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Antidepressivi. "Vecchie" molecole per nuovi utilizzi

Lo studio della depressione è un'area di notevole importanza nella ricerca clinico farmacologica, dato l'impatto sociale (e quindi economico) di tale malattia.

Sebbene nell'ultimo cinquantennio i progressi medici abbiano enormemente migliorato la qualita' della vita dei pazienti, è altrettanto vero che negli ultimi anni i progressi contro le forme di depressione refrattarie ad ogni trattamento sono stati scarsi.
I motivi sono vari, fra questi l'eterogeneità della malattia e la difficoltà di sviluppare trattamenti compatibili con un trattamento di lungo periodo, vale a dire con minimi effetti collaterali e di lunga efficacia (non associati cioè a resistenza al trattamento).

Da qui l'interesse per due articoli recentemente pubblicati, non correlati fra loro ma importanti per le prospettive terapeutiche aperte.


Ketamina. Una vecchia molecola per un nuovo utilizzo
Un team della Università di Yale ha studiato gli effetti antidepressivi indotti dalla ketamina, un farmaco nato come anestetico veterinario, e umano, diventato purtroppo famoso in quanto troppo spesso usato come "stupefacente da festa". A dosi sub-anestetiche causa uno stato noto come anestesia-dissociativa e sintomi come estraniamento dalla realtà, intorpidimento dei sensi e spesso allucinazioni. Una condizione pericolosa sia per i rischi immediati che per gli effetti a lungo termine in chi ne abusa.
Questo farmaco presenta tuttavia potenzialità estremamente interessanti in quanto se somministrato a malati di depressione resistenti ai farmaci classici (un caso su tre) ha un forte effetto anti-depressivo. Inoltre mentre gli antidepressivi classici necessitano di un trattamento di molte settimane perché si evidenzi un miglioramento, la ketamina induce nei pazienti un benessere immediato che permane fino a 10 giorni dopo il trattamento.
Secondo Ronald Duman, professore di psichiatria e di neurobiologia responsabile dello studio, l'azione anti-depressiva della ketamina è una delle scoperte più importanti nel campo negli ultimi 50 anni.
Comprendere l'azione antidepressiva della ketamina  è fondamentale per sviluppare nuove molecole con uguale/maggiore effetto terapeutico ma prive degli effetti stupefacenti e di tossicità a lungo termine. Nel lavoro pubblicato su Science, gli autori hanno dimostrato che la ketamina induce il rilascio del neurotrasmettitore glutammato, che a sua volta stimola la funzionalità sinaptica. I danni alle connessioni sinaptiche, indotti da stati di stress cronici, sono velocemente revertiti da un singolo trammento con il farmaco. L'azione della ketamina coinvolge quindi un pathway totalmente diverso da quello bersagliato dagli antidepressivi classici (ad esempio i triciclici agiscono principalmente nella ricaptazione delle monoamine).
C'è quindi ancora molto lavoro da fare, ma le prospettive sono interessanti.

Antidepressivi ... ma non solo
Il secondo articolo, pubblicato su ACS Chemical Biology, riguarda invece un effetto collaterale inatteso, ma positivo, generato dagli antidepressivi classici. I dati sembrano infatti indicare una loro azione cardio-protettiva.
Il team di ricercatori coordinato da John Tesmer della Università del Michigan ha osservato che la paroxetina, un inibitore selettivo del riassorbimento della serotonina (SSRI), inibisce la proteina GRK2, un enzima la cui espressione aumenta nelle persone con insufficienza cardiaca. La scoperta, come spesso avviene, è stata del tutto casuale essendo il risultato di un semplice test dell'efficienza di screening biochimico condotta usando un migliaio di composti commerciali. L'osservazione di una interazione del tutto inattesa ha fornito il "La" per indagare il fenomeno più in dettaglio.
Tale interazione (o meglio la sua azione protettrice a valle) non era stata osservata in precedenza nonostante il farmaco sia in commercio da 30 anni, per il semplice fatto che alle dosi prescritte l'inibizione di GRK2 è trascurabile.
Il dato ora disponibile permetterà ai chimici farmaceutici di modificare la paroxetina in modo da renderla in grado di inibire la GRK2, minimizzando la sua azione SSRI, permettendo un suo utilizzo ai soggetti cardiopatici non malati di depressione.


Articoli di riferimento
- Yale scientists explain how ketamine vanquishes depression within hours
- Synaptic Dysfunction in Depression: Potential Therapeutic Targets
  RS Duman et al, Science 5 October 2012: Vol. 338 no. 6103 pp. 68-72
- Paroxetine Is a Direct Inhibitor of G Protein-Coupled Receptor Kinase 2 and Increases Myocardial Contractility
   D. Thal et al., ACS Chem. Biol., 2012, 7 (11), pp 1830–1839


Te e tumore alla prostata. Una relazione pericolosa o no?

I bevitori di tè sono soggetti a rischio per il tumore della prostata. Oppure no?

La frase di apertura è in effetti il messaggio che emerge da uno studio epidemiologico da poco pubblicato su Nutrition and Cancer Journal. Un messaggio facilmente travisabile da un lettore inesperto e che potrebbe ingenerare dubbi, al momento, non giustificati. L'articolo contiene infatti dei punti interessanti ma altri non sufficientemente dettagliati e da approfondire prima di lanciare un allarme generale. Troppo spesso assistiamo all'effetto megafono esercitato dai media generalisti che sulla base di un riassunto delle conclusioni di lavori appena pubblicati generano un allarmismo ingiustificato. E' un peccato perche' in questo modo si corre il rischio di delegittimare presso il grande pubblico notizie interessanti che dovrebbero essere meglio spiegate.

Torniamo quindi all'articolo il cui titolo e' traducibile in "Consumo di te e rischio tumorale in uno studio di coorte su uomini scozzesi".
Precisazione. Uno studio di coorte prospettico e' uno studio che valuta nel tempo il verificarsi di determinati eventi (morte, malattie, etc) su individui con abitudini di vita diverse (e quindi diversa esposizione a particolari sostanze). Una coorte è un gruppo di persone che mostrano una caratteristica comune o esposizione.
Nel lavoro i ricercatori del Institute of Health & Wellbeing presso l'Universita di Glasgow, hanno seguito per 37 anni 6 mila maschi scozzesi. L'analisi dei dati indica che quelli che bevevano in media almeno 7 tazze di tè al giorno avevano un rischio piu' alto (non rischio assoluto ma relativo) del 50% rispetto ai bevitori moderati (da 0 a 4 tazze di tè al giorno) di sviluppare il tumore della prostata.
Lo studio (Midspan Collaborative study) è iniziato nel 1970 raccogliendo i dati di migliaia di maschi volontari di età compresa fra i 21 e i 75 anni. A questi venne chiesto di compilare un questionario riguardo le loro abitudini generali (tè, caffè', fumo, salute generale) prima di essere sottoposti ad una visita generale.
Circa il 20 % dei soggetti vennero classificati come forti bevitori di tè. Di questi il 6,4% ha sviluppato nel corso dei 37 anni successivi un tumore alla prostata. Confrontando l'incidenza relativa del tumore nei vari gruppi, il rischio relativo nei bevitori di tè era maggiore.

Tuttavia questo dato, come ammettono gli autori, si presta a diverse valutazioni. L'epidemiologia insegna che i dati statistici devono essere interpretati ed è molto facile commettere errori grossolani per non avere saputo leggere fra le righe.
Quale è il dato che sembra emergere da questo studio? Bere tanto tè fa male. In realta' questo dato presenta dei fattori di disturbo (detti in gergo fattori di confondimento) importanti.
Ad esempio bere tè in modo continuo si associa generalmente ad uno stile di vita piu' sano. Uno scozzese teivoro è meno probabile che sia anche un forte consumatore di alcol. Questi soggetti sono quindi a minor rischio di essere sovrappeso, condizione che a sua volta esclude gran parte dei problemi metabolici e comportamentali associati all'alcol.
Quindi, se bere tè aumenta le aspettative di vita è ovvio che i soggetti piu' longevi avranno al loro interno un numero di casi con tumore alla prostata rilevante. Ricordo che nei soggetti di eta' tra 60-75 anni la frequenza di tumore alla prostata e' di 1 su 8. Quindi ci si aspetta un numero di casi di tumore alla prostata consistente per il semplice motivo che i soggetti sono oramai maschi di una certa età.
I ricercatori, che non sono dei bischeri, hanno tenuto in debita considerazione questi dati correggendo statisticamente i risultati per questi fattori di confondimento. Nonostante queste correzioni permaneva tuttavia un aumentato rischio relativo di tumore alla prostata nei bevitori di te.
Possiamo allora dire che il dato è sufficientemente forte da fare scattare un segnale d'allarme?
A mio parere no perchè il lavoro avrebbe necessitato di maggiore chiarezza in fase di progettazione. Ne riassumo alcuni di seguito.
  • Prima di tutto il te consumato è il comune tè nero e NON il rinomato il tè verde, le cui proprietà benefiche sono note (vedi in questo blog o nel sito del NIH). Una considerazione molto importante visto che la gran parte degli studi disponibili associa al solo tè verde (oltre alle varianti rosso e bianco) la benefica azione antiossidante.
  • Altro problema dello studio e' il fatto che ai partecipanti non e' stato chiesto di indicare le modalità di assunzione del tè (zucchero, latte, etc). Un problema questo non trascurabile in quanto è ben noto che l'aggiunta del latte al tè verde di fatto ne cancella le proprietà positive equiparandolo ad una bevanda qualunque.

La nutrizionista Carrie Ruxton ha per questo motivo contestato l'utilità scientifica dello studio visto che non mostra alcuna relazione causa-effetto tra il bere tè e rischio di cancro. I fattori coinvolti sono molto piu' complessi e spesso legati alla dieta e allo stress.

(Articolo successivo su "caffè e prostata")


Articolo di riferimento
Tea Consumption and the risk of overall and grade specific prostate cancer: A large prospective cohort study of Scottish Men
Nutrition and Cancer Volume 64, Issue 6, 2012 
 

Sapone magnetico: la nuova frontiera della tutela ambientale

Un team della Università di Bristol ha sciolto del ferro in un liquido tensioattivo per creare un sapone arricchito di sali di ferro. Il sapone in azione ha una particolarita' che lo distingue dai detergenti normali: risponde al campo magnetico.
Cui prodest? (a chi serve?) si chiederanno in molti.
Inquinamento da petrolio e danni ambientali
La scoperta potrebbe essere usata per creare prodotti per la pulizia facilmente rimuovibili dopo l'uso. Senza limitarsi al banale uso domestico (poco vantaggioso) prodotti del genere potrebbero essere utilizzati per rimuovere le macchie di petrolio che troppo spesso minacciano l'ecosistema marino in seguito ai ripetuti incidenti (o alle operazioni illegali di pulizia) delle petroliere.

Il responsabile del progetto, Julian Eastoe, afferma che produrre sapone magnetico e' abbastanza semplice e facilmente riproducibile. Il ferro può essere dissolto con vari tensioattivi inerti basati su ioni cloruro e bromuro; tensioattivi ampiamente usati nei colluttori dentali e negli ammorbidenti. Una volta che a tali tensioattivi viene aggiunto il ferro si forma un nucleo metallico all'interno della micella di sapone. Quando il campo magnetico viene attivato il sapone metallico viene catturato e l'inquinante, intrappolato nelle micelle, rimosso.

Le applicazioni potenziali dei tensioattivi magnetici sono, ovviamente, enormi.
 
Di seguito il video che mostra l'efficiente eliminazione del surfattante magnetico (a sinistra) in un test di laboratorio.


Articolo di riferimento
P Brown et alAngew. Chem., Int. Ed., 2012,

BRCA e radiografia torace? Meglio la risonanza

Le donne con difetti nei geni BRCA, esposte a ripetute radiografie del torace prima dei 30 anni, hanno maggiori probabilità di sviluppare il cancro al seno. Questo è quanto afferma uno studio finanziato dal Cancer Research UK e pubblicato sul British Medical Journal.
I geni BRCA-1 e BRCA-2 codificano per proteine che svolgono un ruolo fondamentale nel preservare la qualità dell'informazione genetica, monitorando e riparando i danni del DNA, ad esempio quelli causati dalle radiazioni. Un meccanismo, quello della riparazione dei danni al DNA, evolutosi per contrastare la costante esposizione delle cellule viventi ai mutageni ambientali quali le radiazioni (siano esse i raggi ionizzanti cosmici o quelle legate al decadimento radioattivo di elementi terrestri) e gli agenti ossidanti (banalmente, l'ossigeno atmosferico). Elementi con cui ogni forma di vita ha dovuto confrontarsi durante l'evoluzione essendo imprescindibili alla vita sulla Terra.
E' un dato ben noto che mutazioni nei geni importanti per i processi di monitoraggio e riparazione del DNA sono non solo comuni in molti tumori ma, se presenti nei gameti che hanno formato l'embrione, aumentano nettamente la probabilità che tali malattie compaiano nei primi anni di vita del portatore.
Un caso emblematico è rappresentato dalle forme familiari di tumore ovarico e del seno. Circa il 2 per cento dei tumori al seno é causato da mutazioni nel gene BRCA; le donne portatrici hanno dal 45 al 65 per cento di possibilità (in senso assoluto NON relativo) di sviluppare la malattia. Stime appena inferiori per il tumore ovarico. Vedi link a fondo pagina.
Il gruppo di Douglas Easton ha mostrato che la presenza di mutazioni nel gene BRCA è associata ad una aumentata sensibilità alle radiazioni ricevute in ambito clinico. I danni indotti dalle radiazioni, facilmente riparati dai sistemi di riparazione cellulari nei soggetti non mutati (wild type, wt), nei portatori si accumulano e con essi la probabilità che siano coinvolti geni importanti nel controllo della proliferazione cellulare.
Il lavoro pubblicato, risultato di uno studio internazionale condotto tra il 2006 ed il  2009 su quasi 2.000 donne con difetti nel gene BRCA, fa il punto sulla correlazione tra il rischio di cancro al seno e l'esposizione a basse dosi di radiazione. Un rischio aggiunto che, ripeto, nei soggetti wt e per le dosi considerate è del tutto trascurabile.
Le donne sotto i 30 anni con mutazioni nel gene BRCA esposte in passato a radiografia del torace avevano il 43 per cento di probabilità in più di sviluppare il cancro al seno, rispetto alle donne con gli stessi difetti, ma non esposte. Questo aumentato rischio NON è invece osservabile nei casi in cui l'esposizione radiografica sia avventuta DOPO i 30 anni.

Afferma Douglas Easton "E' 'importante che queste donne ed i loro medici siano consapevoli di questo loro sensibilità e delle procedure diagnostiche alternative esistenti. Evitare di sottoporsi a diagnosi preventiva sarebbe un errore di segno opposto ma ugualmente dannoso".

Sottoporsi ad esami radiologici è importante ma non deve essere abusato. Quello che importa è il rapporto rischio/beneficio. Sapere quali sono fra i pazienti adulti quelli hanno bisogno di maggiori tutele è importante per dosare l'approccio al minimo essenziale.



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Articoli di riferimento

- BRCA1 and BRCA2: Cancer Risk and Genetic Testing
National Cancer Institute (NCI)

- Exposure to diagnostic radiation and risk of breast cancer among carriers of BRCA1/2 mutations: retrospective cohort study
BMJ 2012;345:e5660




un farmaco antitumorale nella lotta all'HIV

 Qualche settimana fa ho affrontato, seppure per sommi capi, le problematiche insite nella infezione da HIV e i limiti pratici delle terapie attualmente disponibili. Terapie, non dimentichiamolo, che hanno di fatto trasformato una infezione a progressione acuta e inesorabile in una malattia cronica; salvando da morte certa migliaia di persone. Progressi che hanno, purtroppo, il rovescio della medaglia nella sottovalutazione da parte di molti giovani del rischio di contrarre/trasmettere l'infezione: durante la terapia il virus e' nella maggior parte dei casi a concentrazioni ematiche sotto la soglia di rilevazione. In queste condizioni non rilevazione non vuole dire assenza ma semplicemente contenimento. Una sottovalutazione che negli ultimi anni ha causato, nei paesi sviluppati, una preoccupante inversione di tendenza nelle nuove infezioni con un aumento di nuovi infettati fra i più giovani.
Trovare una cura definitiva al posto di un trattamento cronicizzante è prioritario ma, ovviamente, non facile. Sempre nel post precedente scrivevo delle prospettive aperte dalla scoperta di molecole raggruppate solo il nome di bryologs.
Parlo oggi di un farmaco che potrebbe, in futuro, essere utile per l'eradicazione completa della malattia (o meglio dei virus latenti). Si tratta di una molecola già in uso come antitumorale di cui si è recentemente osservata una proprietà interessante: è in grado di riattivare il virus latente (che inizierà a replicarsi) rendendolo tuttavia un facile bersaglio per le terapie anti-virali ora disponibili.
Si tratta del Vorinostat, prodotto dalla Merck Sharp & Dohme, il cui uso attuale e' nel trattamento del linfoma cutaneo e, potenzialmente, del tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC) in fase avanzata. La molecola agisce su proteine con attività istone-deacetilasica, la cui azione è fondamentale nella regolazione dello stato cromatinico e della espressione genica.
L'effetto, non previsto e ovviamente non voluto, di riattivare l'HIV e' stato confermato sia in vivo che in vitro. Un pericolo in realtà solo nei malati di cancro positivi al HIV.
L'idea ovvia sarebbe di trasformare questo problema in una risorsa. Se il farmaco è in grado di riattivare il virus latente, una terapia anti-HIV standard associata al Vorinostat permetterebbe di colpire e eliminare tutti i virus latenti, eradicando di fatto la malattia.
Non è così semplice dato che questa classe di farmaci ha seri problemi di tossicità intrinseca: una tossicità accettabile nelle terapie di ultima istanza, cioè in tutti quei casi in cui la terapia è l'unica risorsa per malattie ad esito nefasto nel breve termine (come i tumori sopra indicati). Non è questo il caso per i soggetti infettati ma per il resto asintomatici grazie alle terapie in atto. Asintomaticità che come Magic Johnson insegna è pluridecennale.
La ricerca dovrà quindi indirizzarsi su molecole simili al Vorinostat ma a bassa tossicità (con un rapporto danno-beneficio estremamente basso). Solo allora l'eradicazione definitiva della malattia da HIV entrerà nelle sua fasi finali.

(articolo precedente su HIV e nuovi farmaci, qui)


Articolo di riferimento
- Administration of vorinostat disrupts HIV-1 latency in patients on antiretroviral therapy
   Archin NM et al., Nature 487, 482–485 (2012)

Vivere un azione al rallentatore? Il risultato di un aumento percettivo

Chi di noi non ha mai sperimentato la sensazione del tempo che sembra rallentare mentre si vive una esperienza intensa?
Abbiamo tutti esperienze aneddotiche a riguardo: gli attimi prima di un calcio di rigore; gli ultimi secondi prima di scoprire l'esito di una prova per noi importante; il momento di un incidente.

Questa sensazione è stata studiata e i risultati pubblicati sulla rivista Proceedings of the Royal Society Biology da ricercatori del Cognitive Neuroscience Institute dello University College London (UCL). I dati raccolti sembrano indicare che la sensazione del tempo che rallenta sia il risultato di una maggiore quantità di informazioni visive "catturate". Non a caso la percezione aumentata è legata principalmente alle fasi immediatamente precedenti e a quelle contemporanee al verificarsi dell'evento (ad esempio la rincorsa e il calcio del pallone in un rigore) mentre quelle successive sono a "velocità normale" (il pallone calciato sembra accelerare quando si avvicina alla rete).
La percezione del battitore è l'esempio usato nello studio
Nobuhiro Hagura, il coordinatore dello studio, sostiene che grazie a tale attivazione selettiva il cervello facilita il giocatore (nell'articolo si usa come esempio il battitore nel baseball e il giocatore di tennis), permettendogli di adeguare il movimento del corpo alle modifiche dell'ultimo istante dell'ambiente in cui avviene l'azione (il portiere che si sposta impercettibilmente in una data direzione). L'aumentata quantità di informazioni catturate non viene processata a livello conscio ma viene semplicemente assorbita.
In altre parole l'esecuzione di movimenti ad alta precisione si associa ad una diminuita consapevolezza sensoriale, da qui l'illusione del tempo che rallenta, che si traduce in una sostanziale automaticità della "risposta". Quando suoniamo il pianoforte non ci concentriamo sulla combinazione di tasti mano destra e mano sinistra se non nei pezzi che ancora non conosciamo. Quando calciamo un rigore e captiamo all'ultimo istante il movimento del portiere non pensiamo alla corsa ma in un millisecondo (mentre a noi non sembra tale) cambiamo l'orientamento del piede che sta calciando. Vediamo quello che sta avvenendo ma i nostri movimenti ci appaiono comandati dal pilota automatico.
Nel lavoro i ricercatori hanno chiesto a 56 partecipanti di toccare lo schermo tattile di un monitor (o di premere un tasto) in risposta a specifici segnali visivi. I volontari erano divisi in due gruppi sottoposti ad una attività motoria di diversa intensità (bassa o alta) per riuscire ad eseguire il comando. Al termine dell'esperimento venne chiesto ai partecipanti di indicare la durata del segnale visivo; i partecipanti erano stati in precedenza istruiti su come valutare la durata temporale.
Si è così scoperto che il segnale mostrato alle persone che si preparavano ad un movimento, era percepito come prolungato, rispetto a quello che veniva percepito dai partecipanti rilassati, sebbene la durata del segnale fosse la stessa nei due gruppi.
Non solo. I partecipanti "movimentati" hanno mostrato una maggiore velocità nell'elaborare le informazioni fornite attraverso i simboli. L'insieme di questi risultati indica che l'elaborazione visiva subisce una accelerazione durante la preparazione dell'azione, e che questo si riflette direttamente sulla percezione del tempo. Tanto più precise sono le istruzioni ricevute sul movimento da fare tanto più il tempo appare rallentato a chi è direttamente coinvolto. 
Chiosa a riguardo Nobuhiro Hagura "Tale espansione del tempo percepito stimola le parti visive del cervello, favorendo un aumentato numero di cicli di elaborazione che a loro volta generano informazioni aggiuntive sulla situazione in corso". "Attività come il tennis o il baseball [sport utili per lo studio di questi processi] necessitano di coordinare le proprie azioni con i cambiamenti rapidi e imprevedibili della palla. Il nostro cervello viene così sintonizzato per l'azione; quando sai che ti stai preparando a colpire la palla ti sembra di avere più tempo a disposizione, tempo usato per riuscire a colpirla".

Del resto come spiegava Einstein quando affermava che la relatività del tempo era una cosa ovvia “quando un uomo siede per un ora vicino a una bella donna, a lui sembra un minuto. Se lo stesso uomo viene fatto sedere per un minuto su una stufa, tale periodo gli sembrerà un eternità".

Articoli successivi su temi correlati, cioè il cervello e i fenomeni del deja-vu e delle allucinazioni.


Fonti
Ready steady slow: action preparation slows the subjective passage of time
    Proc Biol Sci. 2012; 279(1746):4399-406
Time Dilation Induced by Object Motion is Based on Spatiotopic but not Retinotopic Positions
    Ricky  KC et al.,  Front Psychol. 2012; 3: 58.
- UCL news

Biochimica dell'amore / gli ormoni -parte 5/5

Da "Harry ti presento Sally"


(CONTINUA da  parte-4)
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Mi sembrava giusto concludere con una lista semplificata degli attori in gioco. Un compendio minimale delle puntate da 1 a 4

Di seguito un riassunto di ormoni e neurotrasmettitori responsabili di fenomeni come innamoramento, legame affettivo e orgasmo.
Ovviamente nel redarre questo articolo ho dato per scontato un minimo di conoscenza nel campo delle neuroscienze (neurotrasmettitori, etc) per potere tralasciare la spiegazione degli elementi teorici di base.



Dopamina
Anche detto l'ormone della ricompensa. È il neurotrasmettitore coinvolto nelle sensazioni di piacere, quello che ti lascia la sensazione di avere sperimentato l'estasi. Oltre al desiderio sessuale è responsabile anche della brama, del desiderio, della motivazione e del comportamento che si focalizza per appagare il desiderio. Non stupisce quindi che sia coinvolto nei meccanismi alla base della dipendenza. In breve, nell'ambito delle tematiche di questo articolo, è responsabile della sensazione di benessere che si prova nell'essere vicini ad una determinata persona ma anche della compulsione a ricongiungersi ad essa quando il contatto cessa. La sola visione della fotografia dell'amato/a è in grado di stimolare il rilascio di dopamina nel cervello.
La dopamina inibisce il rilascio della prolattina.

Prolattina
L'ormone della sazietà. Reprime l'azione della dopamina e quindi spegne il "desiderio immediato". Uomini e donne con alti livelli di prolattina mostrano un diminuito interesse sessuale e/o la capacità di avere orgasmi, oltre a disturbi dell'umore come ansietà e depressione.

Serotonina
I livelli di serotonina si abbassano quando si sperimenta un nuovo amore. Le persone nella fase di attrazione fisica hanno livelli di serotonina simili a quelli riscontrabili nelle persone con disturbo ossessivo-compulsivo, il che spiega per quale motivo alcuni amanti sono letteralmente ossessionati dall'altro/a.
La serotonina viene rilasciata durante l'orgasmo, da qui la sua azione anti-depressiva che si manifesta con buon umore e rilassamento (che in alcuni induce sonnolenza). Essendo successivo all'orgasmo ha una azione di "freno" del comportamento sessuale maschile. La serotonina e la dopamina agiscono quindi su due vie contrapposte. La vincente decide l'attivazione o meno di un comportamento sessuale.

Ossitocina
L'ormone delle coccole. La ossitocina (vedi parte 3 e 4) è un ormone che favorisce l'instaurarsi di legami a lungo termine. Induce sentimenti di affetto per l'altra persona, aumenta la fiducia, ti fa vedere le persone in una luce più positiva, etc. Da un punto di vista prettamente sessuale induce le contrazioni caratteristiche dell'orgasmo e stimola la prostata. Il rilascio durante l'orgasmo è funzionale alla creazione di un legame post-riproduttivo. Le donne hanno livelli basali di ossitocina più elevati degli uomini, e hanno una maggiore densità di recettori nel cervello.
L'ossitocina necessita di estrogeni per funzionare al meglio. Il contatto visivo, le coccole, il toccarsi reciprocamente e in generale il sesso e l'orgasmo aumentano i livelli di ossitocina. 
La secrezione di questo ormone è diversa nei due sessi (nelle donne viene rilasciata anche dopo l'orgasmo) e questo spiega perché la "voglia di coccole" successiva al coito sia più frequente nelle donne.
Un fenomeno simile avviene durante l'allattamento e svolge esattamente la stessa funzione, cioè rinforzare il legame con il neonato ... anche se non ti ha fatto dormire da una settimana.
L'ossitocina è anche il "mezzo" che spiega perché i nostri cani ci considerino divinità a cui sono dediti senza se e senza ma. Un "amore" assoluto.
Un legame basato sullo sguardo talmente importante da meritare la copertina di Science (ne ho scritto sull'articolo dedicato)

Vasopressina
La vasopressina è l'ormone della monogamia (vedi parte 3 e 4) in quanto rafforza il legame di coppia negli animali. Una funzione analoga è presente anche negli umani.

Feniletilamina
La feniletilamina (PEA) è un alcaloide con attività neurostimolante, simile nella sua azione alle anfetamine, ampiamente diffuso nel regno vegetale. Presente nel cacao e nella cioccolata, migliora l'umore e l'attenzione oltre ad essere un "energetico".
È un prodotto derivante dalla decarbossilazione dell'aminoacido fenilalanina. La PEA è prodotto in maggiore quantità quando si è innamorati e, per converso, una carenza (comune nei maniaco-depressivi) provoca una sensazione di infelicità.
Mentre nei soggetti non innamorati è pressoché assente, negli innamorati se ne trovano grandi quantità nel sangue e nell'urina.
Molti degli ormoni qui descritti condividono la stessa via biosintetica

Adrenalina
L'adrenalina deriva dal processamento della noradrenalina a sua volta derivante da tirosina e prima ancora dalla fenilalanina. La feniletilamina favorisce il rilascio di noradrenalina e dopamina e quindi stimola la respirazione, la frequenza cardiaca e il flusso di sangue; da qui gli effetti a valle fra i quali l'eccitazione sessuale e il piacere. Anche in questo caso il contatto visivo diretto ne aumenta il rilascio provocando la dilatazione della pupilla (tipicamente associato verso qualcosa che ci attrae).
L'adrenalina ti fa sentire eccitato ma anche nervoso. Non a caso è alla base della classica risposta "fuggi o lotta".
Nelle prime fasi dell'innamoramento il corpo risponde allo stress aumentando i livelli ematici di adrenalina e di cortisolo (appunto l'ormone dello stress). Questo è responsabile nell'innamorato/a della tipica sensazione di cuore frenetico, "farfalle nello stomaco" e la perdita dell'appetito.
Durante l'attività sessuale ulteriore adrenalina viene rilasciata dalle ghiandole surrenali. Insieme alla più importante prolattina, l'adrenalina è responsabile del periodo di refrattarietà nell'uomo.

Noradrenalina
Come l'adrenalina, produce uno stato eccitato e aumenta il battito cardiaco (come dopo una corsa). Alti livelli di dopamina si associano al rilascio di noradrenalina.

Endorfine
Le endorfine sono sostanze chimiche prodotte dal corpo (ghiandola pituitaria e ipotalamo) con funzioni di neurotrasmettitori e responsabili della sensazione di benessere, come ad esempio quella che si sperimenta dopo la corsa mattutina (questo spiega la dipendenza dei joggers dalla corsa). Si tratta di antidolorifici naturali che il corpo produce per ridurre lo stress. Possono indurre anche sensazioni di euforia e aumentare la fiducia.
La risata, il contatto fisico, il dolore, l'esercizio fisico, l'eccitamento, il mangiare cibi piccanti, il consumo di cioccolata, l'innamoramento e infine l'orgasmo favoriscono il rilascio di endorfine.
Come gli oppioidi ben insegnano, il rilascio continuato può creare una sorta di dipendenza.

Recettori degli androgeni
Al loro livello di espressione è associata la sensibilità' agli ormoni sessuali.

Testosterone
Ormone sessuale maschile per antonomasia, prodotto tuttavia in entrambi i sessi (in misura ovviamente diversa).
Ha diversi scopi, ma per citarne alcuni, è un fattore importante sia per il desiderio sessuale maschile che per quello femminile. Facilita la congestione clitoridea e l'erezione del pene.
Bassi livelli di testosterone oltre ad essere causa dell'aumento del girovita maschile possono indurre irritabilità, minore focalizzazione nei pensieri, depressione e affaticamento.

Estrogeni
L'ormone sessuale femminile per definizione, prodotto in entrambi i sessi (molto di più nella donna in età riproduttiva). Oltre al suo ruolo nel ciclo, favorisce la lubrificazione femminile (quindi il benessere provato nel rapporto), l'ispessimento della parete vaginale etc



FINE


(vedi su questo blog anche gli articoli "Sindrome del cuore spezzato" , "Le dimensioni contano?" e "Geni giusti per un matrimonio felice").


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Link e note bibliografiche sull'argomento

The biochemistry of love: an oxytocin hypothesis 
   C. Sue Carter & Stephen W. Porges
  EMBO reports (2013) v. 14, pp. 12 -16

The neurobiology of love
   S. Zeki
   FEBS Letters 581 (2007) 2575–2579

The Science of Orgasm   Barry R. Komisaruk, Carlos Beyer-Flores, Beverly Whipple
   The Johns Hopkins University Press (2006) 

- The Common Neural Bases Between Sexual Desire and Love: A Multilevel Kernel Density fMRI Analysis
 Cacioppo S., J Sex Med 12;9:1048–1054 (2012)

e molti altri sia professionali (libri di testo universitari) che divulgativi (ad es. i libri di Desmond Morris, "Perché amiamo" di Helen Fisher, etc)


KIC 12557548. Un pianeta che si vaporizza ad ogni orbita

Riproduzione artistica del pianeta KIC 12557548 che vaporizza (®NASA/JPL-Caltech)
A circa 1500 anni luce di distanza dalla Terra gli astronomi della NASA, nell'ambito del progetto Keplero, hanno identificato un pianeta grande pressapoco come Mercurio. A differenza di Mercurio però questo pianeta sta … evaporando.
Il metodo che ha permesso di effettuare questa osservazione è classico e consiste nell'analizzare la quantità di luce della stella che vediamo schermata, per unità di tempo, a causa del passaggio del pianeta.
Mentre nella maggior parte dei casi i valori sono paragonabili fra una osservazione e l'altra (ovvio visto che la massa del pianeta si suppone costante e lo stesso si può dire della luminosità della stella almeno in un dato periodo di tempo) nel caso del pianeta KIC 12557548 i dati presentavano anomalie.
Le variazioni di luminosità facevano pensare all'esistenza di una "coda" di polvere che seguiva il passaggio del pianeta di fronte (rispetto al nostro punto di osservazione) alla stella. E le variazioni di luminosità in coincidenza con questa coda variavano ad ogni passaggio.
Questi dati fanno ritenere agli astronomi che il pianeta sia così caldo che le rocce vaporizzano perdendo materia nello spazio. In linea molto approssimativa è quello che avviene nelle comete, anche in queste è il ghiaccio a sublimare, strappato poi via dalla superficie dall'azione del vento solare.
Le temperature sulla superficie del pianeta nella parte esposta alla stella è di circa 1800 gradi, una stima derivante dai valori minimi perchè la roccia fonda. L'ipotesi testata mediante simulazioni al computer ha riprodotto i dati di variazioni di luminosità, confermando così la teoria.
Ogni secondo che passa il pianeta perde nello spazio l'equivalente di 100 mila tonnellate di materia. A questo ritmo si volatilizzerà completamente in 100 milioni di anni (un niente in termini di vita di una stella).

Per articoli più recenti derivanti dalle osservazioni dell'osservatorio Keplero vedi:
un sistema planetario sbilanciato, qui;
un pianeta infernalmente caldo, qui

Link utili
  • NASA’s Kepler Detects Potential Evaporating Planet Candidate  (link al sito news della NASA)
  • Progetto Keplero (link)
  • MIT (link
  • Per articoli in questo blog sul tema, clicca sul tag esopianeti o qui.
  • Per articoli sui dati originati dal satellite Keplero, inserisci "keplero" nel box di ricerca in alto a destra

Identificate cellule vive in cadaveri. Cellule zombie?

Cellule zombie? No. Ma una scoperta egualmente molto interessante.
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Adesso che sugli schermi cinematografici è il turno, dopo i vampiri, degli zombie romantici (vedi il film Warm Bodies) penso sia interessante presentare un articolo pubblicato qualche mese fa su Nature Communications. Un articolo che fra gli addetti ai lavori venne riassunto come "ecco a voi le cellule Zombie!".
 Tranquilli, non si tratta né di una epidemia alla George Romero né di eventi biblici da fine dei tempi. Si tratta semplicemente dell'osservazione di un fatto che non si riteneva possibile: sono state identificate nei cadaveri refrigerati cellule muscolari vitali a distanza di 17 giorni dalla morte. Queste cellule messe in coltura erano ancora capaci di dividersi e di generare nuove cellule muscolari.
Ancora più interessante il fatto che i 17 giorni non solo il limite massimo entro il quale il fenomeno può essere osservato. Si tratta solo del limite imposto dalla mancanza di cadaveri più vecchi; del resto i corpi vengono conservati nelle celle frigorifere per un periodo di tempo limitato (o in attesa della autopsia o semplicemente della sepoltura), quindi si comprende per quale motivo la materia prima sperimentale più stagionata non fosse disponibile.
Una scoperta come dicevo sorprendente dato che nella comunità scientifica il consensus è che le cellule, e solo alcune (quelle a metabolismo più basso), potessero sopravvivere post-mortem al massimo per 1-2 giorni. La maggior parte delle cellule, come ben sappiamo dalla clinica, muoiono dopo soli pochi minuti di mancata ossigenazione; figuriamoci quindi dopo più di due settimane. Le cellule qui identificate sono cellule staminali muscolari, cellule che vengono "attivate" solo in caso di necessità nell'adulto (ad esempio nei processi di sostituzione di cellule danneggiate).
Non si tratta in realtà di una scoperta del tutto inattesa. Lo studio in cadaveri umani nasce infatti dalla scoperta che in topi morti da 14 giorni (ovviamente refrigerati) erano presenti cellule staminali muscolari vitali. Lo studio in Uomo quindi ne è una diretta conseguenza.
Perchè proprio le cellule muscolari? A causa di un insieme di fattori, primo fra tutti lo stato di quiescenza in cui le staminali muscolari entrano dopo essersi divise (e non è che queste si dividano ogni giorno come ad esempio le staminali del derma). Uno stato che protegge queste cellule da eventuali sbalzi della tensione di ossigeno e/o nella disponibilità di nutrienti. Inoltre, e questo è vero per la maggior parte delle cellule staminali, lo stato di ipossia/anossia e' fondamentale per il mantenimento dello stato non-differenziato di queste cellule e quindi della loro capacità rigenerativa. Una cellula staminale in un ambiente ipossico è più stabile della maggior parte delle altre cellule.

E' questa una osservazione degna di nota o solo una curiosità?
In teoria questo dato potrebbe essere utile per sviluppare nuove terapie rigenerative partendo da cellule di donatori deceduti. Del resto prelevare da cadaveri delle cellule non è una cosa così diversa dal prelievo degli organi. Il vantaggio di usare le cellule è implicito: potranno essere prelevate da donatori refrigerati, cosa non praticabile nel caso della donazione di organi.
Alexey Bersenev ha parlato di questa possibilità nell'articolo Convergence of gene and cell therapy (Regen Med. 2012 Nov;7(6 Suppl):50-6), a cui rimando per approfondimenti.

Ma c'è una cosa che è ancora più straordinaria: fra i donatori analizzati in questo studio quasi la metà di essi aveva più di 90 anni! Un dato questo che aumenta esponenzialmente la disponibilita' (potenziale) di cellule da persone decedute per cause naturali (mentre oggi purtroppo le donazioni dipendono dal verificarsi di eventi tragici e acuti su persone di giovane età).
Le cellule di persone anziane hanno tuttavia una incognita derivante dalla possibilità che abbiano accumulato nel corso della vita mutazioni genetiche. Lo stress ossidativo è un evento normale contro cui le cellule combattono dal momento in cui ... vivono
Più a lungo uno vive e maggiori sono i danni che si accumulano nel DNA. Un concetto valido per tutte le cellule ... a meno che lo stato di quiescenza non agisca isolando le cellule staminali, preservandole dai danni indotti dallo stress ossidativo. E' ben noto che il danno ossidativo agisce a diversi livelli nella cellula (vedi proteine e lipidi) ma il pericolo maggiore è a carico del DNA. Piu' intensa l'attivita' mitotica, maggiore è il metabolismo, piu' alta la probabilita' che una mutazione compaia. Una cellula dormiente "invecchia" meno di una cellula attiva.
Prima di utilizzare quindi le cellule zombie da anziani sarà necessario fare una analisi genomica approfondita per capire se e quanti sono i danni presenti. Danni che verrebbero trasmessi a chi riceve il trapianto con effetti da trascurabili (semplicemente le cellule sono meno reattive) a importanti (le cellule sono malate).
Al momento l'idea generale è che la nicchia in cui le staminali muscolari si trovano è in effetti in grado di isolare le cellule dalla maggior parte degli stress "ambientali". Se, e quanto, tale nicchia sia ugualmente efficiente durante l'invecchiamento è ancora da appurare.

Quindi, nessun pericolo che un cadavere diventi uno zombie anche se … qualcosa di vivo nei suoi tessuti c'è.
Sta a noi capire quanto possa essere utilizzabile.



Articoli successivi correlati (ma sempre e solo scientifici) cliccando sul tag --> "zombie in natura"


Fonte
- Skeletal muscle stem cells adopt a dormant cell state post mortem and retain regenerative capacity. Latil M et al., Nat Commun (Jun 12, 2012)

- Dormancy of stem cells enables them to remain viable... many days post mortem
CNRS, press release



Oliver Sacks. La musica e le neuroscienze

Chi legge un libro di Oliver Sacks rimane di solito affascinato dalla intelligenza e dalle conoscenze a 360 gradi di questo neuroscienziato. Caratteristica peculiare dei suoi libri è che la parte riservata alla note rappresenta spesso una parte ancora più affascinante del libro stesso, fonte di una tale quantità di informazioni che potrebbero originare altrettanti libri.
Se anche non aveste mai letto un suo libro conoscerete probabilmente il personaggio grazie alla bella interpretazione che Robin Williams ne fece nel film "Risvegli" una ventina di anni fa (ispirato al libro omonimo).
Per capire il personaggio in realtà non c'è niente di meglio che leggere "Zio Tungsteno", il libro autobiografico che in modo aneddotico ci fa conoscere non solo l'Oliver bambino sempre più attratto dai misteri della materia ma anche la chimica degli elementi in modo semplice ma affascinante. Si capisce allora come un ambiente familiare stimolante associato ad una intelligenza vivace sia l'elemento nutritivo cardine per lo sviluppo di intelligenze rigorose seppur non omologate.
Oliver Sacks deve gran parte della sua fama al suo lavoro di neurologo che lo ha portato in contatto con persone che soffrono di disturbi cerebrali inconsueti. Un medico riluttante visto che all'inizio della sua carriera medica nel 1960 ambiva a lavorare in laboratorio come ricercatore.
"Ma ero eccezionalmente maldestro. Rompevo sempre apparecchi e causavo incidenti" - racconta Sacks al World Science Festival tenutosi a New York lo scorso anno 2012 - "così alla fine, nel '66, mi dissero 'Fuori!  Vai a vedere i pazienti. Farai di sicuro meno danni". E in effetti di danni ne ha fatti pochi ed il suo stile ha sempre tradito la curiosità innata di chi voleva capire e non solo curare.

R. Williams in "Risvegli"
Nel film di cui sopra viene descritto il lavoro "fuori dalle righe" con pazienti particolari, congelati in un mondo interiore inaccessibile, come conseguenza di una malattia (encefalite letargica) contratta diversi decenni prima. Malattia di origine virale che nei primi anni '20 ebbe caratteristiche di vera pandemia (in Italia era nota come la Nona); dopo una apparente guarigione una certa percentuale di pazienti mostrava ricadute di gravità variabile i cui sintomi spaziavano da una sintomatologia di tipo parkinsoniano allo spegnimento della loro capacità di comunicare con il mondo esterno. Una condizione che in molti casi aveva comportato la ospedalizzazione definitiva dei pazienti (all'epoca non ci si poneva il problema del budget degli ospedali).
 L'intuizione geniale di Sacks fu di testare il farmaco allora sperimentale pensato per il Parkinson, la L-dopa. Un trattamento che ebbe successo, anche se temporaneo, risvegliando i pazienti. Un risveglio purtroppo associato ad effetti collaterali che ne impedirono l'uso continuativo del farmaco ma nondimeno fondamentale per sviluppare nuove terapie.
La caratteristica distintiva di Sacks è il mix fra l'approccio umano e la curiosità scientifica che lo hanno spinto, nel suo ruolo di neurologo, a interagire con i pazienti in modo così intenso da portare alla luce non solo gli aspetti puramente medici delle malattie ma in primis la parte umana.
Libri come "L'Isola dei Senza Colore" e "Musicofilia" sono alcuni degli esempi tratti dalla sua letteratura "divulgativa" che descrivono l'intreccio fra l'aspetto umano delle percezioni sensoriali legate alla vista e alla musica con le neuroscienze. 
Musicofilia
E proprio in riferimento alla musica, o meglio al risveglio del cervello attraverso la musica, che Sacks ha tenuto una conferenza presso la Columbia University. Il tema della conferenza era la capacità della musica di guarire i pazienti affetti da gravi problemi neurologici e fisici e le basi biologiche del processo.
Un potere quello della musica scoperto da Sacks proprio nel 1966, quando lavorava come consulente neurologo al Beth Abraham Hospital nel Bronx, l'ospedale in cui assistiva i pazienti "letargici".
Sacks scoprì in modo assolutamente casuale che alcuni pazienti che avevano perso la capacità del linguaggio espressivo improssivamente cominciavano a cantare se qualcuno ne iniziava la strofa. "Mi fu detto che era il compleanno di uno loro, così iniziai a cantare Happy Birthday e … il paziente continuò!!".
In un video mostrato alla conferenza si vede un uomo anziano di nome Henry che soffriva di demenza, risvegliarsi dal suo stato catatonico al suono della sua musica preferita. Al termine dell'ascolto il paziente era in grado di rispondere alle domande sulla canzone suonata. Una capacità interattiva che permaneva nel paziente per un certo tempo dopo l'ascolto. Come se avesse ricevuto una ricarica a molla sufficiente per "attivarlo" per un certo periodo di tempo.
Sotto il video di Henry che risorge grazie ad un semplice iPod e il racconto di Sacks e dell'infermeria che lo aveva visto per anni in stato vegetativo.


La musica del resto ha avuto un ruolo importante nella vita del Sacks ragazzino, grazie all'amore del padre per la musica classica. A sei anni scoprì così Bach, una passione che dura tuttora.
Nel mostrare il risultato di una risonanza magnetica fatta sul suo cervello subito dopo avere ascoltato Bach si osserva che una attivazione cerebrale diffusa (vedi il video qui). Come afferma Petr Janata, un neuroscienziato cognitivo che lavora alla Università della California-Davis "la nostra risposta alla musica non si trova (come può essere per la semplice percezione di un suono) in una sola regione ma è ampiamente distribuita in tutto il cervello".

Insomma una conferenza (video del Festival della scienza) che consiglio di vedere (per chi capisce l'inglese) per assorbire quanto più possibile da uno scienziato come se ne trovano pochi.


Da organismi marini l'idea per nuove molecole contro l'HIV

Nel giro di un decennio il virus responsabile dell'HIV si è trasformato da spietato assassino seriale a soggetto problematico con cui si può condividere la stanza ... purchè assuma in modo regolare le medicine.

Mi si perdonerà questa estrema semplificazione ma il parallelismo è calzante. Se si hanno a disposizione i farmaci l'infezione viene di fatto congelata in una forma cronica e la malattia non evolve (nella maggior parte dei casi) nella sua forma conclamata, l'AIDS. Non si guarisce ma ci si può convivere come Magic Johnson dimostra: scopre l'infezione nel 1991, si ritira dall'attività agonistica e si sottopone ai trattamenti in modo costante e controllato. Ad oggi non ha sviluppato l'AIDS. 
Un trattamento elitario che poteva permettersi solo uno sportivo milionario? No, da molto tempo. Oramai i servizi sanitari nazionali e/o le assicurazioni (in USA) coprono i costi del trattamento. Data l'importanza sociale del trattamento il prezzo che le industrie farmaceutiche chiedono è nettamente inferiore, nonostante gli enormi costi di sviluppo sostenuti, a quello proposta per altri farmaci; un abbattimento del prezzo che nei paesi in via di sviluppo è ancora maggiore grazie alla cessione delle licenze per la produzione dei farmaci ad industrie locali (vedi il caso India).
La vera differenza fra paesi sviluppati e non sta, come vedremo poi, nella diversa capacità di attenersi scrupolosamente alla terapia nei modi e nei tempi previsti per tutta la durata della vita del paziente.

La terapia antiretrovirale (HAART - highly active antiretroviral therapy) utilizza un cocktail di inibitori che agisce sulle diverse fasi della replicazione virale. Il congelamento della replicazione del virus permette al sistema immunitario di ricostituirsi ma non elimina (se non quando muoiono naturalmente) le cellule già infettate. Impedisce a nuovi virus di formarsi ma, come nel caso dell'herpes, il virus è latente e pronto a ricomparire per tutta la vita dell'individuo (ripeto a meno che l'infezione fosse minima e le cellule infettate siano morte nel frattempo) qualora le condizioni siano di nuovo favorevoli al virus. Condizione favorevole vuole dire attivazione delle cellule infettate (generalmente latenti) a causa di sotto-dosaggi del farmaco.
Soggetti che presentano tracce di RNA virale ematico sotto la soglia minima di rilevazione (quindi apparentemente guariti e sostanzialmente non infettivi) rimangono tali fintanto che il controllo farmacologico, e il caso, lo permette. Il trattamento DEVE essere mantenuto e bisogna evitare assolutamente la discontinuità. Pena la comparsa di virus resistenti, come abbiamo imparato con gli antibiotici. Il modo migliore per generare organismi resistenti è fare trattamenti "incompleti".
Per questo motivo nei paesi poveri il problema vero non è la "banale" disponibilità del farmaco ma la conservazione dello stesso in condizioni ottimali e la continuità del trattamento. Entrambe queste condizioni sono di solito carenti in quelle popolazioni che hanno problemi più pressanti del recarsi dal medico di zona, spesso distante, per il trattamento quotidiano.

La ricerca si è indirizzata allora verso lo sviluppo di trattamenti in grado di eradicare il virus e non solo di controllarlo. Diversi gli approcci teoricamente possibili. 
La scelta più ovvia sarebbe quella di associare il trattamento attuale che sappiamo funzionare bene, anche se presenta effetti collaterali, con un trattamento nuovo. Quest'ultimo dovrebbe attivare il virus dormiente integrato nel genoma cellulare (e quindi insensibile e invisibile) in modo tale che la cellula portatrice diventi visibile e quindi eliminabile
Tolta la cellula serbatoio, tolta la possibilità di recidive.

Facile dirlo, un po' meno farlo in modo sicuro ed efficiente. Uno studio di un team della Stanford University coordinato da Paul Wender fa ben sperare. Il lavoro pubblicato su Nature Chemistry di qualche mese fa riporta lo sviluppo dei bryologs (mi rifiuto di italianizzarlo in briologi) una nuova classe di sostanze creata a partire da una molecola presente in natura ma molto difficile da purificare.
Tutto nasce dallo studio sui trattamenti anti-epatite in uso nella medicina tradizionale delle isole Samoa. La molecola attiva, prostratina, presente nella corteccia dell'albero mamala, agisce attivando la proteina kinasi C (PKC) importante nel processo di riattivazione del virus dalla fase latente.
La pianta Mamala (Homalanthus nutans) ®Stanford University
Studi successivi condotti dal National Cancer Institute identificarono una molecola simile ma molto più efficiente (bryostatin) nella Bugula neritina, un organismo bentonico marino sessile appartenente ai Briozoi. La molecola era così interessante da essere stata presa in considerazione per trattamenti contro HIV, cancro e Alzhaimer!! Peccato però per un piccolo particolare: servivano 14 tonnellate di briozoi per purificare 18 grammi di bryostatin. A causa di questo ostacolo insormontabile gli studi clinici pianificati dovettero essere interrotti quasi subito in attesa che qualcuno sviluppasse una strategia di purificazione alternativa. 
Una piccola colonia di Bugula neritina (®Luis A. Solórzano)
Dalla Prostratin ai Bryologs (®C. Melander et al.)
Il lavoro di Wender per l'appunto risponde a questa necessità: descrive la produzione di una classe di analoghi sintetici della bryostatin, chiamati bryologs, fino a 1000 volte più efficiente. I bryologs comprendono 7 diversi composti che hanno in comune due caratteristiche: la regione in grado di interagire con la PKC e il braccio spaziatore che permette al complesso risultante di ancorarsi alla parte interna della membrana cellulare.
Questi prodotti sono sintetizzabili in laboratorio, quindi i poveri briozoi possono stare tranquilli.


Forse ora gli studi clinici potranno ripartire.


Post successivo sull'argomento nel blog, qui
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Articoli sull'argomento

Stanford University news - link
  
Medicinal chemistry: Forcing an enemy into the open
Christian Melander & David M. Margolis  - Nature Chemistry 4, 692–693 (2012)

Designed, synthetically accessible bryostatin analogues potently induce activation of latent HIV reservoirs in vitro
Brian A. DeChristopher et al. - Nature Chemistry 4, 705–710 (2012) 

Organic Synthesis Toward Small-Molecule Probes and Drugs Special Feature: Design, synthesis, and evaluation of potent bryostatin analogs that modulate PKC translocation selectivity
Paul Wender et al -  PNAS 108 (17) 6721-6726 (2011)

The epidemic : a global history of AIDS
Engel, Jonathan (2006) - New York: Smithsonian Books/Collins. pp. 308

I briozoi dal bel blog Notte e Sale, link

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