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I vermi. Un aiuto per la colite cronica

L'articolo citato in questo topic - Nature (2012) vol. 491, pag. 183–185

I ricercatori biomedici sanno da anni quanto importante sia l'ecosistema microbico (microbioma) che ospitiamo nel nostro apparato gastrointestinale e sulla cute. Un rapporto di mutua utilità che ovviamente non è limitato all'essere umano. Gli esempi sono innumerevoli, fra tutti ricordo i ruminanti che ospitano nel rumine i batteri necessari al processamento della cellulosa altrimenti indigeribile. Alterare tale equilibrio può avere conseguenze fatali. Nel ruminante un trattamento antibiotico massiccio e ad ampio spettro  priverebbe l'animale dei batteri e quindi della capacità di assorbire i nutrienti dal cibo ingerito.

Pur non avendo noi primati un rumine ospitiamo anche noi una vasta popolazione microbica nelle superfici accessibili del nostro corpo. Una popolazione composta da batteri, funghi e protozoi che competono fra loro per il cibo fino a raggiungere un equilibrio "soddisfacente" per tutti. Alterazioni di questo equilibrio sono alla base di problemi di varia natura: 
  • mancanza dei batteri necessari al metabolismo delle vitamine; 
  • i batteri patogeni possono aumentare di numero per assenza di competizione locale e indurre malattie;
  • una carente esposizione ai "microbi" durante la giovane età genera un sistema immunitario meno "addestrato" e quindi una maggiore propensione a malattie infettive e di tipo allergico. L'esperienza comune insegna che i bambini iperprotetti sviluppano con maggiore frequenza malattie asmatiche e sono più sensibili alle infezioni. Per dirla in termini semplici è come se la continua esposizione all'ambiente rendesse il sistema di sorveglianza più capace di rispondere in modo specifico e con un uso della forza modulata alla serietà della sfida. Gran parte degli episodi asmatici, reazioni autoimmunitari e di ipersensibilità sono la conseguenza di una reazione eccessiva (o sbagliata nella scelta del bersaglio) del sistema immunitario.
Un esempio dei batteri che ospitiamo (®Scientific American)

Fatte queste premesse si comprende meglio l'interesse che ha suscitato in me l'articolo di Joel Weinstock, pubblicato a novembre su Nature
Il titolo è tutto un programma "Il ritorno del verme".
Semplificando al massimo i concetti da lui espressi, senza snaturarne il significato, l'articolo riassume gli studi clinici svolti da Weinstock riguardo l'utilizzo di vermi microscopi per la cura di malattie croniche dell'apparato gastrointestinale.
Punto di partenza delle sue considerazioni è la dimostrata correlazione fra livelli igienici (cibo e acqua) e malattie croniche di origine autoimmunitaria.
Prima dell'avvento degli antibiotici le infezioni intestinali uccidevano (e uccidono in certi paesi) un bambino su cinque. Di fatto i responsabili non sono solo i batteri ma anche amebe, funghi e vermi.
Gli antibiotici e l'attenzione alle norme igieniche hanno di fatto "sterilizzato" parte dell'ambiente con cui entriamo in contatto. Alla importante riduzione di morbilità derivante da tali malattie si contrappone però l'aumento di malattie una volta sconosciute come la sindrome del colon irritabile, una malattia ad eziologia non chiarissima ma in cui la componente autoimmunitaria gioca un ruolo fondamentale.

L'autore, un famoso parassitologo, dovendo scrivere un capitolo di un libro sull'argomento, si trovò a ripensare l'importanza dei parassiti nelle malattie intestinali. Il concetto da cui partire è semplice: il miglior parassita non è quello che uccide l'ospite (uccide anche se stesso) ma quello che pur "usandolo"  cronicizza la malattia. Parassita e parassitato coevolvono attraverso le migliaia di generazioni fino a raggiungere un livello di coesistenza "asintomatica". Infatti se da una parte i parassiti più virulenti hanno un maggior successo momentaneo essi causano in breve una penuria di portatori.
L'autore si chiese allora se e come la "de-vermizzazione" dell'ambiente fosse uno degli elementi chiave per spiegare l'aumento delle malattie croniche intestinali. La risposta a tale quesito è si, esiste una correlazione.
Se esiste la correlazione allora dovrebbe essere possibile contrastare queste malattie ripristinando un microambiente intestinale più naturale. In che modo? Ripopolando l'intestino degli ospiti "naturali". Ovviamente usando dei parassiti non patogeni cioè non in grado di sopravvivere a lungo nell'uomo e non producenti tossine. Anche i parassiti ovviamente hanno delle preferenze negli ospiti. Sempre rimandendo in tema di vermi e parassiti, noi e i nostri amici cani non ci scambiamo i parassiti (influenza, pulci, etc).

Weinston evidenziò che il morbo di Crohn apparve prima nelle popolazioni che vivevano in condizioni igieniche migliori e nelle zone settentrionali (meno favorevoli alla sopravvivenza delle uova all'aperto). Inoltre gli afro-americani e gli abitanti dell'est europa (entrambi a lungo vissuti in condizioni svantaggiate) hanno solo recentemente visto la comparsa di queste malattie croniche. Ancora oggi i nativi americani delle riserve presentano alti livelli di infezioni intestinali ma una frequenza di malattie autoimmuni nettamente inferiore a quella degli abitanti bianchi che vivono nelle zone circostanti.

Certo l'idea di usare dei vermi per ripristinare l'equilibrio intestinale potrebbe sembrare ai più non proprio intelligente. Ma è quello che avrebbero pensato i nostri genitori negli anni '50 al pensiero di noi ghiotti consumatori di cibi probiotici (cioè con organismi microscopi vivi e vegeti).
Le sperimentazioni in tale ambito sono in atto da tempo e di alcune di queste ne ho già parlato (qui).

Mi rendo conto che è necessario chiarire cosa si intende per vermi. In linea generale si tratta di elminti (ben diversi dai vermi della terra tipo gli anellidi) che, parassiti "di professione", hanno modalità infettive specifiche. Alcuni di questi colonizzano l'intestino dopo che le loro uova sono state ingerite insieme ad acqua/cibo contaminato. Altri (anchilostomi o inglese hookworms) invece penetrano attraverso la pelle e da li diffondono a diversi organi con esiti a volte molto seri .
(wikipedia)
 Che vermi usare allora. La scelta ricadde sul Trichuris suis (a sinistra) un parassita dei maiali e con scarsa capacità di sopravvivenza nell'uomo (gli allevatori di maiali non mostrano segni di infezioni croniche o sintomatiche). Test iniziali ne hanno confermato la sicurezza di utilizzo: i vermi (pochi mm di lunghezza) rimangono nell'intestino per un certo periodo e, cosa ancora più importante, non sono in grado di migrare nel sangue. 
I test terapeutici iniziarono su pazienti volontari (affetti da morbo di Crohn non responsivo ad alcun trattamento) che ingerirono dosi di 2500 uova messe in una bevanda. Un numero di uova praticamente invisibile ad occhio nudo. Dopo 6 settimane, il tempo necessario per lo sviluppo del verme adulto, non solo non furono registrate reazioni negative ma anzi si notò un chiaro miglioramento della sintomatologia.
Eseguito il test di sicurezza e di efficacia preliminare si procedette ad aumentare il numero dei pazienti e la durata del trattamento. 24 pazienti su 29 a cui furono somministrate le uova a intervalli di due settimane per 24 settimane, dichiararono un netto miglioramento della sintomatologia. Addirittura il 72% di essi non mostrava più alcun sintomo al termine dello studio. Un effetto non riscontrato con il placebo.

Cosa ancora più importante, risultati simili sono stati ottenuti con malattie quali la gastrite ulcerosa.

Non stupisce quindi che le industrie farmaceutiche abbiano drizzato le antenne e che, fatto ancora più importante, le agenzie di controllo dei farmaci europea ed americana abbiano dato l'avvallo a procedere con le sperimentazioni. Sono in corso studi in cui sono stati reclutati diverse centinaia di pazienti, un numero necessario per ottenere risultati statisticamente solidi in vista della approvazione definitiva degli enti regolatori preposti.

Non voglio addentrarmi nei meccanismi alla base di questo effetto positivo. Riassumendo il tutto in due righe si ritiene che i vermi agiscano:
  • modulando le cellule T regolatorie e le cellute T effettrici con conseguente diminuita infiammazione cronica; 
  • alterando la composizione della flora intestinale favorendo la crescita dei microorganismi noti come probiotici, utili per il benessere intestinale.
Insomma, grandi speranze all'orizzonte.




Neanderthal. Cugini non così primitivi

L'immagine di un Neanderthal basata sui resti ossei e corretta con le informazioni derivate dal DNA

Immagine classica
(®Neanderthal Museum)

 I Neanderthal, il ramo ominide distinto da quello del sapiens ed estintosi (a meno che i vari Yeti esistano) fra 20 e 30 mila anni fa, sono nostri lontani e, apparentemente, di gran lunga meno evoluti cugini con cui l'Homo sapiens ha condiviso territori. Poco si sa delle loro abilità anche se alcune pitture rupestri sono state attribuite a loro (vedi qui).
Come vivevano? Fino ad ora l'assunto generale è che fossero dei cacciatori-raccoglitori che nel clima freddo dell'epoca e delle regioni che popolavano imponeva loro due caratteristiche: continuo movimento alla ricerca di cibo; protezione dal freddo mediante pelli.
Condizioni diverse da quelle legate alla stanzialità e all'agricoltura/allevamento che i sapiens svilupparono sempre più e che determinò il loro successo evolutivo.
Dei cugini tuttavia sufficientemente prossimi a noi da essere riproduttivamente compatibili (vedi definizione di specie) e con cui in effetti uno scambio genetico sembra proprio essere avvenuto, soprattutto nelle popolazioni non-africane (vedi articolo precedente). Una ipotesi tuttavia messa in dubbio in un articolo di pochi mesi fa su PNAS).
Albero genealogico degli ominidi
 Questo quadro nebuloso dovuto alla carenza di reperti fossili si arricchisce di nuovi elementi grazie a nuovi risultati derivanti dall'analisi ossea. Dei dettagli che rendono il cugino meno primitivo di quanto ipotizzato. I nuovi dati da due articoli pubblicati su "PLoS ONE" e "Naturwissenschaften - The Science of Nature" (TSN), entrambi prodotti da team della Università di Sidney.
Riassumendo tutto in una riga i dati indicano che i Neandertal cucinavano il cibo, utilizzavano erbe medicinali e inoltre usavano le braccia anche per scopi manifatturieri. Non erano quindi semplici cacciatori.

Nell'articolo su TSN l'analisi è stata condotta sui resti trovati in Spagna, in particolare nel materiale intrappolato nei denti e quello derivante dalla inalazione di fumi e oli da combustione. L'analisi gas cromatografica indica che il cibo era cotto e che i residui di piante erano principalmente del tipo piante officinali, piante a scarso potere nutritivo ma utilizzabili come medicamenti. Un dato quest'ultimo interessante ma noto anche in alcuni primati non ominidi.

Il secondo dato (PLoS ONE) risulta dall'analisi dei pochi resti scheletrici disponibili che indicano un diverso sviluppo delle ossa delle braccia. La densità ossea del braccio destro indica una forza superiore del 50% rispetto al braccio sinistro. Negli esseri umani moderni questa asimmetria è solo del 5-15% e raggiunge livelli quasi paragonabili a quelli del Neanderthal solo in alcuni sportivi professionisti.
L'ipotesi corrente spiega tale sviluppo differenziale come associato alle abitudini di caccia è contestata dagli australiani  come indicatrice di attività quotidiane e più casalinghe. La diversa forza è compatibile con l'utilizzo continuo, giorno dopo giorno, del braccio nelle attività di preparazione delle pelli del vestiario. Una attività tutto fuorchè che trascurabile visto sia il clima freddo dell'epoca e del tempo necessario alla preparazione di una singola pelle (stimata in almeno 8 ore di lavoro continuo).
Questa nuova ipotesi deriva sia dall'analisi al computer della forza trasmessa all'omero che da esperimenti in cui si è chiesto a volontari di fare una attività simile a quella di lavorare la pelle con un sasso in modo costante. I soggetti sono stati alla fine analizzati con una tecnica nota come elettromiografia e quindi si è valutato l'impatto dell'attività muscolare sull'omero. Esperimenti analoghi mimanti l'utilizzo di lance o bastoni hanno mostrato un rafforzamento anche nel braccio sinistro, a causa del diverso modo nel brandire lo strumento in modo efficace.
Questo dato si basa a sua volta su un paradigma dimostrato, senza il quale l'analisi del "braccio preferito" non avrebbe senso: anche nei primati non umani esiste una prevalenza destrorsa. Se esiste questa preferenza nei primati attuali (uomo compreso) non vi è ragione per dubitare che esistesse anche nel cugino Neanderthal. 
Lo sviluppo differenziale nella forza del braccio destro non è quindi compatibile con la sola attività di caccia.

(articolo successivo in questo blog sui legami tra neanderthal e sapiens --> qui)


Articoli di riferimento
-  The complete genome sequence of a Neanderthal from the Altai Mountains
  (Nature, settembre 2013)
- Neanderthals cooked veggies and used plants for medicine
(Yale University e TSN)
- Unique Neandertal arm morphology due to scraping, not spearing: study
(Yale University e PLoS ONE)

L'antenato del serpente. Reperti ossei

Non che l'argomento serpenti mi affascini particolarmente ma da un punto di vista evolutivo è sempre interessante tracciare i passaggi che hanno portato alle specie attuali. Che il serpente sia imparentato con i dinosauri è abbastanza ovvio, così come il fatto che gli uccelli derivano dai rettili. Quello che interessa è trovare, se possibile, il punto in cui tale divergenza diventa evidente. Volendo usare similitudini umane, si tratta di trovare la Lucy dei serpenti, l'antenato comune che cominciava già a distinguersi da tutti gli altri rettili.
Lucertola Gila Monster (alto), Coniophis e Anilus
(®Nicholas Longrich)

Di particolare interesse a tal proposito uno studio della Università di Yale, in cui dall'analisi di reperti ossei i ricercatori descrivono una creatura strisciante vissuta al tempo del Tyrannosaurus rex (circa 65 milioni di anni fa) e nelle stesse regioni.
Nell'articolo, il cui primo autore è Nicholas Longrich, si ipotizza che l'antenato dei serpenti, terrestre e non acquatico come invece proposto da altri, fosse una creatura tipo lucertola priva di arti e con il corpo lungo e flessuoso, adatto per rintanarsi e/o sotterrarsi sotto la sabbia. Il protoserpente identificato nel Coniophis precedens rappresenta un esempio importante di una creatura di transizione evolutiva in quanto dotata di caratteristiche comuni ad entrambi. Una creatura in grado di muoversi come un serpente ma che si nutriva come una lucertola. Fino a poco tempo gli unici resti del Coniophis erano limitati ad una singola vertebra, utile grazie alle competenze di anatomia comparata per predire alcune caratteristiche animali (e se si è fortunati genetiche) ma ovviamente troppo poco per costruire modelli accettabili. Il grosso del lavoro di Longrich è consistito nell'utilizzare dei piccoli reperti ossei associati al precedente ma mai studiati. Grazie a questi nuovi reperti è ora possibile avere un quadro un poco più definito.
Se l'analisi vertebrale del fossile mostra infatti le caratteristiche adatte per lo "strisciare", la presenza di una mandibola fissa indica chiaramente che le prede dovessero per forza di cose essere più piccole della apertura mascellare. Una caratteristica ben diversa da quella dei serpenti.
Si ritiene tuttavia che il Coniophis non fosse il vero antenato dei moderni serpenti (forse più imparentato con quelli del genere Anilus) ma una sorta di fossile vivente già all'epoca, nel senso che riproduceva le fattezze del vero antenato comune. Un po' come le scimmie moderne e l'essere umano. Quando si dice che l'Uomo deriva dalla scimmia si intende un antenato le cui fattezze erano molto più simili a quelle delle scimmie antropomorfe che al Homo sapiens.
Esistono infatti fossili che provano l'esistenza di serpenti "moderni" già all'epoca dei dinosauri (vedi un articolo su Wired del 2010).
Trovare altri fossili sarebbe ideale, ma per il momento accontentiamoci di avere dati sul Coniophis

Articolo successivo sul tema --> "Scoperto il fossile dell'antenato del serpente"
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From a few bones, the most primitive snake emerges

A transitional snake from the Late Cretaceous of North America
N. Longrich et al.   Nature 488, 205–208 (2012)

La sindrome del Cuore Spezzato: perchè l'organismo tira il freno d'emergenza

Una curiosità come chiosa alla serie di articoli appena postati sul blog ("La biochimica dell'amore") riguardo la biochimica dell'amore e le conoscenze sul legame sentimento-benessere psicofisico.
Di interesse un recente lavoro prodotto da un team dell'Imperial College of London (ICL) descrive le basi fisiologiche del "cuore spezzato".
La sindrome del cuore spezzato (o cardiomiopatia di Takotsubo - vedi sotto), rappresenta circa il 2% dei casi inizialmente sospettati essere attacchi cardiaci. Rispetto a questi ultimi il decorso è benigno (recupero totale in poche settimane) e mancano i danni ostruttivi o funzionali tipici del vero infarto.
Lo studio pubblicato sulla rivista Circulation spiega questa sindrome come una strategia anti-stress del corpo per evitare danni seri al cuore.
Riassumo. E' noto che lo stato di stress è un importante strumento che il corpo ha per affrontare pericoli imminenti. Uno strumento che tuttavia può trasformarsi in un nemico insidioso quando lo stress diventa cronico e quindi l'organismo è sottoposto ad una stimolazione adrenalinica continua. Il cuore in queste situazioni può andare incontro a spasmi a carico dei piccoli vasi coronarici posti nella posizione apicale del cuore; spasmi che nella fase acuta possono fare sembrare pensare ad un attacco miocardico. In realtà come dicevo sopra questa sindrome ha un decorso benigno in quanto comporta un decremento temporaneo della irrorazione cardiaca e mai tale da provocare la morte cellulare.
Gli autori suggeriscono che tale diminuita irrorazione, causata da una desensibilizzazione alla adrenalina, sia un meccanismo difensivo. Usando un termine di paragone meccanico il corpo reagisce alla "carica" eccessiva forzando una diminuzione nel numero di giri del motore per evitare che il motore si rompa.
I risultati dello studio sono importanti in quanto spiegano perchè questi pazienti NON DEVONO essere trattati con adrenalina come la procedura standard suggerirebbe qualora si ipotizzasse un attacco cardiaco in atto. A differenza dell'infarto il trattamento con l'adrenalina non farebbe altro che annullare l'azione protettiva fisiologicamente predisposta dal corpo.
Tako-tsubo in giapponese significa "trappola per polipi" ad indicare l'effetto "stretta sul cuore" che rallentare il flusso ematico (image credit: swissheart.ch. Vedi anche qui.

(Ti potrebbe interessare in questo blog l'articolo "geni giusti per un matrimonio felice")

Link utili
Un sito divulgativo sulla sindrome di Tako-tsubo QUI

High levels of circulating epinephrine trigger apical cardiodepression in a β2-1 adrenoceptor/Gi-dependent manner: a new model of Takotsubo Cardiomyopathy
Paur et al. , Circulation, published online 25 June 2012.

La biochimica dell'amore - parte 4/5

(Continua da 3)

La studio dei meccanismi alla base della cura parentale nei maschi è stata a lungo trascurata nei suoi aspetti biochimici. Vuoi per l'assenza di una relazione diretta (nel senso materno del termine) con la prole vuoi per i limiti oggettivi degli strumenti di indagine fino a poco tempo fa disponibili; limiti che rendevano l'analisi comportamentale l'unico mezzo sperimentale disponibile.

Se da una parte è chiaro che la presenza della prole induce atteggiamenti protettivi (il cosiddetto effetto cucciolo osservabile anche a livello interspecie nei mammiferi) dall'altro, a meno di evocare una qualche forza sovrabiologica, era difficile capire come potesse instaurarsi tale relazione.
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto il ruolo centrale dello stimolo visivo nell'indurre la cura parentale. Sappiamo anche che esistono dei tratti ben definiti (occhi grandi, etc) che massimizzano il richiamo protettivo lanciato all'adulto. Un fenomeno ovviamente non limitato all'essere umano ma presente a diversi livelli in tutti le specie sociali. Abbiamo anche visto che il contatto visivo altro non è che uno strumento per l'attivazione di determinati circuiti neurali.
Indizi preliminari indicano in effetti che anche nei padri, come nelle madri, la biochimica comportamentale sia basata sull'equilibrio ossitocina-vasopressina. Solo che a differenza della madre dove l'attivazione è mediata da un bombardamento di segnali interni ed esterni (gestazione, parto, lattazione, visione, olfatto, ...) nel caso paterno l'attivazione dipende da input visivi e forse olfattivi.

Uno dei libri più recenti sull'argomento
La cura genitoriale è molto importante per lo sviluppo equilibrato della prole nei mammiferi sociali. Traumi e/o una scarsa cura parentale nei primi anni di vita degli esseri umani si traducono in comportamenti e stati emotivi socialmente patologici che persistono in fase adulta. I maschi in particolare sembrano particolarmente vulnerabili a esperienze negative precoci. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato una correlazione fra trascuratezza parentale e autismo soprattutto nel maschio data la frequenza 3-10 volte superiore di casi di autismo rispetto alle femmine; a mio avviso tuttavia l'autismo, una malattia estremamente eterogenea, è più il risultato di anomalie "ambientali" durante la gestazione (oltre che fattori predisponenti di tipo genetico) che di una carente cura parentale. Un discorso questo estremamente delicato, visto che se erratamente formulato (come troppo spesso avviene) potrebbe indurre nella madre di bambini autistici un senso di colpa che, oltre ad essere immotivato, avrebbe effetti devastanti sul nucleo familiare.


Riassumendo, sia i maschi che le femmine producono (e rispondono a) vasopressina ed ossitocina. Tuttavia la produzione di vasopressina nelle regioni del cervello legate alla aggressività difensiva, come l'amigdala e il setto laterale, sono particolarmente sensibili agli ormoni maschili. Da questo deriva che nei maschi soggetti a condizioni di stress ripetuto, i livelli di vasopressina indotti sono molto maggiori che nelle femmine. Altri dati indicano che la cura parentale e lo stress ambientale influenzano direttamente lo stato di metilazione (e quindi l'espressione) del gene codificante il recettore dell'ossitocina .
Quando le arvicole della prateria "single" vengono esposte ad un fattore di stress breve ma intenso (ad esempio pochi minuti di nuoto) i maschi rispondono maggiormente a questo stress ricercando nuovi legami con altri individui prima ignorati. Sotto stress i maschi e le femmine reagiscono in modo diverso anche negli aspetti di vita di coppia. L'amore è un fenomeno epigenetico: comportamenti sociali e legami emotivi sono plastici e di tipo adattativo, come del resto lo è la biologia su cui si basano.

L'insieme di eventi ambientali, la fisiologia e la cura parentale hanno un effetto che va oltre quello diretto, potendo trasmettersi, una volta che lo stimolo sia cessato, alle generazioni successive. Nei roditori ad esempio è ben noto che la prole trascurata dalla madre a sua volta avrà come genitore carenze comportamentali.
I bambini di genitori stressati e/o che vivono in un ambiente problematico sono esposti cronicamente ad alti livelli di vasopressina (sia endogena che da latte materno); come se non bastasse lo stress induce a livello genico l'aumento della sintesi dei recettori della vasopressina e quindi una maggiore sensibilità al neuropeptide. Questa sovra-esposizione facilita nel bambino la comparsa di comportamenti difensivi e predispone nella vita futura a reazioni comportamentali sopra le righe.
Da qui l'importanza della notizia apparsa sul New York Times poche settimane fa riguardo all'iniziativa del sindaco di New York, Michael Bloomberg: l'attivazione nelle zone problematiche della città di una rete di assistenza diurna a carico del Comune per i bambini (da 3 mesi fino all'età scolare, una sorta di nido-asilo quindi), in modo da rimuovere ogni situazione di stress o di pseudo-abbandono (genitori che lavorano tutto il giorno) nelle future generazioni cancellando sul nascere situazioni ansiogene.
 Ancora una volta le arvicole sono un modello animale utile per la comprensione del fenomeno: i roditori trattati con vasopressina subito dopo la nascita manifestano nel corso della vita una maggiore aggressività rispetto ai controlli. Al contrario i roditori esposti a un antagonista della vasopressina mostrano una aggressività decisamente minore da adulti. 
Semplificazione dell'asse ipotalamo-pituitario
Poiché sia le cure parentali che l'esposizione a livelli di ossitocina anomali nel primi anni di vita alterano, attraverso meccanismi epigenetici, i livelli ormonali prima e la abilità emotiva poi, possiamo dire che "l'amore è epigenetica" e che il mezzo è nel legame cervello-ormoni. Appena più in dettaglio possiamo identificare nell'attività dell'asse ipotalamico-pituitario il fulcro su cui tale legame agisce.
In particolare le relazioni a lungo termine forniscono un sostegno emotivo e spengono l'attività dell'asse ipotalamico pituitario. Al contrario stress intensi ne aumentano l'attività. La capacità della ossitocina di regolare questo asse spiega probabilmente l'eccezionale capacità della maggior parte delle donne di far fronte alle sfide della nascita e dell'educazione dei figli. Il cosiddetto multitasking femminile.
Gli individui che possono avvalersi di un forte sostegno emotivo, posti all'interno di una fitta rete di relazioni sociali, sono più resistenti ai fattori di stress rispetto a coloro che si sentono isolati o sono solitari. Un dato confermato nella maggiore velocità di guarigione dei primi a traumi fisici.

L'amore è tuttavia un'arma a doppio taglio. I comportamenti e le emozioni forti possono renderci vulnerabili ad esempio esponendoci a rischi inutili. Inoltre è ben noto dai fatti di cronaca e di vita quotidiana come la perdita di un legame possa avere conseguenze tragiche.
Come spiegare questo legame sentimento-salute fisica?
E' necessario per questo tenere in considerazione sia lo stato di stress attuale (rilevabile dai livelli di cortisolo, etc) che i danni associati allo stress continuato.
Tornando alla ossitocina è importante sottolineare che i recettori dell'ossitocina sono espressi anche nel cuore. La loro espressione nelle cellule cardiache ha una valenza protettiva e facilita la riparazione dei tessuti cardiaci danneggiati grazie alla capacità della ossitocina di indurre il differenziamento delle cellule staminali cardiache in cardiomiociti (quindi il ricambio delle cellule danneggiate). L'ossitocina può inoltre facilitare la neurogenesi nell'adulto ed è generalmente coinvolta nella riparazione dei tessuti, soprattutto dopo un'esperienza stressante. Sappiamo amche che l'ossitocina ha proprietà anti-infiammatorie e anti-ossidanti. Questo spiega per quale motivo una persona circondata da affetti guarisce più in fretta di una trascurata.

Le aree cerebrali attive nel sesso e nell'amore (®JSM, vedi nota bibliografica)
Una vita senza amore non è una vita pienamente vissuta o meglio non è una vita vissuta al meglio delle nostre potenzialità. Anche se la ricerca sui meccanismi attraverso i quali l'amore ci protegge contro lo stress e la malattia è solo agli albori, continuare in questa ricerca ci potrà fornire nuove terapie per facilitare la guarigione e prevenire le tragedie connesse a lutti o a "banali" rotture di rapporti amorosi. Rotture che troppo spesso finiscono in tragedie per reazioni generalmente spiegate con un raptus ma come abbiamo visto oggi ben radicate nella nostra fisiologia.

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Concludiamo con un accenno ad uno degli aspetti patologici dell'amore, la gelosia "anomala". Due le cose da precisare a questo riguardo:
  1. ho volutamente sottolineato il fatto che (come accennato in precedenza) si tratta di uno degli aspetti patologici, dato che è l'innamoramento l'esempio di uno sbilanciamento razionale che determina comportamenti borderline come il pensiero totalmente centrato sull'oggetto del proprio desiderio,  la ridotta capacità di valutare oggettivamente la controparte e la sofferenza implicita nel distacco anche solo temporaneo
  2. la gelosia in sé è un fenomeno assolutamente naturale e facilmente spiegabile, sia nei maschi che nelle femmine, da semplici ragioni evolutive. Sono stati infatti selezionati nel corso degli eoni passati i soggetti che avevano un comportamento tale da massimizzare la trasmissione dei propri geni. Una gelosia "sessuale" verso il partner che negli uomini serve per assicurarsi la trasmissione dei propri geni, mentre nelle donne, che non hanno i dubbi genitoriali (mater semper certa), peserebbe di più l’intenzione di garantire cure e risorse per la prole.
Ovvio, no?
Secondo Hasse Walum, primo autore di uno studio specifico condotto dal Karolinska Institutet "si deve ai geni il 32% dei fattori relativi alla gelosia di tipo sessuale, mentre per quella "sentimentale" i geni influiscono per un 26%".
Lo studio è stato condotto su 3.197 coppie di gemelli, di cui un gruppo era costituito da monozigoti e il secondo - come controllo - da dizigoti (quindi in tutto e per tutto fratelli e non gemelli identici). I ricercatori hanno chiesto ai gemelli, in una scala da uno a dieci, li disturbava l’idea che il proprio partner avesse avuto una scappatella di una sola notte, oppure si fosse infatuato di un’altra persona. Risultato: gli uomini erano molto più infastiditi dalle donne dall’idea che il proprio partner avesse fatto sesso con un’altra persona. Anche solo una volta.
Chiara allora l'importanza del tipo di campioni usati. I controlli usati hanno infatti vissuto nello stesso identico ambiente e nello stesso momento, così come avviene per i gemelli. Se fossero stati usati dei fratelli non gemelli-dizigotici, si sarebbero introdotte variabili legati all'età, all'ambiente, etc.
Il fatto che la concordanza nelle risposte sia stata di gran lunga maggiore nel gruppo dei gemelli monozigoti è un chiaro effetto della componente genetica.
Certo l’ambiente socioculturale è importante ma la base biologica è netta. Non è forse allora nemmeno un caso il fatto che alcune patologie come morbo di Parkinson e schizofrenia siano associati a maggiore incidenza (nella fase presintomatica) di gelosia sopra le righe.
Da dove origina la gelosia?
Secondo una ricerca dell’università di Pisa condotta da Liliana Dell'Osso, "il principale indiziato delle forme più acute di gelosia è uno squilibrio dei circuiti di serotonina e dopamina nella corteccia pre-frontale".
Visto? Troviamo sempre questi due neurotrasmettitori nei diversi aspetti della biochimica dell'amore. Tuttavia i geni, pur giocando un ruolo importante, non sono un destino ineluttabile. Continua poi la Dell'Osso, "la componente genetica viene innescata da fattori scatenanti, che possono essere dei più vari, tant’è che per analogia al concetto di genoma si parla di "esposoma" per indicare l’insieme dei condizionamenti ambientali a cui si è esposti nel corso della vita dallo stress lavorativo e familiare alla risposta immunitaria, dall’uso di alcool e droghe alle sostanze chimiche con cui si entra in contatto attraverso aria, acqua, alimentazione fumo , droghe, farmaci eccetera".


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Continua QUI (riassunto degli ormoni coinvolti)






La Biochimica dell'Amore - parte 3/5

(CONTINUA DA parte 2 )

L'evoluzione non butta via nulla. Prova, riprova, scarta e seleziona, alla fine ogni organismo è un riassunto dei tentativi riusciti dei suoi antenati.
Questo per dire che il comportamento sociale dei mammiferi è supportato da componenti biologiche non inventate appositamente, ma già utilizzate ripercorrendo a ritroso l'albero evolutivo.
E la biochimica fornisce le basi per comprendere il comportamento sociale nei diversi animali. Fare un elenco di tutto quello che si conosce diventerebbe noioso e poco pratico per i non addetti ai lavori. Limitiamoci allora agli attori principali.
Un elemento importante nella biochimica dell'amore è l'ossitocina, un neuropeptide ben conosciuto dalle donne in travaglio essendo l'ormone somministrato per indurre il parto. Ma questa sua azione fisiologica è solo uno degli aspetti per cui questa molecola è di fondamentale importanza. Un aspetto molto più interessante per la nostra discussione è che la produzione di questo ormone durante il parto condiziona i circuiti neurali della madre favorendo l'instaurarsi di un legame duraturo con la prole. Un legame assolutamente necessario (quindi selezionato) dato che la sopravvivenza dei piccoli (e quindi il successo riproduttivo) dipende totalmente dalla presenza e proattività materna; ogni atto e "pensiero" della madre deve essere unicamente volto alla prole almeno fino allo svezzamento. Indipendentemente dal fatto che si tratti di un mammifero "sociale" (che vive in branchi) o principalmente solitario (ad esempio la volpe).
Un legame ancora più necessario nei mammiferi a "grosso cervello" la cui prole nasce per motivi tecnici più immatura e quindi necessita di cure totalizzanti, rispetto ad altri mammiferi i cui "pargoli" sono meno bisognosi di cure totali.
Se partiamo dal dato scientifico che l'ossitocina prodotta naturalmente durante il travaglio predispone "mentalmente" la madre al suo ruolo, allora l'obiezione ovvia è che le donne che partoriscono con il taglio cesareo (o che non allattano) dovrebbero essere meno legate ai figli. E che dire del legame del padre o dei nonni? Loro mica sono soggetti al travaglio!!
La scienza deve prendere atto di tutti i dati e assemblarli in un contesto meccanicisticamente valido. Così anche gli "esterni" al parto sono stati analizzati e dati preliminari suggeriscono che la semplice presenza di un neonato causa il rilascio di ossitocina negli adulti. Quindi è come se il neonato "inducesse" l'amore in chi gli sta attorno. Un chiaro prodotto della selezione; l'assenza di questo legame abbassa notevolmente la probabilità di sopravvivenza e con essa la trasmissione del patrimonio genetico del soggetto insensibile.
Altri dati ancora indicano che l'ossitocina è rilasciata in risposta a esperienze altamente stressanti; favorisce in questo caso una maggiore coesione fra i soggetti "stressati" aumentando la loro probabilità di sopravvivenza.
Il ruolo dell'ossitocina nel generare sentimenti "amorosi" è oramai ampiamente accettato e rappresenta un progresso significativo nella comprensione del fenomeno. Fino a pochi anni fa studiare scientificamente questi aspetti voleva dire limitarsi all'aspetto comportamentale compendiandolo con il monitoraggio dell'attività cerebrale. Molto importante ma troppo vago per capirne i meccanismi. Ora il legame molecola-effetto è dimostrabile attraverso la somministrazione intranasale (con spray o gocce) di ossitocina e la conseguente modifica del comportamento sociale: il soggetto trattato si integra più facilmente in un gruppo nuovo attraverso l'attivazione di atteggiamenti pro-attivi quali il contatto visivo.

Il contatto visivo è fondamentale nella richiesta di attenzione (© 2012 Jessie Williams e EMBO-Reports)
Il circuito che auto-alimenta il comportamento materno
Ovviamente l'ossitocina non è l'equivalente molecolare dell'amore. E' solo una importante componente di un sistema neurochimico complesso che permette al corpo di adattarsi a situazioni ad alto contenuto emotivo. I sistemi necessari per instaurare reciproche interazioni sociali necessitano della interconnessione di reti neurali che collegano il cervello al sistema nervoso autonomo; reti dinamiche e in costante evoluzione durante tutta la vita di un individuo.
Del resto anche le proprietà della ossitocina non sono fisse. I recettori cellulari dell'ossitocina sono regolati da altri ormoni e, guarda caso, l'epigenetica ha anche qui un ruolo fondamentale agendo sulla sintesi di tali recettori. In altre parole le esperienze di vita agiscono direttamente sulla "disponibilità" di questi recettori.
I livelli di ossitocina così come le esperienze emotive cambiano nel tempo.

Credit: wikipedia
Lo studio del linguaggio molecolare delle emozioni si avvale comunemente di modelli animali. Particolarmente utili per la comprensione della neurobiologia "della fedeltà" sono stati alcuni roditori come le arvicole che nei due ceppi di montagna e di prateria (foto a lato) mostrano un grado di fedeltà innato diverso. Quelle di prateria sono monogame (un singolo partner per tutta la vita) quelle di montagna sono poligame. La differenza è nel maggior numero di recettori per la vasopressina e ossitocina in quelle di prateria. Vale la pena accennare che esistono alleli simili anche  in uomo che sono fortemente correlati con l'infedeltà coniugale (quindi non biasimate troppo i fedifraghi!!).
Questa importante differenza non toglie che siano coinvolti anche altri neurotrasmettitori. Tra questi gli oppioidi endogeni e la dopamina, non a caso sostanze alla base del circuito di ricompensa (rewarding) cioè quello stimolo che ci spinge a cercare il "piacere" e le esperienze in grado di generarlo (oltre ad essere uno dei cardini della dipendenza da agenti psicotropi).
L'ossitocina e la vasopressina  svolgono un ruolo simile, ma non identico, nei processi che favoriscono i legami sociali ed in particolare la risposta cementificatrice indotta dalla visione della prole. Alterando la funzionalità dei loro recettori (ad esempio mediante l'uso di antagonisti) i comportamenti coesivi vengono meno pur in quadro di assoluta normalità fisiologica e di "salute" generale.
La vasopressina induce una mobilitazione fisico-emotiva, aumenta la vigilanza riguardo al partner e del territorio (e quindi l'autodifesa). Si ritiene che agisca anche contrastando l'innato immobilizzarsi di fronte al pericolo (per passare inosservati) innescando invece azioni volte a richiamare l'attenzione allontanando così il pericolo dai piccoli. Ne è esempio evidente sia nelle arvicole che nei cani, il cambiamento di comportamento che passa da estremamente socievole prima dell'accoppiamento ad un aumento di aggressività e protezione del territorio nel periodo che va dall'accoppiamento allo svezzamento della prole. Un fenomeno che nelle arvicole (a differenza dei cani che non sono monogami) è accentuato anche nei maschi.

La ossitocina al contrario è responsabile della immobilità senza paura e induce uno stato fisiologico rilassato ed una postura che facilita la nascita, l'allattamento e la disponibilità sessuale. Anche se non essenziale per la genitorialità, si ritiene che l'aumento di ossitocina successivo alla nascita e all'allattamento rende la donna meno ansiosa con il neonato facilitando, grazie alla sensazione di relax, il legame di amore per il suo bambino.
Il complicato valzer dei livelli di ossitocina e vasopressina potrebbe quindi essere necessario per la coesistenza di atteggiamenti apparentemente opposti come l'aumentata aggressività e difesa del territorio con l'attaccamento alla prole.

(Continua qui)

La biochimica dell'amore - parte 2/5

(CONTINUA DA 1)

Se si vogliono analizzare i meccanismi biologici alla base del sentimento umano dell'amore bisogna prima contestualizzarlo evolutivamente.
Negli esseri umani l'amore, nel senso comune del termine, non ha un ruolo essenziale nel processo riproduttivo. Nonostante ciò la forza di tale di sentimento è indiscutibile e dunque deve essere stata selezionata nel corso dell'evoluzione. 
I vantaggi connessi all'amore (nel senso ampio del termine) sono diversi. E' un elemento coesivo sociale e inoltre massimizza la probabilità di fare giungere all'età adulta (quindi riproduttivamente competente) la propria progenie, sia attraverso una azione protettiva diretta che garantendosi circa l'origine del DNA. Uno stimolo questo particolarmente importante per trattenere il maschio.
Insomma l'amore, o sentimenti equipollenti in animali non senzienti, come elemento cementificante.

Quale frase migliore allora per spiegare l'amore se non citando Theodosius Dobzhansky (genetista e biologo evoluzionista, 1900-1975)
Nulla in biologia ha senso se non alla luce dell'evoluzione
La vita sulla Terra è fondamentalmente sociale: la capacità di interagire dinamicamente con altri organismi viventi permette di mantenere una mutua omeostasi. Le interazioni sociali sono presenti negli invertebrati primitivi e anche tra i procarioti: perfino i batteri riconoscono e avvicinano membri della loro stessa specie e questo facilita la formazione di comunità le cui caratteristiche fisico-chimiche vanno ben al di là della capacità della singola cella.

L'esempio degli insetti sociali è un altro caso emblematico di cui ho parlato recentemente (vedi gli articoli su api e formiche). Con il termine eusociale si definisce una società caratterizzata da una complessa divisione del lavoro che come abbiamo visto è dipendente dalla epigenetica. Una struttura bio-sociale evolutasi indipendentemente (cioè su linee evolutive separate e non derivanti le une dalle altre) almeno 11 volte. Un dato che indica come la socialità sia sottoposta a pressione evolutiva in grado di indurre (l'esempio delle api è paradigmatico) una "forma accelerata di evoluzione".

Nei vertebrati i percorsi evolutivi che hanno portato dai rettili ai mammiferi hanno fatto emergere sistemi unici che hanno generato situazioni di socialità sempre più complessa. I rettili mostrano una cura parentale minima spesso limitata alla sola sorveglianza del nido. I proprietari di rettili domestici potrebbero legarsi emotivamente alla loro tartaruga o al serpente, ma il rapporto NON è reciproco. I consigli degli etologi e dei veterinari di tenere i serpenti, per quanto innocui, nel loro terrario la notte dipende dal fatto che per loro noi siamo come "rami" attorno a cui avvolgersi. Ne prede ne simili. Solo e soltanto rami.

Una situazione chiaramente diversa da quella osservabile nei mammiferi dove anche le specie non addomesticabili e tendenzialmente molto aggressive sono sensibili all'imprinting: il caso recente del rinoceronte che da adulto torna a fare visita alla famiglia adottiva affacciandosi alla finestra e che si pone placidamente alla merce dei bambini di casa è l'esempio più chiaro di questo fenomeno.

@pawnation.com (vedi QUI per le altre immagini)
Altre specie di mammiferi diversi dai primati - compresi lupi e arvicole di prateria - sviluppano rapporti anche di lunga durata e con relazioni selettive tra adulti. Anche i vitelli una volta cresciuti e tenuti liberi in campagna tendono a formare nuclei preferenziali fra fratelli della stessa "cucciolata".
Un rapporto selettivo dunque, non così diverso da quello che nell'esperienza degli esseri umani viene chiamato amore.
Queste relazioni innescano, attraverso un feedback dinamico, dei meccanismi che stimolano la maturazione dell'individuo e la sua salute. Provate a confrontare il comportamento di un cane tolto dalla cucciolata primo dello svezzamento con uno distaccato al momento "opportuno" e vedrete quanto il comportamento del primo in età adulta sarà deviante sia nei rapporti con i simili che con gli umani. La abilità sociale è fondamentale per ogni essere vivente che debba convivere anche per tempi minimi con altri individui della stessa specie. Tanto maggiore è il tempo che deve trascorrere in "compagnia", tanto più forti dovranno essere gli stimoli rinforzanti questo comportamento.
Quando un meccanismo è fondamentale, esso viene selezionato.

Naturalmente l'amore umano è più complesso di un semplice meccanismo di feedback. Questa maggiore complessità è direttamente osservabile nella struttura cerebrale umana la quale riassume perfettamente il percorso evolutivo. In altre parole il cervello di un primate, e nello specifico degli appartenenti al genere Homo, è il frutto dell'unione tra il nucleo primitivo delle zone profonde del cervello (amigdala e sistema limbico) e quelle corticali, evolutivamente recenti.
Biologicamente l'amore origina nelle parti primitive del cervello dove risiede il nucleo emotivo. La corteccia cerebrale rende consapevole questo bisogno e lo integra con le capacità evolute (il pensiero vero e proprio).
Dal contrasto fra la parte primitiva e la parte senziente originano gli atteggiamenti "non razionali", impulsivi e/o estranianti che contraddistinguono la fase dell'innamoramento. 
Il cervello di un umano innamorato è invaso da sensazioni, trasmesse dal nervo vago (da qui la somatizzazione), che tutte insieme contribuiscono alla nostra esperienza emozionale. La moderna corteccia cerebrale cerca di interpretare i messaggi primordiali e tesse letteralmente un racconto interiore basandosi sulle sensazioni viscerali. 
Un bisogno profondo viene sublimato dalla parte evoluta del nostro cervello in modo da spingerci mentalmente in quella direzione.

Le aree cerebrali attivate dal cosiddetto amore romantico sono sostanzialmente quelle che si attivano con i processi emozionali legati al piacere e alla ricompensa. Aree ad alta concentrazione di neuromodulatori come la dopamina associate al desiderio, allo stato euforico e alla dipendenza.

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 (CONTINUA qui )

La biochimica dell'amore - parte 1/5

L'amore è un sentimento poco etereo e molto biologico. Pervade ogni aspetto della nostra vita e ha  ispirato innumerevoli opere d'arte. L'amore ha anche un profondo effetto sul nostro stato fisico e sul benessere mentale. Un 'cuore spezzato' o un lutto  possono avere un effetto disastroso per il benessere psicofisico. Senza  relazioni affettive gli esseri umani non riescono a fiorire, anche se tutte le loro altre necessità di base sono soddisfatte.
L'importanza di questi aspetti nell'essere umano si evidenzia nella mole di attività artistiche prodotte in suo nome; attività che sono in parte un tentativo del genere homo (visto che nasce con la capacità rappresentativa dei primi ominidi) di canalizzare i turbamenti emotivi interiori. Sarebbe un errore tuttavia considerare il fenomeno, nei suoi aspetti più caratterizzanti, come una esclusiva dell'essere umano; animali così diversi come i primati e gli insetti hanno nella socialità il cardine della loro vita.
In quanto tale l'amore non è chiaramente solo un emozione ma è un processo biologico dinamico e bidirezionale. Le interazioni sociali possono innescare processi cognitivi e fisiologici che influenzano stati emotivi e mentali che a loro volta condizionano la socialità.
Analogamente mantenere la capacità di amare richiede un feedback costante attraverso i sistemi sensoriali e cognitivi. Il corpo cerca l'amore e risponde costantemente alla sua presenza o assenza.

Solo di recente la scienza ha cominciato a disporre di strumenti idonei (vale a dire analitici e non meramente descrittivi) per tentare di fornire una spiegazione fisiologica al perché interruzioni di legami sociali abbiano conseguenze così pervasive nella vita di un dato essere vivente. Una risposta che deve essere cercata in campi quali la genomica e le neuroscienze e supportati da nozioni di socio-biologia.

La tematica che affronterò in questa serie di articoli a tema la "biochimica dell'amore" è trattata in maniera egregia ed esaustiva nella recente review di Carter e Porges pubblicata su EMBO (vedi le note bibliografiche). Qui io ne riassumerò i tratti essenziali, semplificandoli e compendiandoli con materiale da altre fonti. Fonti, come mia abitudine, sempre e solo di natura scientifica e pubblicate su riviste peer-rewieved. Non opinioni.
(CONTINUA - 2 )

RNA interference. Da un processo naturale una tecnica importante

Allego oggi un eccellente video in cui si spiega a grandi linee la RNA interference (RNAi). Un utile compendio di alcuni post precedenti (qui). 
Di cosa si tratta? In termini molto semplici la RNAi è un meccanismo biologico mediante il quale piccole molecole di RNA non codificante e complementari a specifici RNA messaggeri (mRNA cioè RNA che codificano per una data proteina), segnalano ad appositi enzimi che questi mRNA devono essere degradati.
Il meccanismo è in realtà estremamente variegato; a seconda del tipo di RNA effettore il risultato può essere la distruzione del mRNA bersaglio oppure lo spegnimento genico. In entrambi i casi si tratta di un sistema regolatorio molto efficiente per la cellula che "decide" di spegnere tutta una regione genomica in un colpo solo (invece di agire su ciascuno dei geni nella regione) e/o di bloccare virus invasori grazie alla identificazione delle sue sequenze.

Il video è stato creato dalla rivista Nature ed è disponibile su

Usare la natura come spunto per sviluppare nuove tecnologie è sempre la cosa migliore. Questo caso non fa eccezione: nuovi approcci terapeutici sono stati ipotizzati vedono l'utilizzo di nanoparticelle (ma anche virus modificati) caricate con queste molecole di RNA e indirizzate su cellule specifiche. Un approccio ideale quando l'obiettivo deve essere assolutamente specifico sia a livello cellulare (tumori) che genico (ad esempio responsabili della proliferazione cellulare). 

Nell'ultimo decennio si è assistito ad una esplosione degli studi sugli RNA non sono codificanti (ncRNA), prima considerati dei trascritti spuri e privi di senso. Ora si sa che gran parte del genoma, soprattutto nelle regione intergeniche e introniche producono RNA e che queste molecole hanno un ruolo regolatorio centrale. Tra gli effetti mediati dai ncRNA abbiamo l'inattivazione del cromosoma X "in eccesso" nelle femmine di mammifero, i diversi stati cromatinici, la regolazione trascrizionale e la stabilizzazione genomica (grazie allo spegnimento degli elementi trasponibili).
In breve questi ultimi ncRNA appaiandosi a regioni complementari del DNA inducono modificazioni strutturali a carico della cromatina (il complesso DNA-proteine che determina l'accessibilità e la compattezza del cromosoma) mediata da proteine (come metilasi, acetilasi, deacetilasi, etc) richiamate in loco dalla presenza del ncRNA. L'insieme di queste modificazioni determina non solo il "destino" della cellula ma è anche un modo per la cellula di memorizzare "esperienze passate scrivendole sul DNA". In altre parole l'epigenetica (vedi anche qui).

Un processo nettamente diverso da quello su cui si basa l'RNA interference che, ricordo, prevede la degradazione del RNA bersaglio: in comune vi è l'azione effettrice del ncRNA sulla sequenza complementare.

L'esistenza di questi meccanismi ha imposto di riscrivere un dogma nella biologia molecolare che vedeva nella unidirezionalità dell'informazione (DNA->RNA->proteine) e nella inutilità delle porzioni di DNA non codificanti, il punto centrale. Il progetto genoma che si pensava avrebbe permesso di chiarire i meccanismi di regolazione genica ha in realtà scoperchiato una realtà che ancora oggi deve essere adeguatamente compresa.

Dal CES di Las Vegas una tecnologia rivoluzionaria per sequenziare il DNA

Oggi vado diretto sull'aspetto tecnico ma le novita' presentate al CES di Las Vegas sono strabilianti anche per l'utilizzo in ambito biologico.

Quello che segue e' un video riassuntivo della tecnologia Ion Proton proposto dalla Life Technologies e commercializzato (anche per l'Italia) dalla Invitrogen.
 Di cosa si tratta? Di un sequenziatore di DNA "tascabile" basato sulla tecnologia dei semiconduttori. In termini molto semplici il sequenziamento consiste nel monitorare quale sia il nucleotide incorporato dalla DNA polimerasi che scorre sull'elica complementare leggendola; ad esempio ogni adenina letta la DNA polimerasi incorporera' una timina e per ogni guanina una citosina (e viceversa).
Le tecniche di sequenziamento negli ultimi 40 anni sono divenute via via piu' sofisticate passando da tecniche manuali, analisi per gel-elettroforesi e rilevazione radioattiva ai piu' recenti strumenti basati sulla luminescenza e gel-capillari.
L'evoluzione delle tecniche ha permesso di abbassare sia i tempi che i costi connessi; dalle centinaia di persone coinvolte e i miliardi di dollari delle prime fasi del progetto genoma si passa a pochi tecnici e un costo inferiore ai 1000 dollari.

Dicevo che la tecnica ora proposta si basa sulla rilevazione delle microvariazioni di pH conseguenti al rilascio di un protone ogni volta che un nucleotide viene incorporato nel DNA. Attraverso operazioni ultra-rapide la macchina fornisce in modo sequenziale ciascun nucleotide, se il nucleotide non e' quello richiesto dalla polimerasi non si ha emissione di protone e quindi non viene registrato alcun segnale. Se la sequenza prevede due basi identiche la variazione del pH sara' doppia e il sistema lo registrera').
Il chip usa la tecnologia CMOS (complementary metal-oxide semiconductor) ben nota a qualunque smanettone di tecnologia digitale. Per essere chiari lo stesso tipo di chip che si trova sulle macchine fotografiche digitali, solo che in questo caso invece di catturare la luce, il chip vede la chimica (le variazioni di pH) e la traduce in dati digitali. Il chip Ion PI™ Chip contiene sulla sua superficie da 165 a 660 milioni di pozzetti all'interno del quale viene depositato il DNA da analizzare.
La macchina e' in grado di leggere quindi moltissimi campioni simultaneamente e in poche ore.

Come avvenuto in altri campi, la tecnologia basata sui semiconduttori cambiera' la vita anche al biologo.





Link
Invitrogen
CES-2013

Science from the Cloud / 4 (Diabete)

Notizie recuperate dalla Nuvola di notizie pubblicate ma non note al grande pubblico  
(qui le notizie dal Cloud già pubblicate)

 
Ciascuna notizia ha il link al comunicato ufficiale.
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Come sta il pancreas? Un marcatore ci aiuta
Il diabete, nella sua forma insulino dipendente, è conseguente al deterioramento delle cellule beta del pancreas. 
Un deterioramento indotto da una reazione autoimmunitaria la cui causa scatenante (virus?) non è ancora del tutto nota. Ad oggi la funzionalità delle cellule beta era valutabile indirettamente (glicemia e valori di insulina) o direttamente mediante procedure invasive. Un team di Yale coordinato da Paul Harris ha recentemente identificato una proteina, VMAT2, che potrebbe essere usata come marcatore della funzionalità pancreatica visto che viene prodotta simultaneamente all'insulina. Usando un tracciante radioattivo in grado di legarsi specificamente a VMAT2 si è potuto osservare che i livelli di tracciante nel pancreas di diabetici-tipo 1 era inferiore del 40% rispetto a soggetti sani.
Un risultato prospettivamente importante in quanto permetterà di valutare in individui predisposti la funzionalità pancreatica e intervenire prima che il diabete diventi "visibile".
 
miRNA e problemi al metabolismo
I ricercatori della U.ILL. hanno identificato un micro-RNA chiave chiave nella catena di eventi che porta a patologie metaboliche quali "fegato grasso" e diabete di tipo 2. Esperimenti condotti su animali di laboratorio (topi obesi) hanno mostrato che bloccare questa molecola (MiR-34a) riduce notevolmente la gravità di queste malattie.

Fermare il diabete con insulina in pastiglie
Una pastiglia di insulina al giorno toglie il diabete di torno? Questo è quanto fa sperare la ricerca condotta in Svezia. Un nuovo modo per assumere l'insulina in modo indolore e ugualmente efficace. Lo studio appena iniziato prendere diversi anni e coinvolgerà centinaia di diabetici di età compresa fra i 3 e i 45 anni.

Novità per il trattamento del diabete di tipo 2
Passiamo al diabete di tipo 2 (non insulino dipendente) rimanendo in Svezia con un team di ricercatori di Stoccolma in collaborazione con un team australiano. La terapia in studio vuole bloccare la catena di segnali anomali che partendo dalla proteina VEGF-B porta all'accumulo di grasso in "posti sbagliati" come muscoli e cuore. Il farmaco mostra interessanti capacità di prevenire la comparsa di diabete di tipo 2 e di revertire i sintomi dove già presenti.

Sensibilità all'insulina. Dalla genetica a terapie future
Ad Oxford hanno identificato la prima anomalia genica (nel gene PTEN) in grado di aumentare la sensibilità all'insulina. Le alterazioni finora note hanno l'effetto opposto in quanto causano resistenza all'insulina (diabete di tipo 2). Il gene PTEN codifica per una proteina che, fra le altre cose, è parte della cascata di segnali attivata dall'insulina.
Questo dato è particolarmente interessante in quanto offre un approccio nuovo per sviluppare farmaci che mimino questa mutazione ed aumenti la sensibilità all'insulina.

Per un diabetico un lavoro sicuro è un ottima medicina
Il lavoro del team americano rientra nell'alveo degli studi epidemiologici volti ad indagare il legame fra stress e malattie. Cosa hanno scoperto? Un lavoro stabile diminuisce la probabilità di ammalarsi di diabete. Un risultato che indica l'esistenza di una molteplicità di fattori ambientali (stress, ambiente e alimentazione) che concorrono nell'insorgenza di una malattia il cui impatto è destinato a crescere in una popolazione sempre più vecchia.

Un farmaco antidiabetico aumenta il rischio di tumore?
Il principio attivo thiazolidinedione presente in un farmaco usato da circa 15 milioni di americani è entrato sotto i riflettori dell'ente regolatorio americano (FDA) a causa dell'allarme sollevato dal National Cancer Institute (NCI) circa un aumento statistico di tumori della vescica nei pazienti trattati.

Lo zenzero in aiuto dei diabetici
Una spezia molto usata, lo zenzero, conferma il ruolo ad esso attribuito dalla medicina orientale tradizionale. Ci sono dati preliminari che indicano la sua capacità di controllare gli alti livelli glicemici favorendo l'assorbimento dello zucchero dalle cellule muscolari in modo indipendente dall'insulina.

Una proteina anti-invecchiamento utile anche per il diabete?
(MIT)
La sirtuina, una proteina candidata al ruolo di effettore delle proprietà benefiche del vino rosso (leggi resveratrolo) e quindi di una azione antiossidante, potrebbe anche proteggerci dagli effetti di una dieta ad alto contenuto di grassi. Un dato ultime per terapie future volte a contrastare il binomio obesità-diabete.

Diabete e tumore al seno: una meta-analisi
La meta-analisi è una indagine epidemiologica che raggruppa studi statistici separati, pesandoli per numero e caratteristiche, in modo da ottenere un numero elevato di soggetti analizzati (numero altrimenti impraticabile sia per i costi che da un punto di vista logistico). Altro vantaggio della meta-analisi è la eliminazione delle distorsioni presenti in ciascuno studio.
Lo studio qui presentato ha valutato la correlazione fra diabete e tumore alla mammella raggruppando e analizzando 39 studi epidemiologici indipendenti.
Da questo studio è risultato che il rischio di tumore della mammella in donne con diabete di tipo 2 aumenta del 27% rispetto alla controparte non diabetica. Aggiustando i dati in modo da tenere conto dell'indice di massa corporea (un fattore di rischio indipendente) il valore è stato corretto al 16%. Un valore importante soprattutto considerando che, al contrario, non è stato trovato alcun rischio aggiuntivo in donne pre-menopausa e in donne con diabete di tipo 1.

Cellule per prevenire il diabete
(Karolinska Institutet)

Siamo solo all'inizio, ma una ricerca di un team svedese ha posto le basi per l'utilizzo dei macrofagi, cellule immunitarie coinvolte nel processo di distruzione delle cellule pancreatiche che producono l'insulina, per bloccare lo stato infiammatorio associato a questo processo. La riprogrammazione del comportamento di questa cellule è stata ottenuta in topi con predisposizione al diabete trattando opportunamente i macrofagi da essi prelevati e reinoculandoli in circolo.

I figli di padri cocainomani meno predisposti a diventare dipendenti?

I figli di uomini dipendenti da cocaina hanno meno probabilità di diventare anch'essi dipendenti. Questo è quanto emerge da uno studio pubblicato su Nature (Vassoler et al.).
Attenzione però. Lo studio NON tiene conto in alcun modo dell'ambiente (quindi la parte esperienziale) in cui i figli sono immersi ma solo delle modificazioni che la cocaina induce sulle cellule germinali paterne. Lo studio si è focalizzato sugli effetti epigenetici che una assunzione continuata induce PRIMA del concepimento.
Nota. A differenza degli oppiacei il rischio dipendenza da cocaina si assesta in circa il 20% dei consumatori per ragioni non ben chiarite. Molto probabilmente è la genetica a giocare un ruolo chiave in meccanismi che vanno ricercati nella produzione di serotonina (freno) e dopamina (dipendenza). 
I risultati indicano che queste modificazioni esistono e rendono la progenie maschile (e solo quella) meno sensibile agli effetti (e quindi alle lusinghe) della cocaina. Semplificando equivale a dire che se un individuo non prova piacere, o tale piacere non è sufficientemente potente da indurre i meccanismi di gratificazione neurale (alla base del processo di ricerca dello stimolo in grado di indurre la stessa sensazione), ben difficilmente si creeranno le condizioni perchè possa svilupparsi una dipendenza.
Se poi l'ambiente familiare o le amicizie condizioneranno, positivamente o negativamente, l'accesso a sostanze psicotrope ... beh questo non è campo di indagine della genetica ma della sociologia.
Un punto questo ovvio per chiunque faccia ricerca ma che deve essere sottolineato più volte ai non addetti ai lavori onde evitare le polemiche pretestuose che nacquero dopo alcune dichiarazioni della Montalcini anni fa.
Il premio Nobel fece all'epoca una affermazione incontrovertibile per chiunque lavori nel campo: la genetica può aiutare a capire chi sono i soggetti predisposti alla dipendenza da droghe. Una affermazione che venne subito travisata dai tanti che di scienza parlano a sproposito come una affermazione deterministica che condanna a priori una persona. In realtà si tratta di un fatto oggettivo in quanto le sostanze psicotrope non agiscono per magia ma perché attivano ben determinati recettori e che l'affinità di tali recettori per i ligandi varia su base polimorfica in soggetti diversi. 
Questo spiega per quale motivo fra i tanti che in gioventù provano a fumare alcuni smettono in fretta in quanto "insensibili" al fascino nicotinico e altri cercano invano per tutta la vita di smettere. Quest'ultimo gruppo non è condannato a priori ma necessita di una cura e di terapie finalizzate qualora decidesse di smettere.
Una osservazione forse ovvia ma che il mantra del politically correct dei media non aiuta a diffondere.

Nota. In un articolo pubblicato su Biological Psychiatry da un team di Cambridge (qui), viene evidenziato che esiste una differenza a livello cerebrale tra coloro che usano abitualmente cocaina e ne diventano dipendenti e coloro che invece possono farne a meno. Ripeto, nonostante entrambi i gruppi siano composti la individui che ne fanno un uso continuo da anni. La differenza risiede nel lobo pre-frontale (sede della capacità decisionale e dell'auto-controllo) che appare nettamente più voluminoso nei "non-dipendenti". Sebbene sarebbe interessante valutare se tale differenza volumetrica sia pre-esistente all'assunzione della droga, rimane il fatto che come sosteneva la Montalcini esistono delle basi genetiche che spiegano chi è più a rischio di altri di diventare dipendente.


Torniamo quindi ai dati pubblicati ottenuti su animali da laboratorio. Le domande a cui l'analisi vuole rispondere sono:
  • cosa succede al genoma dei ratti che assumono cocaina in modo continuativo?
  • le modificazioni indotte sono epigeneticamente rilevanti? Se si, possono essere trasmesse alla progenie?
Ratti maschi "cocainomani" sono stati fatti accoppiare con femmine mai esposte alla droga e subito dopo separati per evitare ogni tipo di condizionamento comportamentale nelle femmine. Il ratto dipendente ottiene una dose di cocaina premendo una levetta: il contatto attiva la somministrazione automatica della droga. La quantità massima di dosi per giorno è fissa, quindi eventuali atteggiamenti compulsivi del ratto sulla levetta non si associano a dosi ulteriori se appena ricevute.
La progenie è stata quindi analizzata sia a livello genomico che comportamentale. 
Dall'analisi si è scoperto che i figli maschi di ratti maschi esposti alla cocaina diventano resistenti agli effetti gratificanti del farmaco. Più precisamente i risultati indicano che l'effetto gratificante della cocaina è significativamente inferiore tra i figli maschi - mentre nessun effetto sostanziale è osservato nei ratti femmina. Questo studio è il primo a dimostrare che gli effetti chimici dovuti al consumo di cocaina possono essere tramandati alle generazioni future
Christopher Pierce, autore principale dello studio pubblicato su Nature Neuroscience e professore associato di Neuroscienze presso l'università della Pennsylvania, afferma: "Noi sappiamo che i fattori genetici contribuiscono in modo significativo al rischio di abuso di cocaina. Tuttavia il ruolo potenziale delle influenze epigenetiche - come l'espressione di alcuni geni legati alla tossicodipendenza è controllata - è ancora relativamente sconosciuto".

L'ipotesi evolutiva correlata per spiegare questo fenomeno è più generale e si concentra su un fenomeno di desensitizzazione indotto nella progenie verso le sostanze tossiche: diminuendo la sensibilità diminuisce la tossicità correlata.
 
Cosa succede esattamente da un punto di vista molecolare? la prole di sesso maschile presenta nella corteccia prefrontale livelli aumentati della proteina chiamata fattore neurotrofico derivato (BDNF), nota per smussare gli effetti comportamentali della cocaina. 
Afferma Pierce "anche se abbiamo identificato un cambiamento nel cervello che sembra alla base di questo effetto di resistenza alla cocaina, ci sono senza dubbio altri cambiamenti fisiologici che necessitano di esperimenti più ampi prima di potere essere identificati".
I risultati suggeriscono che l'uso di cocaina provoca cambiamenti epigenetici negli spermatozoi (con conseguente riprogrammazione delle informazioni trasmesse tra le generazioni) che a loro volta si ripercuotono sulla espressione genica. I ricercatori ritengono che gli ormoni sessuali come il testosterone, gli estrogeni e il progesterone giochino un ruolo, ancora poco chiaro, in questo processo di riprogrammazione.

Sono allo studio esperimenti simili con altre sostanze ad azione psicotropa come la nicotina e l'alcol.

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 Fonte
 - Epigenetic inheritance of a cocaine-resistance phenotype
   Fair M Vassoler et al., Nature Neuroscience 16, 42–47 (2013)
 






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