e che ha fino ad ora sovvenzionato molte ricerche in giro per il mondo con un unico criterio: scientifico. In Italia purtroppo invece si vive con i finanziamenti a pioggia dati a destra e a manca senza una chiara logica che non sia quella dell'assistenzialismo. Così capita molto spesso che finanziamenti della stessa entità di quelli di cui sopra vengano divisi su 10 laboratori ... ma  questa è un'altra storia.


Tessuto adiposo bruno, bianco e … beige.

Questa volta sono rimasto alquanto sorpreso dallo studio pubblicato su Cell, la rivista più rigorosa per noi ricercatori. Mi cullavo nell'idea che la descrizione dei tipi cellulari differenziati fosse in buona parte stata risolta e che la sfida reale fosse nella caratterizzazione dei diversi stadi del differenziamento da cellula staminale a cellula differenziata (con tutti i vari stadi intermedi).
Leggendo l'articolo scopro che esiste, oltre al tessuto adiposo bruno e bianco, quello beige.
In effetti sbagliavo solo in parte in quanto le cellule beige sono sia precursori degli adipociti bianchi che cellule con funzioni specifiche.
Tessuto adiposo al microscopio elettronico a scansione
(®Broad Institute)
Un passo indietro per riassumere alcuni concetti base. Il tessuto adiposo è di due tipi, e funzioni, diversi.
Il tessuto adiposo bianco (WAT) è il più diffuso ed ha funzioni meccaniche (occupa gli spazi fra i nervi, muscoli e vasi, proteggendoli), termoisolanti (conservando il calore prodotto e proteggendo da quello esterno) e di riserva.
Il tessuto adiposo bruno (BAT) è fondamentale per la produzione di calore (contrasta l'ipotermia) ma è anche importante nel controllo dell'obesità. Il grasso bruno è più frequente nei bambini e negli animali che vanno in letargo. È errato in realtà pensare a due tessuti separati; questi due tipi di adipociti sono mischiati tra loro (con rapporti variabili nei diversi distretti e in diversi animali).

Studi recenti hanno mostrato che esistono due tipi di BAT: "classico", derivato dalle cellule myf-5; derivato dal WAT riconoscibili in quanto le cellule sono positive al marcatore UCP1.
Il team di Bruce Spiegelman (Harvard) ha identificato ora le cellule beige nel WAT di topo, caratterizzate da bassi livelli di UCP1 ed un profilo di espressione genica (una sorta di impronta digitale che identifica diverse tipologie cellulari) distinta sia dal BAT che dal WAT. Inoltre queste cellule sono sensibili ad un ormone (scoperto a gennaio dallo stesso Spiegelman), la Irisin, prodotto grazie al costante esercizio fisico e che converte il WAT nel BAT. Diminuisce quindi il grasso di riserva ed aumenta la facilità di dispersione delle calorie in eccesso sotto forma di calore.

In estrema sintesi l'articolo giunge alla conclusione che il BAT negli adulti, umani, è composto in grande parte non da adipociti bruni ma beige!
Una osservazione importante per sviluppare nuove terapie contro l'obesità ed il diabete, in quanto ridefinisce le cellule target.


***
Note
  • Irisin. Esperimenti su topi obesi e pre-diabetici hanno mostrato che il trattamento con Irisin rende i topi molto più resistenti al rischio diabete anche se nutriti con cibo ad alto contenuto lipidico (vedi anche articoli tematici sul NYT e su Nature)
  • La presenza del BAT favorisce la comparsa di una corporatura snella e migliora la sensibilità tissutale all'insulina. Svolgere attività fisica (così come l'esposizione al freddo) induce la comparsa di cellule brune/beige all'interno del WAT, processo noto come browning (brunizzazione). Curiosamente il verificarsi di questo fenomeno nel tessuto adiposo sottocutaneo inguinale e viscerale è favorito dalla riduzione del microbiota (ad esempio dopo trattamento antibiotico). Un dato che prova una volta di più lo stretto legame tra composizione microbica "amica" e "benessere" (--> Nature Medicine (2015) - 21, pp. 1497–1501).
  • Negli adipociti bianchi i lipidi formano in grandi goccioline oleose, mentre nel tessuto adiposo bruno le goccioline sono più piccole ed è presente un maggior numero di mitocondri (da cui il colore). 
  • La principale differenza tra grasso bruno e bianco è la presenza nel primo della proteina mitocondriale UCP1 (Uncoupling Protein 1 o anche termogenina) che funziona da disaccoppiante favorendo la permeabilizzazione dei protoni e quindi colpendo il gradiente protonico usato dalla catena respiratoria. Il risultato è una sorta di ciclo futile che libera calore invece di formare energia chimica (ATP). Questo processo termogenico è detto "senza brivido" per distinguerlo da quello classico indotto dalla contrazione muscolare. Il processo è controllato dal simpatico  attraverso i recettori B3-adrenergici. Topi geneticamente privati di questi recettori subiscono un fenomeno di transdifferenziazzione del tessuto adiposo bruno, che si trasforma in tessuto adiposo bianco rendendoli massivamente obesi nonostante la maggiore attività fisica e la dieta normocalorica.

I tanti nomi dello Yeti

Fin da quando Eric Shipton nel 1951 ritornò dalla spedizione sull'Everest con le foto delle impronte giganti impresse sulla neve, vi è stata una continua ridda di ipotesi scientifiche, leggende e speculazioni al limite del racconto fantasy su quale "essere" potesse avere lasciato tali impronte.
Ipotesi amplificate dai periodici  avvistamenti in diverse parti del mondo di creature abbastanza simili fra loro ma note con diversi nomi: Yeti o Migoi sul massiccio dell'Himalaya; Bigfoot o Sasquatch in nord-america; Almasty nel Caucaso e Orang pendek a Sumatra.
Secondo Bryan Sykes di Oxford e Michel Sartori del Museo di Zoologia di Losanna alla base di questi avvistamenti, in molti casi tramandati per secoli sotto forma di racconti, potrebbero esservi (o meglio esservi stati) delle specie di ominidi collaterali a quella del sapiens che hanno condiviso le stesse aree, allora "umanamente" spopolate, dei continenti. Del resto è di pochi mesi fa uno studio genetico che mostra come lo scambio di materiale genetico (attraverso incroci) fra il Sapiens ed il "cugino" Neanderthal sia effettivamente avvenuto in un periodo successivo alla colonizzazione dei continenti. L'ultima stima di cui ho notizia indica la presenza nel sapiens sapiens di circa il 4% di geni neanderthaliani. Non a caso le popolazioni africane (quindi discendenti da quei sapiens che non migrarono altrove) non solo non mostrano chiare tracce di questi incroci ma mancano nei racconti tramandati di villaggio in villaggio di incontri con esseri del tipo Yeti (VEDI NOTA a fondo pagina).
Tralasciando il discorso del Neanderthal o di un altro lontano cugino estinto come l'Homo floresiensis (in realtà un ramo indipendente dell'erectus) è possibile che tali avvistamenti abbiano riguardato delle specie di grandi primati, come il Gigantopithecus (estinto nel Pleistocene) o addirittura, e più semplicemente, di sottospecie locali di orsi bruni o orsi neri.
A tal proposito Sykes afferma: "è possibile che l'analisi del DNA dei reperti usando tecnologie moderne possa fornirci maggiori informazioni sulla co-localizzazione geografica e temporale di questi esseri (primati o meno) con l'Uomo".


Successivo articolo sul blog riguardo al Neanderthal qui . Altri articoli al tag --> "Antropologia Evolutiva"

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Nota
- L'ipotesi che la similitudine genetica fra sapiens e neanderthal sia dovuta a incroci fra le due quasi-specie (se fossero state specie diverse per definizione non avrebbero potuto generare una progenie fertile) è stata recentemente messa in discussione da un articolo pubblicato su PNAS. Secondo gli autori le omologie sarebbero state ereditate da un antenato comune ai due più che a incroci. Se questa ipotesi fosse corretta bisognerebbe spiegare perché tale omologia sapiens e neandethal è meno forte nelle popolazioni africane rispetto a quelle non africane.

- Effect of ancient population structure on the degree of polymorphism shared between modern human populations and ancient hominins
Anders Eriksson & Andrea Manica, PNAS , 2012 109 (35), pag. 13956–13960

Report dal mondo Pharma: anno 2011

Karl Thiel, un esperto del mondo Pharma-Biotech ed editorialista per Nature Biotechnology, ha stilato qualche tempo la classifica degli eventi di maggior impatto nell'industria biotecnologica nel 2011. Contiene valutazioni interessanti per capire quale direzione sta prendendo uno dei settori più importanti ed affascinanti nel campo della ricerca e sviluppo.
Per facilitare la comprensione anche ad i non addetti ad i lavori semplificherò al massimo i punti descritti.
Cominciamo dal decimo posto:

10) L'ente per il farmaco americano, la FDA, ha fornito incentivi economici (diretti ed indiretti) per spingere le aziende farmaceutiche, i cui farmaci erano bloccati per la richiesta di ulteriori verifiche (ovviamente costose), a completare gli studi

9) Il crescente interesse per i bio-similari. Questi non sono altro che l'equivalente del farmaco generico (che deriva da prodotto di sintesi chimica, es. ibuprofene) per i farmaci biologici (esempio l'insulina). Un fatto condizionato dalla imminente scadenza dei primi brevetti biotech risalenti agli anni 90.

8) La scomparsa, causa assorbimento, di biotech storiche come la Genzyme (presa da Sanofi-Aventis), Cephalon (da Teva) e prossimamente Human Genome Sciences.

7) Il collasso dell'Euro. Proprio così, una delle questioni più dibattute riguarda la tenuta, e quindi il potere di acquisto futuro, di un mercato importante quale quello europeo. La preparazione di piani di emergenza da parte delle grandi industrie è, doverosamente, in atto da tempo. Una delle opzioni riguarda il focalizzarsi sempre più su mercati immensi quale l'Indo-Cinese. Una prospettiva non così entusiasmante per noi visto che una delle parti più importanti che porta alla approvazione di un farmaco riguarda il profiling metabolico. Popolazioni diverse hanno frequenze alleliche diverse in geni quali il citocromo P450, etc.  Solo una analisi dettagliata del processamento metabolico del farmaco in una popolazione di riferimento permette di minimizzare gli effetti collaterali ed aumentare l'efficacia del farmaco. E la popolazione caucasica (pur variegata al suo interno) è diversa da quella orientale.

6) due nuovi farmaci per un tumore, il melanoma, fino ad ora praticamente intrattabile se non preso nelle primissime fasi e rimosso chirugicamente. Si tratta del Zelboraf (vemurafenib), prodotto dalla Genentech/Roche e il Yervoy (ipilimumab) della Bristol-Myers Squibb.

5) Il fenomeno Occupy Wall-Street ha investito anche, sebbene di striscio, il mondo Pharma. Si sono avute manifestazioni di protesta presso la Pfizer a causa della chiusura di due stabilimenti nel Connecticut a causa dei pessimi risultati annuali. Questo di per se sarebbe normale in un paese pragmatico come gli USA se non fosse che nello stesso momento molti top-manager dell'azienda si sono attribuiti un aumento di stipendio.

4) Epatite C. E' stato un anno importante per i soggetti con HCV. Sia la Vertex Pharmaceutical che la Merck hanno lanciato dei nuovi inibitori della proteasi virale (l'Incivek e il Victrelis). Oltre a questo, a dimostrazione dell'interesse nel campo, si è avuta l'acquisizione della Pharmasset da parte della Gilead Science, al costo di 11 miliardi di dollari (!!!) allo scopo di acquisire il pieno controllo di un farmaco sperimentale, sempre contro l'HCV.

3) Effetto Dendreon. Questa azienda farmaceutica è salita poco tempo fa sugli altari grazie al lancio del Provenge, una terapia che "istruisce" il sistema immunitario del paziente a riconoscere alcuni marcatori del tumore della prostata in modo paziente-specifico. Si tratta del primo vero vaccino approvato contro il cancro.
Tuttavia un problema nel meccanismo dei rimborsi ha fortemente rallentato l'effettivo utilizzo da parte dei pazienti di questa terapia. Questo ha trasformato un potenziale, e sicuro, blockbuster in un campanello di allarme per le altre aziende che vogliano intrapprendere un cammino simile. Il rischio di investimenti non coperti da ritorni economici, almeno di copertura, è un serio disincentivo.

2) il Lipitor, un farmaco blockbuster, è giunto al termine del periodo di esclusività per la Pfizer. Se da un lato questo è un bene per i consumatori che potranno avvalersi di un generico meno costoso, per la Pfizer è una gallina dalle uova d'oro in meno.

1) Un record di nuovi farmaci approvati. Si è passati dalle 21 NME (new molecules entities) approvate come farmaci nel 2010, alle 34 (dato aggiornato a novembre) del 2011. Un record inbattuto dal 2004.

Fonti Biospace

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Post successivo a riguardo: aggiornamento al mese di giugno

giocare contro la probabilità? Prima valuta le possibilità

Giocare pensando è il modo più intelligente per evitare di buttare via più soldi di quelli a cui si può rinunciare. Si ho usato il verbo corretto "rinunciare". Giocare non è un investimento ma una scommessa contro il banco. Poichè per ovvi motivi strutturali (statistica e valore dei premi) il banco vince sempre alla lunga, lo scommettitore come categoria (ma anche lo scommettitore seriale) perde.
Una frase del genere può sembrare banale ma non lo è. La psicologia comportamentale insegna che noi percepiamo in modo diverso le perdite reali ed i guadagni potenziali. Di fronte ad un guadagno elevato sebbene improbabile non ci curiamo delle perdite che si vanno accumulando. La soddisfazione di una vincita è di gran lunga amplificata rispetto alla delusione di una perdita. La volontà di recuperare i soldi persi fa amplificare le perdite.

I campi di applicazione di queste teorie sono ampi e vanno dalla teoria dei giochi, per quanto riguarda l'ambito statistico e l'approccio a sistemi decisionali complessi, alla psico-economia. Quest'ultima, studiata in corsi di laurea specifici,  affronta lo studio di una delle forze più importanti che influenzano i mercati: la componente umana nel processo decisionale.

Fatte questa introduzione, vediamo di fissare alcuni punti
  • Prima di tutto il non perdere è una vincita. Quindi il gioco in cui il premio base (che in genere corrisponde alla puntata) sia pari alla probabilità che ciò avvenga,  è il gioco da preferire.

per facilitare il confronto le vincite sono rapportate alla giocata minima (x = numero di volte).
Nella tabella sono riportati a titolo di esempio alcuni valori che permettono di valutare quanto detto sopra. Facciamo l'esempio del gioco più onesto, la Roulette. Nella roulette la probabilità che esca rosso o nero (pari o dispari, etc) è di 1 su 2. La vincità è di due volte: puntando 1 euro si ottiene indietro quello che si è puntato più l'euro di vincita. Il giocatore ed il banco hanno le stesse probabilità.
Onesto, no? Eppure tutti, ma proprio tutti, gli altri giochi non sono così onesti.  L'importo delle vincite è minore della probabilità che cioò avvenga. In conseguenza un giocatore seriale è certo di perdere più di quello che si è puntato. I veri vincitori sono quelli che giocano una-tantum e, per puro caso, vincono uno fra i premi massimi.
Ad esempio il singolo numero al lotto ha una P di 1/18 eppure paga circa 11 volte la posta. Cosa implica? Se giochi 18 volte (18 euro) vinci circa 11 euro derivanti dal premio base (il più probabile). Certamente ci sono oscillazioni intorno alla media. Queste sono tanto minori quanto maggiore è il numero di giocate. Tuttavia su un milione di giocate il valore della vincita (derivante solo dal premio base) sarebbe molto prossimo a 100 mila euro (su un milione giocato) ... .
  • Il modo migliore di giocare senza "perdere"? Tralasciando l'ovvio non-giocare,  potremmo dire "giocare la cifra che si sarebbe spesa per fare altro" dove per altro si deve RIGOROSAMENTE intendere qualcosa di assolutamente superfluo. Ad esempio, invece di prendere cappuccio e briosche il sabato mattina uso i due euro per comprarmi una schedina da 2 euro per il supernalotto. Con una probabilità superiore al 99,9% non vinco (vedi frequenza sopra) tuttavia avrò comprato una possibilità seppur infinitesima ad un costo teorico di zero.
  • Non esiste il concetto di numeri ritardatari. Non esiste la memoria nelle estrazioni. Ogni estrazione è unica. Se è vero che su un numero infinito di estrazioni la curva gaussiana di distribuzione vedrà una deviazione standard minima è anche vero che nel mondo reale il numero di estrazioni in cui si riscontra un ritardatario sono così limitate da essere folle usare questo criterio per continuare a giocare quel numero sperando che esca.
  • Non ho considerato i Gratta e Vinci, sebbene abbia fatto i calcoli anche per quelli, per un motivo fondamentale. A differenza dei giochi ad estrazione dove la probabilità di vincere il premio massimo è sempre uguale ad ogni estrazione, nel caso delle lotterie cartacee non lo è. Per ogni lotto completo di biglietti esiste un numero finito di premi massimi: ad esempio ogni 30 MLN di biglietti del Maxi Miliardario ci sono 4 vincenti da 5 MLN (vedi la gazzetta ufficiale). Quindi la probabilità è finita ed è teoricamente di 1 ogni 7,5 MLN. Teoricamente però. Infatti ogni volta che si legge sul giornale "biglietto vincente venduto a xxx", la probabilità reale scende ... fino a zero. Bella fregatura neh?
  • La percezione approssimativa del valore che i numeri trasmettono è un grosso problema. Facciamo un esempio semplice semplice. Vincere al Superenalotto implica 1 possibilità ogni 622 milioni circa. Trasformiamo questo numero in un concetto visivo: se tutti gli abitanti degli USA e delle EU comprassero un biglietto diverso ciascuno, uno solo di loro (che viva in un villaggio norvegese, in un appartemento romano, nelle praterie USA o a Santa Barbara sull'oceano pacifico) avrebbe sicuramente il biglietto vincente. Fareste affidamento su una probabilità del genere per investire una quota importante in un anno dei vostri soldi?
  • Le scommesse sportive sono forse le più oneste (calcio-scommesse permettendo). E' un gioco non legato totalmente al caso.
  • Il poker (o similari) dal vivo (sui giochi online con giocatori virtuali ho molte riserve) è forse l'unico caso in cui la sfida è veramente alla pari con un altro giocatore.
Queste informazioni, seppure estremamente sintetiche, spiegano per quale motivo il gioco sia estremamente rischioso se fatto senza una consapevolezza statistica. 
Questo è il motivo per cui la pubblicità del 10eLotto con Claudio Bisio mi risulta estremamente fastidiosa.


Il gioco d'azzardo: non una dipendenza ma un disturbo ossessivo

C'è una pubblicità che mi innervosisce. In realtà la pubblicità in se è simpatica e ben fatta. E' l'oggetto pubblicitario ed il personaggio che lo sponsorizza ad innervosirmi. Parlo degli spot "10eLotto" con Claudio Bisio in cui viene data non solo l'impressione che si vinca al primo colpo ma anche che puntare i soldi sia un gioco.

Non avrei nulla da obiettare se non avessi visto troppe volte le ricevitorie del centro piene di persone che acquistano un biglietto dietro l'altro e aspettano ansiose prima e frustrate poi che compaiano sul monitor i numeri dell'estrazione (una ogni 5 minuti). Ripeto l'obiezione non è il gioco in se, se considerato come tale cioè l'acquisto di un biglietto ogni tanto, quanto quello che la pubblicità trasmette: "si vince ed è fico".
Lascio in un altro post (qui) i dati numerici sulle probabilità di vincita, l'unico modo per valutare quanto un gioco sia leale: un gioco è tale se,  ovviamente in un contesto privo di illeciti, la cifra vinta è correttamente bilanciata dalla probabilità che ciò avvenga.

Ma torniamo al motivo principale di questo topic.
In una intervista fatta a Fadi Anjoul, uno psicologo clinico della University of Sidney che lavora da 15 anni presso la locale clinica per il trattamento del gioco d'azzardo (Gambling Treatment Clinic), l'intervistato afferma che uno degli errori più comuni è quello di considerare il giocatore come un drogato. Questo errore si ripercuote nella terapia usata ed è quindi alla base della scarsa efficacia della stessa che comporta la frequente ricaduta nel gioco compulsivo al termine della terapia.
"L'idea della dipendenza è una idea molto diffusa ma non accurata", dice il clinico, "infatti se i comportamenti compulsivi possono apparire fra loro simili, in realtà nei giocatori manca totalmente la sintomatologia clinica con fenomeni fisiologici quali la "tolleranza" e la "rimozione" (...). Per questo motivo è molto più corretto inquadrare il giocatore compulsivo come un paziente affetto da una ossessione non guidata. Questo implica che il soggetto NON è, come i tossicodipendenti, sotto l'influsso di uno squilibrio biologico al di fuori della possibilità di autocontrollo. E' più corretto vederlo come un soggetto esposto in modo continuo a scelte comportamentali prive di vera informazione".
E l'assenza di informazione, aggiungo io, ha un ruolo importante nel giocare senza pensare.
La terapia sviluppata dal clinico è chiamata terapia cognitiva, ed ha lo scopo di aiutare la persona a capire le ragioni che lo spingono a giocare, a valutare la situazione in cui si trovano e a cercare di cambiare il modo in cui si interfacciano al gioco. 
Le terapie sviluppate sembrano dare risultati eccellenti tanto da fare affermare al professor Alex Blaszczynski, direttore della University’s School of Psychology ed esperto mondiale in queste problematiche " i risultati della nuova terapia cognitiva sono estremamente buoni."
Un problema, quello del gioco, che ha l'effetto perverso di fare aumentare nei periodi di crisi economica il numero di nuovi poveri.

Le malattie evitabili: una percentuale troppo alta.

Vi è un gruppo di malattie molto comuni e ad alto impatto umano e sociale conosciuto come i killer silenziosi. o usando un termine più tecnico ma ugualmente efficace non-communicable diseases (NCDs). Sebbene non si tratti infatti di malattie trasmissibili in senso stretto vi è in realtà un certo grado di trasmissione dovuta alla emulazione di comportamenti potenzialmente dannosi.
Fra le patologie che rientrano in questo gruppo abbiamo il diabete, malattie cardiovascolari e respiratorie croniche, il cancro (escludendo quelli in cui il coinvolgimento di un virus è noto) e le malattie mentali. I mandanti di queste malattie sono diversi e si chiamano alcool, tabacco, alimentazione, ... .
Le NCDs rappresentano la principale causa di morte (63%) ed al suo interno le malattie cardiovascolari, seguite da quelle respiratorie croniche, sono quelle numericamente più importanti. Il dato è ancora più interessante se si considera che la frequenza è maggiore nelle fasce a basso reddito. A tal proposito un articolo di Nick Wareham - direttore sia al Medical Research Council che al Epidemiology Unit and Cambridge’s Centre for Diet and Activity Research (CEDAR)  - evidenzia due dati interessanti riguardo ad i comportamenti alimentari dannosi:
  •  La percentuale di obesità fra gli homeless non è come si potrebbe pensare inferiore rispetto alla popolazione standard ma uguale se non superiore. Questo farebbe pensare al fatto che l'alimentazione è, avendo possibilità di scelta, fortemente squilibrata verso i cibi spazzatura.
  • Tuttavia nello studio si è osservato che anche fornendo in modo continuativo e senza sostanziali limitazioni attraverso enti appositi la possibilità di scegliere il tipo di cibo, la maggior parte dei soggetti si orientava verso cibo più saporito (quindi grasso) e non cibo sano ed ugualmente sostanzioso.
 Questi dati sono sostanzialmente gli stessi quando il campione analizzato è formato da famiglie a reddito e cultura medio-bassi. Il che indica come la componente culturale e formativa abbia un ruolo fondamentale nella genesi di comportamenti - non solo - alimentari il cui impatto economico negativo è stimato in 47 mila miliardi di dollari nei paesi occidentali. Il problema è che le stime indicano una crescita delle morti dovute a NCDs nel 2030 quasi doppia dell'attuale, per una combinazione nefasta che lega la crisi economica da una parte (legame fra stress e comportamenti non salutari) e l'aumentato accesso a cibo in eccesso da parte di quei popoli la cui dieta era fino ad oggi limitata

In conclusione, il comportamento è anche esso un fattore di rischio per le NCDs, spesso in associazione con fattori biologici, comportamentali e sociali. Ma a differenza di questi ultimi può essere influenzato in positivo attraverso i giusti incentivi, un ambiente di sostegno ed una maggiore consapevolezza degli effetti positivi di un atteggiamento pro-attivo (dieta, attività fisica, ...). Trasferire questa concetto alle persone è la vera sfida dei prossimi anni.

Aspirina e tumore della prostata

Se mai dovessero istituire un premio per il farmaco più eclettico, uno dei candidati, anzi il vincitore, sarebbe l'aspirina.
Fra le tante proprietà del prodotto estratto originariamente dal salice (Salix alba) abbiamo l'attività anti-infiammatoria, anti-aggregante, anti-dolorifica e quella anti-tumorale.
Ma se fino ad ora le sue proprietà anti-tumorali sembravano indirizzate prevalentemente al tumore del colon, ora un nuovo studio pubblicato sul British Journal of Cancer (Shebl et al) fa pensare che la sua azione possa essere estesa al tumore della prostata.
I dati derivano da un imponente studio epidemiologico sul rischio del tumore alla prostata che ha coinvolto 29450 uomini di età fra 55-74 anni, reclutati per lo studio nel periodo fra il 1993 e il 2001.
I soggetti sono stati seguiti dal primo screening fino al dicembre 2009 e durante questo periodo i casi di cancro identificati sono stati 3575. Dopo avere ripulito adeguatamente i dati statistici dai fattori cosidetti confondenti, è stato calcolato il fattore di rischio per quegli individui che prendevano meno o almeno una aspirina al giorno. Il rischio relativo è risultato inferiore in modo significativo per i soggetti di età superiore ad i 65 anni che prendevano almeno una aspirina al giorno, una dose giustificata da patologie concomitanti di tipo cardiovascolare o artritico.
Lo stesso tipo di analisi non ha trovato invece alcun effetto protettivo per un altro anti-infiammatorio ampiamente usato, l'ibuprofene. Chiara indicazione che non è la terapia anti-infiammatoria in se ad essere efficace ma il principio attivo, o meglio la combinazione fra il salicilato ed i vari eccipienti presenti, presente nell'aspirina.

Quali altre piacevoli sorprese ci riserverà in futuro questo farmaco oramai centenario?



L'olfatto, le cellule staminali e ... gli esperimenti nucleari nell'atmosfera: una strana ma utile relazione

Non è un mistero che l'essere umano abbia una sensibilità olfattiva nettamente inferiore non solo a quella di gran parte dei mammiferi ma anche a quella dei primati. Le cause generalmente addotte sono legate alla diminuita importanza, rispetto ad altre capacità sensoriali, dell'olfatto nella storia evolutiva umana.
Il legame fra l'olfatto e le cellule staminali neuronali è un aspetto particolare del fenomeno conosciuto come plasticità neuronale. Il cervello non è costituito, come si riteneva fino ad una decina di anni fa, da un "patrimonio" di cellule differenziate con cui noi nasciamo e la cui perdita è insostituibile. Esistono infatti delle regioni cerebrali in cui risiedono le cellule indifferenziate staminali, la cui funzione è di assicurare lo sviluppo, la plasticità neuronale e, in caso di danni, di permettere un certo grado di recupero funzionale fornendo delle cellule di riserva. Cellule che durante la migrazione da queste zone magazzino verso il luogo bersaglio si differenziano fino a trasformarsi nella cellula mancante
Tre sono le regioni cerebrali in cui risiedono le cellule staminali neuronali: il giro dentato nell'ippocampo e la zona sottoventricolare (SVZ) nel ventricolo laterale hanno un ruolo importante nella formazione della memoria e nella preservazione della funzionalità cerebrale; il bulbo olfattivo è coinvolto invece nel riconoscimento degli odori. 
La caratterizzazione fine di queste regioni nell'uomo è ancora limitata, se confrontata con le conoscenze negli altri mammiferi. Sviluppare un metodo di indagine adeguato nell'uomo è stato, ed è, un compito arduo. E qui arriviamo al titolo del topic odierno. La serie di esperimenti nucleari compiuta nell'atmosfera negli anni '50/'60, prima dei trattati che li bandirono, ha portato ad una variazione dei livelli di carbonio-14 atmosferici. E questa non è una bella cosa. Variazioni minime ma pur sempre registrabili. Tuttavia il gruppo di Jonas Frisen ha pensato di sfruttare questa anomalia per permettere di datare l'anzianità delle cellule presenti nel bulbo olfattivo di un essere umano. Questo allo scopo di capire se anche nell'uomo ci fosse una intensa attività plastica - di rinnovamento - in questa regione.
Si è sfruttato il carbonio-14 non per scopi di datazione classici (datare campioni organici vecchi di millenni), ma per misurare i livelli di 14C incorporati nel DNA delle cellule neuronali e confrontarli con i livelli attesi se l'incorporazione del radioisotopo fosse avvenuta recentemente (vedi nota a margine per un breve excursus sulla formazione del 14C).
Il lavoro, apparso a maggio su Neuron, indica chiaramente che le cellule analizzate non presentavano traccia di duplicazioni recenti del DNA. In altri termini le cellule nel bulbo olfattivo non si erano replicate negli ultimi decenni di vita dei soggetti analizzati ma si erano "fermate" al raggiungimento della maturità dei soggetti stessi.
Il livelli di carbonio 14 erano infatti compatibili con i livelli atmosferici presenti all'epoca della adolescenza degli individui testati.

Un dato questo diverso da quanto noto per gli altri primati, ma che si ben si adatta alla nostra carenza, relativamente parlando, olfattiva.

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Nota aggiuntiva
  • Un isotopo definisce un gruppo di elementi, nuclidi, che si differenziano fra loro per il numero di massa (numero di protoni e neutroni) avendo un uguale numero atomico (numero di protoni). Quindi gli isotopi identificano un uguale elemento con identiche proprietà chimiche ma, in genere, diversa stabilità. Esempi sono il carbonio-12, carbonio-13, carbonio-14, etc.
  • Il carbonio-14 è un isotopo che si origina negli strati più esterni dell'atmosfera in seguito al bombardamento neutronico (di origine cosmica) dell'azoto-14.
  • La reazione di formazione può essere descritta come [14N(n,p)14C]. Più semplicemente, un atomo di N-14  acquista un neutrone  e cede un protone
1n + 14N → 14C + 1p
Il  carbonio-14 risultante è instabile e decade di nuovo ad azoto-14 attraverso la trasformazione  isobarica (emivita circa 5700 anni)
neutrone = protone +  ß- + antineutrino
  • Il rapporto C14 e C12 è stabile (e quindi prevedibile) nella bassa atmosfera. In un organismo vivente questo rapporto viene mantenuto grazie al continuo apporto di nuovo materiale organico (quindi a base carbonio). Alla morte dell'organismo il rapporto comincerà a cambiare a causa della conversione unidirezionale del C14 in N14. Sarà quindi possibile, in un organismo fossile, ottenere una stima dell'età del reperto.
  • Il metodo della datazione con C14 è ideale per campioni di età compresa fra poche centinaia e 50.000 anni.
  • La metodica sopra descritta non è quindi una datazione standard ma rappresenta una interessante modifica, sebbene di uso limitato.

Acqua su, anzi no, sotto Titano

Il continuo flusso di dati della sonda Cassini ha fornito nuovi dati su Titano, la luna più grande di Saturno: sotto la superficie ghiacciata si trova un oceano di acqua allo stato liquido.
Secondo Paolo Tortora uno degli autori dell'articolo apparso su Science poche settimane fa, quando Titano passa molto vicino a Saturno si deforma, a causa della forza di gravità, che, in prossimità del pianeta, aumenta notevolmente. Un fenomeno alla base delle maree nel rapporto Terra-Luna ma che su Titano viene notevolmente rinforzato dalla grande massa di Saturno.
I ricercatori usano come similutidine visiva per descrivere l'azione gravitazionale di Saturno su Titano, quella di un pallone da rugby. Una forma che viene persa a favore del normale aspetto sferoide quando l'orbita si allontana dal suo punto di massima vicinanza. Se la struttura di Titano fosse rigida, l'attrazione gravitazionale di Saturno generebbe delle maree solide, o rigonfiamenti, inferiori ad un metro di altezza. Poichè i dati di Cassini indicano che le le deformazioni sono maggiori di 10 metri, ne consegue che la parte interna non è completamente solida: l'ipotesi formulata è che ci debba essere un oceano nascosto in profondità (fino a 250 km al di sotto della crosta ghiacciata).
La ricerca dell’acqua, un obiettivo a lungo perseguito dalla ricerca astronomica vicina (Luna, Marte, …) e lontana (pianeti extra-sistema solare) ha conquistato un altro tassello importante.

Link della notizia della NASA.

Vedi anche --> "la vera immagine di Titano"

Un nuovo farmaco per il diabete di tipo II

 Un nuovo farmaco anti-diabetico, il Bydureon, si affaccia infine nel mercato USA dopo che la sua approvazione era stata messa in stand-by nel 2010 a causa di ulteriori test richiesti sulla sua sicurezza.

IL Byrudeon è un miglioramento della Exenatide (Byetta), un analogo del GLP-1, che grazie alla sua azione prolungata ne facilita l'utilizzo. Si passa da una assunzione 2 volte al giorno del Byetta o a quella giornaliera del Victoza (liraglutide) ad una singola assunzione settimanale con il Bydureon.

Considerando l'efficacienza farmacologica nel controllare i livelli glicemici, il Victoza sembra leggermente migliore del Byetta e da un punto di vista prettamente pratico di utilizzo del Byrudeon. Tuttavia la minore frequenza di assunzione richiesta fa ritenere gli analisti che il Byrudeon potrà catturare una consistente fetta di utenza.

(articolo successivo sul farmaco --> qui)


Bibliografia utile
Nature Biotechnology
Documentazione in PDF dell'Ente per il Farmaco Europeo, EMA.

Gli indumenti e l'Homo sapiens

A volte le domande apparentemente più improbabili sono quelle che permettono di capire meglio alcuni metodi scientifici.
Un metodo quello dei "perché?" ampiamente usato da molta letteratura di divulgazione scientifica che, solo rimanendo nell'ambito italiano, comprende autori come Angela, Frova, etc. In ambito radiofonico segnalo la trasmissione radiofonica "Moebius" condotta da Federico Pedrotti su Radio24. Ed è proprio durante una di queste trasmissioni che è emerso il quesito che da il titolo a questo post :
si può datare approssimativamente quando durante l'evoluzione del genere Homo si sia passati dal naturale nudismo all'utilizzo di indumenti, ovviamente, semplici ma indossati costantemente?

E' superfluo sottolineare come le condizioni ambientali di per se siano un fattore secondario alla "vestizione". E' infatti più corretto pensare che la conquista di ambienti inospitali sia secondaria alla capacità di affrontare almeno sul medio termine le avverse condizioni. Se da una parte gli ominidi del Borneo o in genere della zona equatoriale/sub-tropicale non avevano/hanno grossi motivi per acquisire il concetto di vestizione usando le pelli di altri animali è altrettanto evidente che in altri ambienti anche solo temperati questo "passo" ha fornito un vantaggio selettivo molto forte.
Ricordo anche che nessun altro primate antropomorfo ha insito questo concetto, se tralasciamo i poveri scimpanzé a cui viene insegnato  a mettersi i pantaloni per puro diletto dell'ammaestratore.
Molte sono le variabili che possono avere influito (perdita di una "pelliccia protettiva", etc) ma focalizzandosi solo su di esse si cadrebbe nel rischio di girare in tondo con quesiti del tipo "è nato prima l'uovo o la gallina".
Punto di partenza è che la specie sapiens è sostanzialmente priva (con eccezioni a livello individuale più che di popolazione ed etnia) di una copertura "pelosa" minimamente utile, sia che si considerino etnie adattate da migliaia di anni a climi freddi che tropicali. Il concetto di vestizione deve essere successivo quindi alla perdita di una "pelliccia".

Vale la pensa allora focalizzarsi su marcatori indiretti ma correlati alla vestizione. Quale indicatore migliore dei pidocchi?
Questi insetti sono infatti come tutti gli esseri viventi soggetti alla selezione naturale, in altri termini evolvono. Possono quindi essere studiati geneticamente, le diverse specie analizzate e la distanza genetica tra le diverse specie caratterizzata (a quanto tempo fa risale il progenitore comune?). Il punto nodale è che i pidocchi che usano come ospite abituale l'essere umano si distinguono in due categorie generali: i pidocchi dei capelli e quelli della cute a contatto con i vestiti. Queste due specie si sono adattate a due tipi di nutrimento diversi, ad esempio le cellule morte del cuoio capelluto nel primo caso. Il fenomeno della speciazione implica in primis la perdita della capacità di incrociarsi fra loro, e agli studiosi permette di seguire le differenze genetiche che si vanno sedimentando sui diversi rami evolutivi. Dalla analisi delle differenze esistenti in alcune sequenze del DNA e calcolando il tasso di mutazione standard è possibile calcolare il momento in cui si è esistito il progenitore comune. Un dato da cui si può ricavare il periodo in cui non esisteva la nicchia preferita dal pidocchio dei vestiti: circa 170 mila anni fa.
(fonte:  Andrew Kitchen dell´Università di Pennsylvania; Moebius)

Articolo correlato --> Come dormivano i Flintstones

Diabete di tipo II e melatonina

Secondo uno studio pubblicato su Nature Genetics e condotto da Philippe Froguel della School of Public Health presso l'Imperial College London, esiste un legame fra il diabete di tipo II e mutazioni nel recettore della melatonina, un gene coinvolto nella regolazione del ritmo circadiano.
Un legame questo già ipotizzato visto che le persone con frequenti cambi di turno lavorativo (diurno/notturno) sono a maggior rischio di diabete di tipo II e di patologie cardiovascolari. Una associazione non del tutto sorprendente dato che la melatonina regola il rilascio dell'insulina e quindi sulla iperglicemia. Le mutazioni, o meglio le varianti, ora trovate nel gene MT2 (un recettore della melatonina) sono associate ad un aumentato rischio, fino a 6 volte, di diabete.

In estrema sintesi su 7632 persone studiate sono state trovate 40 varianti associabili al diabete, quattro delle quali estremamente rare ma molto efficienti nel rendere il recettore della melatonina non funzionante.

Diabete: stare attenti alla glicemia non basta

Il diabete di tipo II è una malattia metabolica caratterizzata da glicemia alta in un contesto di insulino-resistenza e insulino-deficienza relativa.
 La terapia attuale è volta a controllare l'iperglicemia per prevenire problematiche serie sul lungo periodo. Fra queste una delle più gravi è l'insufficienza renale. 
Uno studio condotto dalla Yale School of Medicine suggerisce che focalizzarsi sulla glicemia non è sufficiente per prevenire la comparsa di questa problematica.
Lo metanalisi condotta da Steven G. Coca e colleghi è consistita nell'analisi di 7 studi clinici standard (randomizzati, etc) che in totale ha coinvolto 28000 adulti diabetici seguiti per un periodo di tempo fino a 15 anni. 
Da questa analisi è risultato che il "semplice" approccio mirante a tenere sotto controllo i livelli di glucosio ematico non ha conseguenze significative nel ridurre il rischio di insufficienza renale e quindi nella frequenza del ricorso alla dialisi e/o a decesso.
Secondo Coca il controllo dei livelli glicemici porta sicuramente a miglioramenti in alcuni parametri renali senza tuttavia alterarne l'esito finale.
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Archives of Internal Medicine, Vol. 172, No. 10 (May 28, 2012)
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