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Predire la capacità di lettura nei bambini


Se un bambino di 7 anni divora avidamente le pagine dei libri di "Harry Potter", c'è una ragionevole certezza che da grande diventerà un assiduo lettore. Se al contrario la lettura lo annoierà, o semplicemente lo stancherà, il suo rapporto futuro con la lettura sarà problematico. E' noto infatti che la capacità di lettura di un bambino all'età di 7 anni permette di  prevedere con precisione la capacità di lettura dello stesso a 10 anni di distanza. Un bambino che ha problemi di lettura a 7 anni si porterà dietro tale difficoltà anche durante le scuole superiori: a parità di ore dedicate allo studio, e di sforzo, la sua capacità di assimiliazione è difatti inferiore. Maggiori difficoltà e apprendimento minore (rispetto ai propri compagni di classe) si traduce inevitabilmente in scoramento e in resa effettiva ancora minore.
(® Photos.com)
Sia chiaro non si parla di bambini con quoziente di intelligenza ridotto o che soffrono di altri disturbi (ad esempio la dislessia), oggi facilmente identificabili, ma di quegli individui che pur manifestando maggiori difficoltà sono in tutto e per tutto indistinguibili dagli altri. Identificare questi bambini prima dell'inizio del percorso scolastico permetterebbe di integrare l'insegnamento di base con modalità didattiche ad hoc rendendo il percorso scolastico da subito meno "deprimente". Minori sono le difficoltà e la sensazione di inadeguatezza provati, maggiore è la volontà di partecipare attivamente al lavoro di gruppo.
Queste affermazioni, solo apparentemente banali, sono state recentemente sostanziate da uno studio dell'Università di Stanford. Studio che ha uno scopo molto importante: identificare le differenze neurali tra le due sopracitate tipologie di bambini in modo da potere identificare precocemente i problemi di lettura.
Per fare questo i ricercatori hanno analizzato una volta l'anno e per tre anni consecutivi, la struttura cerebrale di 39 bambini mediante tecniche di risonanza magnetica. Dopo ciascuna scansione gli studenti sono stati sottoposti a test standard per misurare le loro abilità cognitive, linguistiche e di lettura. Si è potuto così osservare che il grado di sviluppo della materia bianca (ricavato dai valori di anisotropia frazionale - FA) delle regioni del cervello tipicamente associate alla lettura, permette di predire con precisione il punteggio ottenuto successivamente nel test.
In particolare, i bambini con capacità di lettura superiore alla media hanno un valore di FA in specifiche aree (fascicolo arcuato nell'emisfero sinistro - Laf - e il fascicolo longitudinale nell'emisfero inferiore) che aumenta costantemente con il passare del tempo.
Il Laf in un'nalisi del cervello per imaging (®wikimedia)
Al contrario i bambini con minore abilità nella lettura partono da valori di FA alti che diminuiscono con il tempo. 
Jason D. Yeatman, uno degli autori dello studio, commenta "Nel momento in cui i bambini entrano nella scuola elementare, il divario tra "lettori" e "non-lettori" tende ad aumentare". Intervenire precocemente è fondamentale.
La buona notizia allora è che ci sono strumenti in grado di predire tali difficoltà e di colmarle grazie alla straordinaria plasticità del cervello dei bambini in grado di rispondere a sollecitazioni mirate. Un intervento che si spera di implementare già nei prossimi anni.

Fonti
- Stanford University, news
- Development of white matter and reading skills
   PNAS 2012 - 109 (44)
- Reading impairment in a patient with missing arcuate fasciculus
  Neuropsychologia, 2009 - 47 (1)

Tè verde contro l'Alzheimer?

Il tè verde fa bene. E questo si sa da molto tempo. Quanto faccia bene e come agisca è già più complicato da valutare viste le numerose variabili in gioco. Variabili che sono sia personali (genetica e alimentazione, quantità ingerita e da quanto tempo lo si beve) che esterne (ambiente in cui si vive, etc).
(image credit: University of Michigan)
Come agisca e quali siano le molecole del tè effettivamente attive è un altro tema di indagine. Di sicuro c'è che il tè verde ha dimostrate proprietà antiossidanti.
Ora i ricercatori della università del Michigan hanno scoperto (e pubblicato su PNAS) che l'estratto di tè verde intereferisce con la formazione delle placche amiloidi, il processo alla base (non la causa prima) della degenerazione neuronale che porta all'Alzheimer.
Per essere più precisi, senza però entrare in tecnicismi, l'estratto agisce prevenendo la denaturazione di alcune proteine chiave (le metal-associated amyloids) del cervello. Prevenire la denaturazione vuol dire in primo luogo evitare che le proteine denaturate si aggreghino fra loro (fenomeno spontaneo dovuto alla esposizione dei residui idrofobici che tendono ad interagire fra loro); in secondo luogo si evita che gli aggregati formatisi all'interno dei neuroni si accumulino alterando irreversibilmente la fisiologia cellulare.
Identificare il principio attivo dell'estratto è stato il secondo passaggio. Gli autori hanno associato tale principio nella epigallocatechin-3-gallate (abbreviata in EGCG), una molecola già nota e con interessanti proprietà anti-tumorali (ora in fase di validazione clinica). La EGCG, in test di laboratorio, non solo impedisce la formazione degli aggregati amiloidi ma rompe anche quelli esistenti. Una azione di pulizia e prevenzione.

Sarà interessante seguire attentamente il progredire di questa ricerca vista anche la crescente importanza delle molecole antiossidanti, come i flavonoidi, nella terapia delle malattie neurodegenerative.


Fonti
- Insights into antiamyloidogenic properties of the green tea extract (−)-epigallocatechin-3-gallate toward metal-associated amyloid-β species
Suk-Joon Hyung et al, PNAS February 20, 2013 

- University of Michigan, area news

- Sulle proprietà del tè verde vedi il sito del NIH, qui.

- Articolo precedente sul blog riguardo nuovi approcci per contrastare l'Alzheimer
Farmaco anticancro...

Sterilizzazione e virus

Sterilizzare un oggetto vuol dire eliminare e/o rendere inoffensivi i microorganismi presenti.
Vi sembra ovvio? Eppure molti studenti di facoltà scientifiche si inceppano quando devono fornire la spiegazione dei meccanismi alla base del processo di sterilizzazione.
®EPFL.ch
Questa è stata la constatazione che ha spinto la ricercatrice Tamar Kohn del laboratorio di chimica dell'ambiente presso l'École Polytechnique Fédérale di Losanna a riassumere brevemente i principi base in un articolo presentato sulla rivista Environmental Science and Technology.

 Acqua bollente, cloro nelle piscine, candeggina per il bagno, ... , sono solo alcuni degli strumenti con cui operiamo ogni giorno uno sterminio di massa, ma per un buon motivo. Eliminare virus e batteri nelle zone critiche con cui entriamo in contatto è alla base delle elementari norme igieniche.
Il principio base a cui si ci attiene è che i virus non sono altro che un involucro proteico che delimita il codice genetico necessario per "costringere" la cellula infettata a produrre in sua vece degli altri virus.
Rendere un virus non funzionante vuol dire disattivare le proteine e/o danneggiare le istruzioni portate dal virus. I metodi per raggiungere questo scopo sono vari. Molti di questi sono entrati nell'uso comune prima ancora di comprenderne l'effettivo funzionamento.

I metodi in uso sono riassunti dalla figura seguente, in cui si evince facilmente la modalità di azione di ciascun "disinfettante".

Come esempio si è qui usato il batteriofago MS2  (®T. Kohn, © 2013 American Chemical Society)

Fra i trattamenti utili abbiano la radiazione UV (ma anche le radiazioni ionizzanti), composti con ossigeno attivo (1O2), cloro libero o in forma composta (diossido di cloro), calore (ad esempio la pastorizzazione), etc. Come evidente dalla figura alcuni metodi agiscono sulle proteine, altri danneggiano l'acido nucleico (DNA o RNA), altri ancora svolgono entrambe le azioni.

Il calore (la figura in questo caso non è chiara) di una semplice pastorizzazione è in genere sufficiente per denaturare le proteine virali dell'involucro esterno del virus; proteine necessarie affinchè si stabilisca il contatto virus-cellula, alla base di ogni infezione.

Vale la pena sottolineare che solo comprendendo i dettagli dell'azione "sterilizzante" di tali procedure, queste potranno essere utilizzate con intelligenza evitando trattamenti ridondanti o inutili (ad esempio l'alcol per eliminare le spore batteriche).



Articolo di riferimento
Virus Inactivation Mechanisms: Impact of Disinfectants on Virus Function and Structural Integrity
Krista Rule Wigginton et al., Environ. Sci. Technol., 2012, 46 (21), pp 12069–12078




L'attività fisica previene il tumore renale

Fare attività fisica riduce il rischio del carcinoma renale grazie all'effetto combinato contro obesità, ipertensione arteriosa, resistenza all'insulina e perossidazione lipidica.
Nonostante siano ben noti i meccanismi biologici potenzialmente responsabili del binomio sport-salute, fino ad ora mancava uno studio epidemiologico sufficientemente solido da supportare la correlazione più attività fisica uguale meno cancro renale.
Tale mancanza è stata ora eliminata grazie alla meta-analisi da poco pubblicata sul British Journal of Cancer. Ricordo che con meta-analisi si intende una analisi epidemiologica che raggruppa studi statistici precedentemente pubblicati, allo scopo di ottenere informazioni statisticamente piu' affidabili. Affidabilità che deriva sia dal maggior numero di soggetti coinvolti che dalla correzione per i fattori di disturbo presenti in ogni analisi statistica.

Estraendo il succo dell'articolo, gli autori hanno condotto una revisione sistematica di 19 studi, il che genera un campione di 2,3 milioni di soggetti sani e di poco meno di 11 mila malati di carcinoma renale.
Fra le variabili considerate l'intensità di attività fisica praticata (da scarsa ad elevata) ha mostrato una correlazione inversa con il rischio di tumore renale. In termini statistici il rischio relativo (RR) è riassumibile con
RR = 0.78              (95% CI = 0,66-0,92)
dove CI è l'intervallo di confidenza al 95%. Una correlazione inversa ben evidente dai numeri.
Fatto ancora più interessante non è stata osservata una variazione significativa di tale effetto protettivo in presenza di fattori associati quali adiposità, ipertensione, diabete di tipo 2, fumo, attività sessuale o area geografica di appartenenza. L'attività fisica è quindi di per se un fattore protettivo pur in presenza di fattori terzi.
 Studi ulteriori saranno necessari per chiarire quale attività fisica fornisca la maggior protezione e quale sia la frequenza/durata perchè tale azione risulti evidente.

Un avviso ai troppi pantofolai (in americano chiamati couch potatoes) patiti di sport televisivi: guardare sport non serve!



Articolo di riferimento
The association between physical activity and renal cancer: systematic review and meta-analysis
G. Behrens and MF Leitzmann, British Journal of Cancer (2013) 108, 798–811

Studiare le lingue ... "ingrandisce" il cervello.

(®lingualounge.co.uk)
I cadetti dell'accademia delle forze armate svedesi hanno a disposizione dei corsi dove apprendere una o più lingue straniere partendo da zero. Lo scopo di questi corsi è di creare militari professionisti in grado con padronanza completa della lingua scelta. Sia essa arabo, cinese, russo, dari, etc. Non si tratta ovviamente di una attività part-time ma di un tour de force che permette nel giro di 13 mesi di acquisire una padronanza completa. I corsi intensivi, in senso letterale, vanno dalla mattina alla sera, giorni feriali e fine settimana.
Una ghiotta opportunità per chi si occupa di neuroscienze e vuole monitorare la relazione fra  processo di apprendimento di una lingua e modificazioni della attività cerebrale. Come non mi stancherò mai di ripetere, ogni studio scientifico che si rispetti necessita di un gruppo di controllo adeguatamente scelto. Il rischio di falsare risultati in se interessanti a causa della mancanza di controlli validi (vale a dire costituiti da individui simili a quelli "studiati" e sottoposti a condizionamenti altrettanto paragonabili) è uno delle cause più comuni di fallimento sperimentale.
Il gruppo di controllo scelto in questo studio è affidabile e consiste in studenti della università di Umeå iscritti a corsi ugualmente impegnativi (ad esempio medicina) ma non in cui l'attività legata all'apprendimento di una lingua straniera è secondaria (ricordo che a differenza che da noi, gli studenti svedesi delle scuole superiori hanno una buona padronanza di almeno due lingue straniere).
Torniamo alle condizioni sperimentali. L'attività cerebrale degli studenti è stata monitorata mediante  risonanza magnetica prima dell'inizio dei corsi e dopo tre mesi di studio intensivo.
I risultati sono interessanti. Mentre la struttura del cervello del gruppo di controllo è rimasta invariata, alcune aree specifiche del cervello degli studenti di lingue sono cresciute (in senso letterale). Le parti che si sono sviluppate in dimensioni sono l'ippocampo (una regione coinvolta nell'apprendimento e nella percezione spaziale) e tre aree nella corteccia cerebrale.
Gli studenti in cui si è osservata una crescita maggiore di queste regioni (giro temporale superiore, vedi immagine sotto) sono quelli dotati di competenze linguistiche migliori rispetto agli altri studenti.
(®wikipedia.org)
Tale regione è coinvolta nel processamento di stimoli uditivi complessi (ad esempio il linguaggio) oltre a funzioni importanti nella social cognition (l'attività mentale che ci permette di capire l'aspetto sociale).

Al contrario gli studenti che hanno dovuto fare uno sforzo maggiore per raggiungere il risultato finale mostravano un incremento volumetrico dell'area responsabile del processamento delle informazioni, il giro frontale medio.
(®wikipedia.org)


Quale sia l'area del cervello "rimodellata" dipende quindi da quanto sia percepito come facile (soggettivo, dipendente cioè dalla predisposizione individuale) il processo di apprendimento della lingua.
Dati che si collegano ad altre osservazioni preliminari presenti nella letteratura scientifica che suggeriscono come la malattia di Alzheimer abbia un esordio più tardivo nei soggetti almeno bilingue.
"Non possiamo confrontare tre mesi di studio intensivo di lingua con una vita da bilingue" precisa giustamente Johan Mårtensson, uno degli ricercatori coinvolti,."Ci sono però forti indizi che suggeriscono come l'apprendimento delle lingue sia un buon modo per mantenere il cervello in forma".

Sull'argomento lingue e sviluppo vedi anche il post "bambini bilingue ...".

Articolo di riferimento

Growth of language-related brain areas after foreign language learning
Johan Mårtensson et al. NeuroImage  Volume 63, Issue 1(2012), pages 240–244

Univesità di Lund, news

Geni e miopia

Dalla genetica nuove informazioni sulla miopia

La miopia è un disturbo della vista causato da un problema refrattivo. Il bulbo oculare dei miopi, più lungo del normale, causa un errato posizionamento del punto di fuoco sulla retina. Di conseguenza, l'individuo riceve una immagine sfocata dell'oggetto osservato.
©(abcsalute,it)
Il difetto sottostante la miopia è in un bulbo oculare leggermente allungato che ha come diretta conseguenza la messa a fuoco nella regione davanti (invece che sulla) la retina. Il risultato immediato è vedere sfocato tutti gli oggetti posti oltre una certa distanza. Nei casi più gravi, la deformazione si estende alle parte interne dell'occhio che si traduce in un aumentato rischio di distacco della retina, cataratta, glaucoma e da qui alla cecità il passo è breve.
Poiché l'occhio cresce con il bambino, la miopia compare generalmente nei bambini in età scolare e al più tardi negli adolescenti

Gli occhiali o le lenti a contatto sono generalmente sufficienti per ripristinare una visione perfetta. A tali approcci si aggiungono, in casi specifici, interventi di chirurgia laser che correggono definitivamente (in molti casi) l'errata messa a fuoco. Le cause della miopia sono varie e comprendono la genetica (genitori e figli condividono spesso il disturbo) e l'ambiente (leggere in condizioni non ideali).
Il problema non è numericamente trascurabile visto che circa il 30 per cento delle persone nei paesi occidentali, con punte del 70 per cento in Asia, ne soffre.

Da qui le ragioni alla base del lavoro pubblicato su Nature Genetics pochi giorni fa dal Consorzio per la Rifrazione e la Miopia (CREAM), che dopo avere analizzato più di 46 mila persone (di cui 37.382 individui di origine europea e 8.376 asiatici) ha identificato 24 nuovi geni associati alla miopia.
I ricercatori hanno analizzato prima separatamente le informazioni genetiche derivate da soggetti europei e asiatici, per poi confrontare i dati alla ricerca di somiglianze e differenze nei geni candidati (vale a dire quelli potenzialmente responsabili della miopia). Delle 16 regioni genetiche identificate nella coorte europea, otto erano presenti anche nella coorte asiatica. Altre 8 vengono dalla inclusione di dati aggiunti in un secondo momento.
I geni, o meglio gli alleli, identificati conferiscono un rischio di miopia dieci volte maggiore rispetto ai soggetti privi di tali alleli.
"La identificazione di geni identici, in popolazioni geneticamente distinte, come candidati al ruolo di gene-miopia fornisce la prova per l'esistenza di fattori di rischio genetici presente in popolazioni diverse," scrivono gli autori.
Di che geni si tratta?  "I geni identificati sono coinvolti in una vasta gamma di funzioni all'interno dell'occhio", afferma Paul Baird dell'Eye Research Center della Università di Melbourne. Alcune delle funzioni alterate in questi alleli sono la transmissione nervosa, lo sviluppo dell'occhio e la funzionalità cerebrale. "Uno dei geni più interessanti, espresso nella retina, è coinvolto nel metabolismo dell'acido retinoico", chiosa Baird. "Questo dato rafforza l'idea che esistono diverse vie che, alterate, portano alla miopia. Alcune di queste vie sono molto complesse".

Comprendere in anticipo la predisposizione di un individuo alla miopia permetterà in futuro di intervenire, ad esempio ripristinando in modo risolutivo la normale biochimica dell'occhio, già nelle primissime fasi del processo distorsivo del bulbo.

Come accennato sopra, la genetica non è l'unica causa della miopia. Si ritiene che i geni ora identificati  rendano conto di meno del 5% delle cause complessive alla base della malattia. Un valore destinato ad aumentare con l'accumulo di dati genetici che si otterranno nei prossimi anni. Sommando queste informazioni ad una opera preventiva ambientale non è da escludere che la miopia come problema verrà totalmente eliminato nei prossimi decenni.

L'identificazione del cavalluccio marino africano

Il cavalluccio marino (genere Hippocampus) è un pesce d'acqua salata molto noto, e di successo fra i bambini, grazie alla sua particolarissima forma.
®wikipedia
 Da un punto di vista prettamente biologico l'aspetto interessante di questo pesce non è tanto nella sua forma quanto nel fatto che in questo animale sono i maschi a portare avanti una pseudo-gravidanza (vedi sotto il motivo del termine "pseudo"). La femmina infatti deposita le uova in una fessura del maschio, posta in prossimità dell'ano, dove le uova fecondate vengono conservate fino alla schiusa.
 Non si tratta ovviamente di una gestazione tipo quella dei mammiferi, ma di una modalità in cui alle uova viene dato semplicemente rifugio in attesa della schiusa. Alla nascita gli avanotti (pesci "neonati") fuoriescono dalla cavità ed iniziano una vita indipendente.
I cavallucci marini si trovano pressoché in ogni mare o oceano, escluse le zone artiche. Dalla Nova Scotia all'Uruguay nell'Atlantico, lungo tutta la costa americana del pacifico, nel mediterraneo e perfino alla foce del Tamigi.
Due maschi "gravidi"
La cinquantina di specie conosciute sembravano fino a poco tempo fa distribuirsi in modo abbastanza uniforme nel globo tranne che nelle acque africane. Nel 2012 è stato infine identificata la prima specie "africana" al largo della costa del Senegal. Dopo la conferma da parte degli studiosi prontamente accorsi, la nuova specie ha ricevuto il nome Hippocampus algiricus.
Il video sotto allegato è di Kate West, responsabile del Progetto Seahorse e ricercatrice della Zoological Society e dell'Imperial College di Londra.

Secondo la West "Il cavalluccio marino occidentale è una delle due specie autoctone di cui si sa ancora troppo poco". Anche questa specie tuttavia corre il rischio di estinzione a causa della forte richiesta di questi pesci dalla Cina sia come componente di medicamenti (di utilità dubbia) della medicina tradizionale cinese che come cibo (foto a lato a Shanghai). Alcune stime parlano di almeno 600 mila cavallucci che vengono esportati ogni anno in direzione Cina.
Pronti per essere mangiati in Cina
Per frenare questo sfruttamento selvaggio già dalla metà degli anni '90 è nato il Progetto Seahorse. Sensibilizzare i governi e i consumatori del rischio di cancellare una specie animale così affascinante è l'obiettivo principale del progetto.
I motivi che hanno impedito finora lo studio della specie africana sono legati alla particolarità delle acque (bassa visibilità nell'immersione e condizioni in genere non ottimali). 
Si sa quindi molto poco sulle caratteristiche dell'habitat, del ciclo vitale o semplicemente della dimensione della popolazione residua del H. algiricus. Informazioni ovviamente fondamentali per la conservazione.


Articolo originale
First footage of elusive West African seahorse
Imperial College of London

Paura della matematica? Colpa dell'amigdala (ma non solo)

L'ansia che la matematica incute in molte persone, adulti o meno, sembra avere una natura fisiologica e non solo psicologica. La cosa non dovrebbe stupire più di tanto chi, come me, crede che la psicologia non sia altro che una espressione biologica di alto livello. Tuttavia indagarne i meccanismi è quanto mai impervio anche per il più convinto positivista.
Negli ultimi mesi sono apparsi due articoli interessanti sul tema.

Il primo lavoro, pubblicato da Christina Young e collaboratori su Psychological Science, ha come imputato principale l'amigdala. Ma andiamo con ordine.
Per effettuare uno studio del genere è necessario sviluppare un metodo di valutazione e quantificazione dell'ansia. Un aspetto questo fondamentale per discriminare gli individui con una "normale"  antipatia per la matematica da quei soggetti con risposte eccessive, definibili come fobie.
Secondo aspetto non meno importante è la scelta di bambini come candidati da analizzare. 
Una scelta, che nel pieno rispetto di un approccio etico e non invasivo, è giustificato dalla necessità di analizzare soggetti con esperienze (e conoscenze) pregresse omogenee e in una fase dello sviluppo comparabile.
Lo studio ha coinvolto bambini di età fra i 7 ed i 9 anni mentre erano intenti a risolvere e a controllare esercizi di matematica come sottrazioni ed addizioni. La loro attività cerebrale, monitorata mediante risonanza magnetica per immagini (MRI), ha mostrato una iperattività della amigdala, una regione coinvolta nel processamento delle emozioni negative come la paura, e in opposto una ridotta attività della corteccia prefrontale, la zona in cui risiedono le capacità legate al ragionamento matematico.
Cosa ancora più interessante, questo legame inverso fra l'attività nella amigdala e nella corteccia prefrontrale risultava particolarmente elevato nei bambini con ansia da matematica più marcata.
Queste osservazioni confermano che l'ansietà (e quindi l'avversione) indotta in alcune persone dai problemi di natura matematica, indipendentemente dal livello di difficoltà, è una tipologia specifica di ansia situazionale legata a stimoli esogeni.


Il secondo studio pubblicato da un team dell'università di Chicago mostra come in alcuni individui il timore di una prova di matematica sia paragonabile ad un dolore fisico.
Lo studio, anche in questo caso basato sulla fMRI, ha infatti scoperto che le aree del cervello che si attivano nei soggetti ansiosi prima di un test di matematica sono le stesse di quelle attivate quando si teme un dolore fisico.
Come dice Sian Beilock, professoressa di psicologia e autrice dello studio, "per i soggetti che soffrono di tale ansia, la sola idea di fare un esame di matematica induce nel cervello una reazione simile a quella associata, ad esempio, al dolore di mettere una mano su una stufa"
Attenzione! E' il timore della prova e non la prova in sè a ingenerare questa sensazione. Durante la prova infatti l'attività cerebrale è nella norma.
Diamo uno sguardo alle condizioni sperimentali usate.
A differenza del precedente studio si sono utilizzati 14 volontari adulti che dichiaravano un comprovato stato di ansia sperimentato nel loro passato scolastico ad ogni prova di matematica. I soggetti scelti NON erano "ansiosi" in generale ma solo se messi di fronte a test matematici. Precisazione questa importante in quanto elimina la possibilità che i risultati sperimentali venissero viziati da problemi di altra natura.
Insula posteriore (by Sian Beilock)
Durante le sessioni di analisi mediante fMRI si dava ai volontari prima l'informazione sul tipo di test a cui sarebbero stati sottoposti e poi il test stesso. I test forniti erano di diversa natura: matematici; logici; linguistici. Il tutto per correlare l'attività cerebrale con specifiche funzioni di elaborazione. Da queste analisi è emerso che nei soggetti ansiosi (e non nei controlli "tranquilli") e solo e soltanto prima dei test matematici (e non durante), si attivava l'area nota come insula posteriore, una parte del lobo dell'insula, una zona del cervello coinvolta nei processi emotivi. Al contrario durante il test o all'annuncio di un test linguistico ad esempio, tale zona non mostrava attività rilevante.
Un dato che mostra e spiega la tendenza di queste persone a rifuggire da ogni "incontro" con situazioni in cui la matematica sia coinvolta.


Partendo da queste scoperte i ricercatori potranno lavorare per sviluppare trattamenti terapeutici per i casi fobici più seri. Un lavoro che si avvarrà anche dei successi ottenuti nella terapia di altre fobie.



Articoli di riferimento

- The Neurodevelopmental Basis of Math Anxiety
Christina B. Young et al., Psychological Science (2012) vol. 23 no.5 492-501

- When Math Hurts: Math Anxiety Predicts Pain Network Activation in Anticipation of Doing Math
 Ian M. Lyon et al, PLoS One (2012) vol. 7 no. 10


Identificato un "giovane" buco nero?

Del resto non sono forse 1000 anni su scala cosmica pari a molto meno di un battito di ciglia della nostra vita? Perchè 1000 anni è proprio l'età stimata del buco nero W48B che si trova, fortunatamente, a 26 mila anni luce dalla Terra.
Riportando il tutto su scala umana, si sarebbe potuto osservare (in differita) la nascita del buco nero quando l'Europa stava uscendo dalle paure millenariste dell'anno 1000. In differita perchè data la distanza che ci separa da esso l'evento era in realtà avvenuto 26 mila anni prima, vale a dire l'epoca a cui risalgono i resti dell'Uomo di Cro-Magnon.
I resti dell'esplosione della supernovaW48B (®Nasa)
L'immagine a sinistra è il risultato composito di rilevazioni di onde radio, a raggi x e infrarosse captate da diversi radio-telescopi: il National Science Foundation’s Very Large Array (componente rosa dell'immagine); l'osservatorio Caltech a Palomar (componente gialla) e l'osservatorio Chandra a raggi X della NASA (componenti blu e verde).

L'immagine è ritenutata particolarmente interessante dai ricercatori del MIT a causa di alcune peculiarità connesse a questa esplosione stellare. A differenza delle classiche supernovae che esplodono in modo "uniforme" (distribuendo quindi i metalli stellari in modo simmetrico) e lasciano dietro una stella a neutroni, W48B mostra una distribuzione asimmetrica e nessuna evidenza di una stella a neutroni. Il ferro è infatti presente (evidenziabile attraverso analisi spettroscopiche) solo in metà delle aree delimitate dai residui della supernova. Altri elementi come i solfuri e il silicio risultano invece distribuiti in modo uniforme.
L'insieme di questi dati ha portato gli astrofisici a ipotizzare che tra i resti stellari si nasconda un buco nero di recente formazione. Se confermata da ulteriori analisi il buco nero W48B sarebbe uno dei piu' giovani della Via Lattea.


Video riferito alla notizia



Per informazioni
Nasa - Programma Chandra
Post precedente sul blog riguardo il programma Chandra, qui

Il pinguino imperatore resiste al freddo perchè ... è una testa calda

I pinguini imperatore (Aptenodytes forsteri) sono in grado di sopravvivere al rigido clima antartico, che arriva tranquillamente a temperature di -50°C, grazie ad una serie di caratteristiche anatomiche, fisiologiche e comportamentali che riducono al minimo la dissipazione del calore. La teoria corrente prevede che la perdita del calore avvenga prevalentemente attraverso modalita' convettive (tipiche dei liquidi) e radianti (a contatto con l'aria fredda).
Data la teoria era necessaria una analisi sperimentale sul campo. L'articolo appena pubblicato da un team franco-scozzese su Biology Letters riporta i risultati di uno studio iniziato nel 2008 presso la colonia riproduttiva di Pointe Géologie a Terre Adélie in Antartide (coordinate 66 ° 40 'S 140 ° 01'E).


La fisiologia ci insegna che i meccanismi volti a preservare il calore corporeo agiscono in base a precise priorità: il tronco del corpo è più importante delle estremità. Sappiamo per esperienza diretta che con il freddo si ha una vasocostrizione periferica che riduce il flusso ematico alle estremità (arti, orecchie, naso). Una riduzione che se prolungata porta al congelamento della parte esposta. La zona viscerale al contrario viene preservata fino all'ultimo.
I pinguini sono degli uccelli che vivono in condizioni particolari e che si muovono in continuazione tra due ambienti, acquatico ed atmosferico, con proprietà termo-conduttive diverse.
 I ricercatori, grazie all'utilizzo di telecamere ad infrarossi (foto a lato), hanno scoperto che i pinguini si difendono dal freddo in modo diverso rispetto alle attese. Il calore che emana dal corpo si diffonde infatti attraverso il mantello in modo non uniforme: mentre il piumaggio delle zone centrali è sostanzialmente alla stessa temperatura esterna, le porzioni periferiche (testa, spalle e zampe) sono calde.
L'immagine agli infrarossi mostra la temperatura superficiale dei pinguini (®royalsocietypublishing, ®bbc.co.uk)

L'unica area esposta del corpo sopra lo zero è la testa del pinguino. Un fenomeno spiegabile con l'effetto isolante del piumaggio che impedisce ogni tipo di dissipazione se non quella convettiva verso l'alto (verso la testa) da cui poi si disperde.
Il paradosso è che la superficie piumata del tronco, essendo assolutamente fredda, è perfino in grado di catturare il calore esterno dalla gelida aria circostante. Un calore che tuttavia non viene trasferito alla cute (e quindi al corpo) a causa della bassa conduttività termica del piumaggio.

Articolo precedente sul tema pinguini --> QUI.


Fonte
- Emperor penguin body surfaces cool below air temperature
D. J. McCafferty et al. , Biol. Lett. 23 June 2013 vol. 9


Un farmaco anticancro utile per l'alzheimer?

Un farmaco anticancro utile per l'alzheimer?

L'identificazione di effetti inattesi associati all'uso di farmaci non è un evento raro. Vale sia per i farmaci sperimentali (per definizione farmaci "in studio") che a maggior ragione per i farmaci approvati e quindi resi disponibili ad un bacino di utenti di gran lunga più ampio (ed eterogeneo) rispetto alle condizioni controllate della sperimentazione clinica.
Sebbene gli effetti collaterali inattesi e deleteri siano chiaramente gli eventi più comunemente identificati (più facile che un sintomo inatteso sia fastidioso che benefico), non mancano casi dove l'effetto osservato è interessante e tale da aprire nuove e inattese prospettive terapeutiche.
Di questo secondo aspetto ho trattato recentemente nella notizia di un antidepressivo di uso corrente che mostra interessanti proprietà cardio-protettive (vedi qui). Un altro caso riguarda il ben noto sildenafil, principio attivo del Viagra, le cui proprietà furono identificate in quanto effetti del tutto indesiderati di un farmaco sperimentale progettato per problemi cardiaci.

All'interno di questa tematica (il monitoraggio degli effetti farmacologici non previsti) ricade la notizia recentemente pubblicata degli effetti neuroprotettivi di un farmaco ora in commercio per tutt'altro scopo.
Il bexarotene, un antineoplastico orale usato per linfomi e tumori del polmone e della mammella, ha mostrato proprietà antidegenerative in modelli murini per l'Alzheimer, topi che sviluppano i sintomi della malattia umana a 6 mesi di età (un'età corrispondente alla nostra prima fase adulta).
(®Science.com)
 I dati che emergono dallo studio sono molto interessanti. Mentre il topo "demente" non ricorda di dovere svolgere attività basilari come l'approntare il nido, il topo trattato con il farmaco per soli tre giorni recupera il comportamento normale (vedi immagine a lato). Capacità apparentemente perse come quella legata alla memoria "di localizzazione" degli oggetti, tornano a livelli antecedenti la malattia.
L'analisi dell'attività cerebrale indica chiaramente un recupero di facoltà date per perse in modo irrimediabile.
Si tratta, è bene chiarire, di osservazioni preliminari ma sufficienti per fare drizzare le antenne delle aziende farmaceutiche.
Un trattamento quello del bexarotene ancora ben lungi dall'essere, ad oggi, ipotizzabile al di fuori della terapia antineoplastica. Per due motivi. Prima di tutto mancano i dati su umani malati di Alzheimer. Secondo, come tutti i farmaci antineoplastici presenta un rapporto rischio/beneficio favorevole SOLO per determinati malati oncologici, la cui aspettativa di vita sarebbe minima in assenza del trattamento.
Il dato importante che emerge da questo studio è "prospettico". Una volta confermati i dati si procederà a sviluppare dei derivati del principio attivo con specifica azione nel ripristino della funzionalità neurologica e minima attività antiproliferativa.

Un caso paradigmatico di come effetti farmacologici inattesi possano aprire prospettive prima non ipotizzabili

(articolo successivo su terapie contro l'Alzheimer, qui).

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Articoli di riferimento

Old Drug, New Hope for Alzheimer's Disease
Science 23 March 2012: Vol. 335 no. 6075 pp. 1447-1448

ApoE-Directed Therapeutics Rapidly Clear β-Amyloid and Reverse Deficits in AD Mouse Models
PE Cramer et al, Science 23 March 2012: Vol. 335 no. 6075 pp. 1503-1506

Articolo successivo sul fenomeno "vecchi farmaci per nuovi scopi"
Vita di un farmaco. Da anti-ipertensivo a farmaco contro l'Alzheimer?

Vedi anche su questo blog
Tè verde e Alzheimer
Vitamine e malattie neurodegenerative


Gli adolescenti amano il rischio? Non proprio

Gli adolescenti sono spericolati in quanto amano il rischio? Uno studio della School of Medicine di Yale afferma di no.

Lo studio parte dalla constatazione che negli adolescenti la frequenza di malattie sessualmente trasmesse e di comportamenti non legali è di gran lunga maggiore rispetto a qualunque altro gruppo nella popolazione. Rispetto a giovani pre-adolescenti la frequenza di incidenti mortali o gravi (non associati all'utilizzo diretto di veicoli a motore) è il doppio, anche dopo avere normalizzato i dati tenendo conto delle diverse probabilità di attuare comportamenti pericolosi nelle diverse fasce di età. 
Il team coordinato da Ifat Levy, professore di neurobiologia e autore dello studio pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academies of Sciences), ha cercato di comprenderne le ragioni attraverso una serie di test condotti su 65 volontari di età fra 12 e 50 anni. A queste persone è stato fornito un questionario in cui le domande vertevano su un certo numero di situazioni ipotetiche. Dalle risposte fornite si è potuto estrapolare un profilo riguardo la loro percezione del rischio.
I risultati hanno mostrato che se il rischio veniva descritto accuratamente gli adolescenti erano ugualmente cauti, se non di più, rispetto agli adulti. Al contrario nelle situazioni "ambigue" dove le probabilità di vincere o perdere erano simili, il loro comportamento era più aperto al rischio rispetto agli adulti.
Secondo Levy questo ha senso da un punto di vista evolutivo: "gli animali più giovani devono essere aperti all'ignoto visto che devono reperire informazioni. Questo vuol dire che informare, in modo diretto, sui rischi/benefici di certi comportamenti è utile".
Una pietra tombale sul detto comune "gli/le entra da un orecchio ed esce dall'altro". Questo avviene se la comunicazione è sbagliata, tarata ad esempio su un ricevente adulto. Gli adolescenti e i giovani necessitano di messaggi chiari, circostanziati e non lontani nel tempo.
Uno studio di qualche anno fa aveva già mostrato che, da un punto di vista prettamente neurologico, i giovani (fino alla fine dell'adolescenza) sono carenti del concetto di causa-effetto a lungo termine. Punire un comportamento odierno con una punizione futura (ad esempio "questo inverno niente sci") è del tutto privo di effetto se avviene in settembre o prima: la proiezione temporale nei giovani è limitata a adesso e all'immediato futuro ("niente playstation per una settimana da ora" è molto più sentito di "niente playstation per tutte le vacanze estive"). Un dato ben noto ai genitori ma che troppo spesso viene liquidato come "non gli/le interessa nulla essere punita".
Un concetto invece ben compreso dai neuroscienziati.

Riassumunendo allora il lavoro di Levy, l'autore sostiene che gli adolescenti non sono carenti della capacità di valutare le proprie azioni e non amano il rischio in se. Semplicemente valutano diversamente il rapporto rischio/beneficio.

Fonte
Adolescents’ risk-taking behavior is driven by tolerance to ambiguity
Agnieszka Tymula et al, PNAS,  42 (109), 17135–17140 (2013)

Suoni fastidiosi? E' l'amigdala a dircelo

Perchè alcuni rumori sono universalmente più fastidiosi di altri?

Pensiamo ad un coltello che incide il vetro oppure al gessetto sulla lavagna oppure … . In effetti sono molti i suoni universalmente percepiti come molesti senza una giustificazione apparente, pur non essendo cioè il fastidio legato a caratteristiche ovvie come il l'intensità sonora (misurata in decibel, la pressione dell'aria sull'orecchio interno).
Uno studio dello University College di Londra (UCL), pubblicato su Journal of Neuroscience, ha indagato il fenomeno scoprendo un legame fra il suono e l'attività indotta nelle regioni del cervello coinvolte nella percezione del suono, e questo è ovvio, e nelle emotività.
Gli autori hanno sfruttato le tecniche di risonanza magnetica funzionale, fMRI, per indagare il legame fra suono "sgradevole" e attività cerebrale. Entrando un poco più in dettaglio, 13 volontari sono stati esposti ad una serie di suoni monitorando nel contempo la risposta cerebrale. Alcuni suoni erano piacevoli (il gorgoglio dell'acqua), altri decisamente fastidiosi (vetro graffiato). Dallo studio è emerso che i suoni generalmente percepiti come "fastidiosi" hanno una frequenza di 2-5 kHz, un intervallo al quale il nostro orecchio è particolarmente sensibile. L'orecchio umano è in grado di sentire suoni fra 20 Hz e 20 kHz. 
la corteccia uditiva
A certe frequenze sembra attivarsi una connessione fra la corteccia uditiva e l'amigdala, la regione del cervello coinvolta nelle emozioni negative. Un suono fastidioso è tale in quanto l'amigdala reagisce allo stimolo uditivo aumentando l'attività della corteccia uditiva e favorendo così l'insorgere della sensazione di fastidio.
Il dato è in se più di una semplice curiosità in quanto permetterà ora di comprendere meglio le patologie notoriamente associate ad una aumentata sensibilità ai rumori (anche a quei suoni non percepiti come fastidiosi dalla persone sane). Esempi ben noti di queste malattie comprendono l'autismo, l'emicrania, l'acufene e molti altri.
Comprendere meglio le basi neurologiche del "fastidio" acustico è il primo passo per migliorare la qualità della vita di queste persone.


Articolo di riferimento
Features versus Feelings: Dissociable Representations of the Acoustic Features and Valence of Aversive Sounds
J Neurosci. 2012 Oct 10;32(41):14184-92

Prelievo di sangue e diagnosi precoce del tumore al seno?

Un prelievo di sangue per diagnosticare il tumore del seno?
Non domani ma in un prossimo futuro. Questo l'obiettivo della ricerca finanziata dal Cancer Research inglese. Un obiettivo ambizioso ma dalle ricadute enormi dato che limiterebbe l'uso delle tecniche radiografiche (e il rischio aggiuntivo, minimo ma presente, che queste implicano) alle situazioni dubbie da approfondire.

Uno studio pioneristico a riguardo sta per iniziare al Charing Cross Hospital di Londra. I ricercatori preleveranno campioni di sangue dalle donne partecipanti al programma di screening (diverse migliaia) che continuerà per molti anni a venire; i campioni serviranno per costruire le "impronte digitali" della predisposizione al tumore confrontando il sangue (quindi marcatori proteici e DNA) di donne che negli anni svilupperano il tumore con quello di persone rimaste sane.
Charles Coombed dell'Imperial College di Londra e Jacqui Shaw della Università di Leicester, entrambi direttamente coinvolti nel progetto, sono entusiasti per le prospettive che questo tipo di approccio offrirà in un prossimo futuro. Uno screening a tappeto, indolore e precoce, come vero strumento per vincere la malattia sul suo stesso terreno: affrontandola prima ancora che si manifesti.
Non ci resta che attendere.

Articolo di riferimento

Raffreddore e vitamina C. Serve veramente?

Un breve commento sull'articolo che compare nella versione online del Corriere, in cui vengono riportati i risultati di uno studio sulla azione anti-raffreddore della vitamina C.

L'articolo apparso sul CDS
Un articolo tutto sommato inutile per tre motivi principali. Prima di tutto la presenza di due affermazioni che si contraddicono (fa bene, non serve). Secondo perchè i dati indicano chiaramente che la protezione è assolutamente trascurabile. Terzo e non meno trascurabile perchè i dati erano noti da ... quasi 40 anni.

Perchè  ne parlo allora? Perchè riassume in se una certa difficoltà comunicativa dei media generalisti in ambito scientifico. Trattano la scienza come la politica inserendo parti antitetiche nello stesso capoverso e si dementicano di quanto scritto ieri.
Come dicevo l'articolo riassume i dati di una metanalisi (analisi epidemiologica che raggruppa studi statistici precedenti per ottenere informazioni piu' affidabili) che si pone l'obiettivo di valutare se l'incidenza del raffreddore in soggetti sottoposti a stress fisico medio-alto (dal maratoneta al giovane impegnato in attivita' sportive) variasse in relazione alla assunzione di vitamina C (acido ascorbico). Più in dettaglio si è valutato l'effetto della assunzione continuativa della vitamina, non assunta quindi alla comparsa dei primi sintomi del raffreddore.
I dati indicano che la riduzione dell'incidenza è tutto sommato limitata (in media l' 8% in meno, con picchi del 18% nei bambini) anche considerando la quantita' di vitamina C giornaliera da assumere per osservare questo effetto: 1 grammo! 
1 grammo di vitamina C è presente in quasi 3kg di arance Navel o Valencia o in meno di 2 kg di arance rosse (solo polpa). Una quantità non certo alla portata di tutti gli stomaci (e portafogli).
Certo esistono gli integratori ma … a meno che uno non abbia un raffreddore al giorno, i vantaggi protettivi ridotti pesati per i potenziali problemi legati alla ipervitaminosi da vitamina C (disturbi gastrointestinali, calcoli), evidenzia come questa terapia preventiva abbia senso (forse) solo per chi fa della attività agonistica una professione.

Aggiungo in chiosa i risultati, per me gia' sufficientemente chiari, condotti nei primi anni '70 su un campione abbastanza affidabile, i dipendenti del NIH (National Institute of Health) americano.
Questi operatori sanitari avevano accettato di assumere 1 grammo di acido ascorbico o placebo (studio in cieco) 3 volte al giorno per nove mesi. Ai primi sintomi del raffreddore ai volontari veniva data una dose addizionale (placebo o vitamina) di 3g/giorno. Su 300 volontari reclutati, 190 completarono lo studio (gli altri avevano interrotto l'assunzione per un numero di giorni complessivo superiore al mese). Di questi la maggior parte proveniva dal gruppo di controllo (trattato con il placebo), un indice forse del fatto che l'assunzione di vitamina non è sempre ben tollerata. I risultati mostrarono una capacita' "protettiva" al piu' definibile come limitata.
Niente di nuovo quindi che uno studente di farmacia o medicina non abbia studiato nei corsi base.

Tra gli aspetti positivi recentemente scoperti sulla vitamina C è che se somministrata durante la chemioterapia, aumenta l'efficacia del trattamento (vedi Vitamin C injections ease ovarian-cancer treatments, Nature 2014)


Articoli di riferimento

Ascorbic acid for the common cold. A prophylactic and therapeutic trial.
Karlowski TR, Chalmers TC, Frenkel LD, Kapikian AZ, Lewis TL, Lynch JM.
JAMA. 1975 Mar 10;231(10):1038-42

Updated Cochrane review on vitamin C and common cold
Cochrane Summaries, 2013




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