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Un nuovo modello per capire il funzionamente del virus di Eptein-Barr

Il virus di Epstein Barr (EBV), un membro della famiglia degli Herpes virus, è un virus ampiamente diffuso ed è noto alla gran parte delle persone per essere la causa della "malattia del bacio", la mononucleosi. Una malattia tutto sommato meno fastidiosa del raffreddore visto che nella stragrande maggioranza dei casi è asintomatica, spesso confusa con uno dei tanti malanni di stagione, e comporta un leggero rigonfiamento delle ghiandole associato ad una faringite. A differenza delle malattie di stagione tuttavia la fase sintomatica compare una volta nella vita dopo di che ne siamo immunizzati. L'ampia diffusione nella popolazione è provata dalla analisi anticorpale che mostra positività nel 90% dei post-adolescenti testati.
Nonostante la sua ampia diffusione e sostanziale innocuità questo virus è da molti anni un enigma in quanto è associato in alcune popolazioni a sintomatologie più gravi. Pur essendo nota, ed ampiamente usata in laboratorio in condizioni di contenimento sanitario medio-alto, la sua capacità di immortalizzare i linfociti B (molto utile per mantenere in coltura continua queste cellule che altrimenti si fermerebbero dopo meno di 40 divsioni, vedi il fenomeno Senescenza) nella popolazione generale questo non si traduce quasi mai in malattie del sangue. Il quasi è alla base dell'enigma in quanto lo stesso tipo di virus, NON ceppi più virulenti, può in condizioni particolari e non del tutto chiarite causare malattie di tipo tumorale. I punti di domanda sono molteplici e sembrano portare in una direzione dove non è tanto il virus a fare la differenza quanto l'individuo infettato. E quando parlo di individuo lo considero come il prodotto di un determinanto background genetico e di specifici stress ambientali. Non si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che lo stesso virus sia in grado di generare malattie tanto diverse fra loro in popolazioni ed ambienti geografici assolutamente distinti. L'EBV è infatti associato a:
- asintomaticità (o lieve mononucleosi) nella maggior parte dei casi
- carcinoma nasofaringeo, maggior frequenza in popolazioni della Cina e Turchia.
- linfoma di Burkitt, alta frequenza in popolazioni dell'Africa equatoriale.
- alcuni tipi di linfoma
Tale distribuzione geografico/antropologica ha fatto ipotizzare che alcune popolazioni siano maggiormente sensibile di altre a causa di un insieme di componenti genetiche facilitanti, ambientali (condizioni igeniche, cibo scarso, … ) e di depressione immunitaria (a causa della malaria, etc).

Di interesse quindi un articolo pubblicato su Virology questa primavera dal team di Nicola Mason della University of Pennsylvania, in cui si dimostra non solo che l'EBV è in grado di infettare i cani ma è anche responsabile dei linfomi che questi sviluppano. Questa osservazione è di fondamentale rilevanza in quanto fornisce un modello animale, prima mancante, per lo studio della malattia virale e per lo sviluppo di terapie adeguate. Fino ad ora gli unici modelli disponibili, a parte le colture cellulari (importanti ma assolutamente inadeguate per lo studio di meccanismi multi-livello), erano i primati non-umani.
 Nonostante quello che molti animalisti pensano, i primati sono un incubo per lo sviluppo dei farmaci e vengono usati solo in casi molto limitati a causa sia dei costi di mantenimento abnormi, ricordo che la statistica impone un numero adeguato, che del lungo ciclo vitale. Ricordo che durante lo sviluppo di un farmaco vengono effettuati test sia di teratogenicità che di mutagenesi: qualora i test preliminari fossero dubbi è obbligatorio fare test su animali non roditori (cane o scimmia) per escludere effetti indesiderati sulla progenie dei soggetti trattati. E' evidente che fare questi test su roditori (tempo necessario fra gestazione e fertilità della progenie è di pochi mesi), su cani (tempo richiesto è di 6-18 mesi), o su primati (tempo necessario alcuni anni) fa si che la possibilità di abbandonare i primati sia accolta con favore sia per motivi etici che finanziari.
Tornando al modello canino, si è visto che animali esposti al nostro stesso virus si ammalano di linfoma con una frequenza di 1 su 8. Al contrario nei paesi occidentali, dove si è detto sopra la frequenza di infettati è del 90 % "solo" 19 persone ogni 100.000 sviluppano il linfoma. I linfomi canini inoltre presentavano le tracce genetiche del virus con frequenza significativamente maggiore dei cani sani. Il cane quindi è un modello ideale in quanto, data la sua sensibilità, permette di abbassare notevolmente i numeri richiesti per i test.
Quale sia il motivo di questa spontanea sensibilità non è noto. Facile tuttavia ipotizzare che il virus si sia adattato, nelle migliaia di generazioni (nell'arco di 15.000 anni) in cui cane e uomo hanno condiviso lo stesso ambiente, ad un ospite duplice. I meccanismi di difesa immunitaria del cane sono stati molto probabilmente meno sollecitati a sviluppare contromisure adeguate a causa del minor impatto sulla fitness che un linfoma ha su un animale che vive in natura fra i 5 ed i 10 anni (tempo più che sufficiente per riprodursi) e l'uomo che ha dovuto essere selezionato per vivere molto più a lungo per potere assicurare una discendenza vitale (quindi l'Homo troppo sensibile al virus è stato cancellato evolutivamente).
Il fatto che alcuni cani (ad esmpio i golden retriever) siano più suscettibili di altri a sviluppare linfomi è molto interessante. Fornirà le basi per comprendere definitivamente perchè alcune popolazioni umane sviluppino, in seguito all'infezione con EBV, più facilmente tumori di vario tipo rispetto alla popolazione standard occidentale.

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