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Vitamina D e salute. Un panoramica delle ultime notizie pubblicate

(Gennaio 2020. Conclusioni aggiornate nell'articolo "Reale utilità vitamina D in clinica" --> QUI)

***

Negli ultimi mesi sono state pubblicate diverse notizie interessanti da un punto di vista medico sulla vitamina D
Nota. Il termine vitamina D identifica in realtà una famiglia costituita da 5 diverse molecole liposolubili, importanti, fra le altre cose, per l'assorbimento intestinale di calcio e fosfato. Sono pro-ormoni in quanto necessitano di essere modificati dall'organismo per diventare funzionali. Tra i membri della famiglia, la vitamina D3 (colecalciferolo) e la vitamina D2 (ergocalciferolo) sono tra i più importanti. Dato che il corpo è in grado di produrre vitamina D (il colecalciferono ad esempio viene prodotto da un precursore del colesterolo nella pelle grazie all'azione radiante del sole) il termine vitamina non è un termine del tutto corretto; il nome vitamina nasce infatti per indicare elementi della dieta considerati essenziali in quanto non sintetizzabili dalle cellule. 
La freccia rossa indica il punto su cui agisce la radiazione UV della luce solare nell'iniziare il processo che porta alla formazione della vitamina D3 (image credit:uwaterloo.ca)

Fatta questa premessa, passo a riassumere le novità pubblicate suddividendole per aree tematiche.


Diabete
Uno studio condotto dalla University of California San Diego e pubblicato sulla rivista Diabetology, mostra una correlazione negativa tra i livelli nel siero di vitamina D3 e l'incidenza di diabete di tipo 1. Lo studio, in cui sono stati coinvolti circa 2000 persone, sembra indicare un ruolo protettivo della vitamina. In particolare valori intorno a 50 mg/ml sono in grado di ridurre del 50% il rischio malattia.
Non è un dato del tutto nuovo. Studi precedenti avevano già ipotizzato un legame fra carenze vitaminiche e diabete. Mancavano però le evidenze epidemiologiche supportate da una adeguata statistica.
Gli autori si sono affrettati a sottolineare che, prima di correre ad acquistare integratori, è necessario valutare se il soggetto sia sia effettivamente carente di vitamina. Vale la pena ricordare che l'assunzione smodata di vitamine presenta un doppio rischio: prima di tutto dosi eccessive sono dannose (ipervitaminosi); secondariamente gli integratori contengono una miscela dei vari tipi di vitamina D, ciascuno dei quali è in competizione metabolica reciproca. Assumere un mix incoerente di vitamina D potrebbe paradossalmente impoverire ulteriormente i livelli di quella vitamina di cui si è realmente carenti.
(Fonte: UCSD, news)

Gravidanza
La vitamina D in gravidanza potrebbe proteggere la madre dai rischi di sclerosi multipla (SM). Nessun effetto protettivo è stato invece riscontrato nel bambino. Questo è quanto emerge da uno studio pluriennale condotto da un team svedese e pubblicato su Neurology.
Nello studio sono stati analizzati quasi 300 mila campioni di sangue prelevati nel corso degli ultimi 30 anni da 164 mila persone. Lo studio ha cercato, retrospettivamente, di identificare eventuali bio-marcatori utilizzabili per predire il rischio malattia con sufficiente anticipo. Delle persone monitorate
  • 192 si sono ammalate nel corso degli anni (in media dopo nove anni) di SM. 
  • 37 campioni appartenevano invece a madri i cui figli hanno poi sviluppato la SM. 
In breve si è osservato che le donne i cui livelli di vitamina D nel sangue erano superiori ad una certo valore, avevano un rischio del 61% inferiore di sviluppare la malattia. Solo 7 delle 192 persone malate avevano tali livelli; al contrario nei soggetti rimasti sani la frequenza era di 30 su 384. Una differenza statisticamente significativa.
Come anticipato sopra, i livelli di vitamina D materni sono invece irrilevanti per il rischio malattia del figlio. L'effetto protettivo della vitamina verosimilmente si esplica nelle fasi finali e/o successive della gravidanza.
(Fonte Umeå University, news)
p.s. attenzione però agli effetti ignoti delle vitamine sul cervello in fase di sviluppo (vedi qui).

Cancro
Ricercatori della McGill University hanno studiato le basi molecolari dell'azione antineoplastica della vitamina D. Il meccanismo ha come perno lo spegnimento funzionale della proteina cMYC una proteina fondamentale nei processi di proliferazione cellulare e il cui coinvolgimento nell'oncogenesi è ben noto. Il lavoro è stato pubblicato sulla prestigiosa Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).
La vitamina D viene immagazzinata nel corpo sia attraverso la dieta che grazie alla sintesi mediata dalla esposizione della pelle alla luce solare. La luce solare favorisce la conversione del precursore inattivo nel prodotto finale attivo. Una conversione molto utile nelle persone con la pelle chiara e al contrario trascurabile nei neri a causa della schermatura fornita dalla melanina; questo è il motivo per cui gli afro-americani in passato, in particolare quelli la cui alimentazione non permetteva di assimilare sufficienti quantità di vitamina D, erano di gran lunga più soggetti a problemi scheletrici come il rachitismo, rispetto alla controparte ugualmente povera degli americani di pelle chiara.
Livelli insufficienti di vitamina D sono inoltre correlati con una aumentata incidenza di alcuni tipi di cancro, principalmente gastro-intestinali e leucemia.
Nello studio citato si è dimostrato che la vitamina D non solo controlla la produzione e la degradazione della proteina cMYC, ma  anche la produzione dell'antagonista naturale di cMYC, MXD1. Uno degli esperimenti più interessanti riportati nell'articolo mostra che l'applicazione diretta sulla pelle dei topi della vitamina fa crollare i livelli di cMYC cellulare.
A corollario di questa osservazione, topi mutanti (mancanti del recettore vitaminico) hanno alti livelli di cMYC in molti tessuti, tra i quali quelli intestinali.
(Fonte McGill University, news)
A posteriori aggiungo una nota relativa ad uno studio epidemiologico volto a misurare eventuali effetti antitumorali della vitamina D. I dati non hanno evidenziato alcuna capacità rilevante della vitamina di prevenire l'insorgenza di tumori. Un dato positivo c'è: la somministrazione di vitamina D si è mostrata in grado di diminuire il tasso di mortalità tra soggetti malati. (Fonte N. Keum British Journal of Cancer (2014) 111, 976–980)

L'insieme di questi dati rinforza l'importanza di una corretta assunzione di vitamina D nella dieta di ogni individuo.
***
01/2020 
Un aggiornamento sul tema è presente sul sito dedicato alla Farmacovigilanza --> Gli ultimi studi sulla vitamina D e nell'articolo su questo blog --> Utile? Ma anche no.

Per altri articoli sul tema "vitamine" cliccate qui.

Sclerosi multipla. Il contributo dei pazienti e i nuovi approcci terapeutici

Donare il proprio corpo alla ricerca, dopo il decesso ovviamente, è una pratica abbastanza comune nei paesi anglosassoni. Un atteggiamento che ha avuto il duplice merito di fornire agli studenti di medicina uno strumento di conoscenza diretto (a differenza di quanto avvenieniva nelle università italiane dove un solo corpo era osservato da una intera aula di studenti) e di permettere di studiare estensivamente le malattie grazie alla comparazione di molteplici pazienti.
Ed è proprio grazie allo studio dei cervelli donati da pazienti affetti da sclerosi multipla (SM) che i ricercatori inglesi stanno mettendo a punto nuove strategie terapeutiche.

Nel Regno Unito si stima che i malati di sclerosi multipla siano 100 mila (in Italia 61 mila, dato 2012). Un numero importante dati gli effetti invalidanti della malattia, la sua progressione inesorabile e l'assenza di farmaci in grado di bloccarne il decorso. Gli unici farmaci disponibili sono specifici per la fase iniziale della malattia, permettono di ridurre la frequenza degli episodi acuti. Nessun effetto apprezzabile è invece osservabile sul decorso di lungo periodo.

La sclerosi multipla non compare in modo eclatante ed univoco; si può manifestare con un semplice formicolio ai piedi, associato a volte a dolore locale. La maggior parte dei malati mostrano i primi sintomi ad una età compresa tra i 18 ei 40 anni. Con il progredire della malattia la deambulazione e l'equilibrio diventano problematici, fino a che la sedia a rotelle diviene l'unico mezzo per spostarsi (per una descrizione dettagliata consiglio il sito sclerosi.org).
schema illustrativo dei danni nervosi (®hsw)
I sintomi sono il risultato di una battaglia innescata dal proprio sistema immunitario contro se stessi, cioè contro il rivestimento mielinico delle proprie cellule nervose. A mano a mano che la guerra procede lo strato di mielina diventa sempre più discontinuo, rendendo sempre meno efficiente il trasporto del segnale elettrico da parte dei neuroni.
Per quale motivo il sistema immunitario non riconosca più la mielina come parte del self, non è chiaro. Come ipotizzato per il diabete di tipo I, alla base di tutto potrebbe esserci un connubio fra predisposizione genetica e un infezione virale a cui il corpo (per mezzo del sistema immunitario) risponde in modo eccessivo e/o poco attento. Nessuno dei due fattori per se è sufficiente a provocare la malattia, ma è in grado di aumentare la probabilità che essa si sviluppi.

Molti dei farmaci finora testati, progettati per spegnere il sistema immunitario, si sono mostrati solo parzialmente utili e solo in una finestra limitata della malattia, quella iniziale chiamata sclerosi multipla recidivante-remittente. Quando però la malattia progredisce entrando nella fase secondaria progressiva i farmaci diventano inefficaci (data anche l'entità dei danni oramai accumulatisi).

Qualcosa si muove però. E' iniziata da poco una sperimentazione, gestita dal Imperial College e dal Charing Cross Hospital di Londra, volta a valutare l'efficacia e la sicurezza sul lungo periodo del farmaco Tysabri (natalizumab).
Lo studio clinico, progettato in doppio cieco, usa come controllo negativo un placebo. E' fondamentale infatti (e le regole della sperimentazione lo impongono) che i controlli siano presenti sia per valutare la sicurezza del farmaco (ricordo che si tratta di un farmaco anticorpale) che per valutare la reale efficacia del farmaco. Il controllo standard, quindi il riferimento, è il miglior trattamento disponibile. Nei casi come la SM purtroppo tale trattamento di riferimento non esiste. Non avendo la malattia una progressione acuta, la scelta migliore è quella di usare controlli trattati con placebo.
Va detto che, qualora durante la sperimentazione le analisi mostrino un consistente effetto positivo del trattamento, il doppio cieco viene interrotto e si procede a somministrare anche ai pazienti nel ramo di controllo il farmaco. Una eventualità ovviamente non molto comune. Più facile (da un punto di vista probabilistico) che avvenga il contrario e che si riscontrino effetti collaterali tali da sospendere la sperimentazione. Da qui la fondamentale importanza di usare controlli adeguati.

Tornando al farmaco in sperimentazione, Tysabri ha già ricevuto l'approvazione per il trattamento della fase precoce della SM. Mancano invece i dati di efficacia sia sugli effetti a lungo periodo (oltre due anni) che sull'efficacia nelle fasi avanzate della malattia. Tysabri è un anticorpo umanizzato diretto contro l'α4-integrina presente sulle cellule immunitarie. Il suo utilizzo è limitato dato il potenziale effetto collaterale di aumentare le infezioni cerebrali causate da virus opportunistici quali il JC virus, in seguito alla diminuita funzionalità del sistema immunitario indotta dal farmaco. I pazienti che ricevono il trattamento NON devono essere sieropositivi per tale virus.

"Nelle prime fasi della SM si può osservare un consistente afflusso di cellule del sistema immunitario nei tessuti cerebrali," afferma il professor Richard Reynolds. Le cellule immunitarie normalmente pattugliano il sistema circolatorio, uscendo dai vasi solo in presenza di agenti esogeni o di anomalie. Nella SM invece queste cellule migrano massicciamente, senza apparente ragione, nel cervello dove causano l'infiammazione. Per fuoriuscire dai vasi le cellule devono prima aderire alla parete del vaso sanguigno. E' in queste prime fasi che Tysabri agisce  bloccando l'attracco delle cellule immunitarie.

L'analisi del tessuto cerebrale post-mortem donato dai pazienti ha mostrato che nelle fasi avanzate della SM, l'infiammazione non era più causata da cellule del sistema immunitario in uscita dai vasi, ma da cellule del sistema immunitario rimaste li intrappolate. "Se si riuscisse a bloccare queste cellule, potremmo arrestare la progressione della malattia," continua Reynolds. "Dobbiamo capire se Tysabri sia in grado di fare questo. Pensiamo di ottenere i dati conclusivi da questa sperimentazione entro i prossimi due anni"

Per capire cosa non funzioni nei meccanismi di controllo del malato bisogna analizzarne i tessuti coinvolti. Per avere a disposizione materiale sufficiente, Reynolds ha iniziato da una decina di anni a immagazzinare in una banca istologica il cervello dei malati deceduti, previo il loro consenso precedente. Reynolds e collaboratori hanno viaggiato in lungo e in largo per l'Inghilterra per incontrare i malati e le loro famiglie, chiedendo loro di considerare la donazione dei loro organi per la scienza.

"Penso di avere incontrato qualcosa come 170 gruppi di pazienti nel corso degli anni," dice. "Andiamo e diciamo loro a che punto è la ricerca, come essa sta contribuendo allo sviluppo di nuovi trattamenti farmacologici e perché abbiamo bisogno del tessuto umano per farlo. L'atteggiamento che abbiamo trovato è sempre stato di ampia collaborazione. Abbiamo scoperto che le persone con SM e le loro famiglie sono consapevoli dell'importanza di questa donazione. Hanno fame di conoscenza e vogliono contribuire a questa conoscenza ".
A differenza di altre malattie, data la complessità dell'organo e le conseguenze di ogni sua alterazione, le patologie neurodegenerative non permettono di ottenere biopsie soddisfacenti dai pazienti. Da qui l'importanza dei donatori. E' vero che ora è possibile studiare il cervello (sia morfologicamente che funzionalmente) mediante le tecniche di imaging. Tuttavia i due approcci non sono alternativi ma complementari.

La raccolta dei tessuti da pazienti con SM segue la strada precedentemente percorsa dal progetto Parkinson-UK
Oggi le due collezioni hanno raccolto più di 1.000 cervelli, una delle banche tissutali più grossa al mondo. Quasi 10 mila persone hanno dato la disponibilità a dare il loro cervello, assicurando così una fornitura costante di circa tre cervelli a settimana. Come viene usato tutto questo materiale? L'utilizzo è molteplice e spazia dall'analisi istologiche delle sezioni tissutali alla crescita in coltura delle cellule espiantate in modo da ottenerne un numero sufficiente per verificare la risposta alle molteplici molecole in fase di sperimentazione. Il tessuto cerebrale è inviato inoltre anche in giro per il mondo a ricercatori impegnati in malattie neurodegenerative.
La collaborazione e soprattutto l'altruismo mostrato dai pazienti nel donare i propri tessuti è un tassello fondamentale nella ricerca.

Le conoscenze così ottenute sono state significative. "Dall'analisi delle sezioni istologiche abbiamo visto che il numero di cellule nervose è fortemente diminuito nei pazienti. Una caratteristica che la SM condivide con l'Alzheimer, il Parkinson, e le malattie dei motoneuroni. Il nostro modo di pensare alla malattia e a come può essere combattuta, è molto cambiato grazie allo studio dei tessuti. La maggior parte dei trattamenti farmacologici ora disponibili, grazie alla ricerca dell'ultimo decennio, sono finalizzati a contrastare l'infiammazione nel cervello. Quello a cui si lavora oggi è invece come proteggere i neuroni dalla degenerazione".

Vale la pena menzionare, in aggiunta allo studio di cui sopra, i progressi ottenuti mediante l'approccio molecolare e genetico. Avere a disposizione molti tessuti ha reso possibile confrontare i livelli di specifiche molecole nel cervello di persone che hanno avuto un decorso diverso della malattia, con il loro profilo genetico. "Capire se i livelli di una data proteina sono associati alla gravità della malattia permette ad esempio di sviluppare terapie per modificare i livelli di quella proteina".
 
Si stima che in questo momento siano giunte alla fase della validazione clinica circa 100 farmaci per la SM. Un decennio fa erano meno di 10.
Un approccio più radicale in studio è quello di eradicare il sistema immunitario (responsabile della malattia) mediante chemioterapia o radiazioni e sostituirlo con nuove cellule derivate dalle staminali emopoietiche del paziente stesso. Uno dei ricercatori che segue questo approccio è il neuroimmunologo italiano, Paolo Muraro, che lavora presso il Campus Hammersmith di Londra.
Ad ora circa 600 pazienti in tutto il mondo si sono sottoposti a questo trattamento "radicale". I risultati per i pazienti nello stadio precoce della SM sono promettenti, ma i dati sono preliminari e mancano ancora delle parti riguardanti la sicurezza e l'efficacia della procedura. Dati che necessitano di tempo per essere ottenuti. E' fondamentale infatti essere sicuri che tale trattamento non provochi sul lungo termine altre malattie.

E qui ci riagganciamo al farmaco Tysabri, un cui effetto non previsto è quello di aumentare il numero di cellule staminali emopoietiche nel sangue. Usando queste cellule per ripopolare il sistema immunitario, le recidive della malattia diminuiscono sensibilmente. Si è ipotizzato che la mobilizzazione delle cellule staminali sia la risposta dell'organismo per cercare di riparare i tessuti danneggiati.
In alternativa alle staminali emopoietiche Muraro pensa di usare le staminali mesenchimali per sostituire i neuroni danneggiati e/o le cellule produttrici di mielina o ancora, secondo i dati più recenti, per produrre fattori in grado di stimolare la riparazione dei danni e ridurre l'infiammazione locale. Test che Muraro inizierà a breve all'interno di uno studio clinico che coinvolgerà circa 150 pazienti inglesi.
Articolo successivo sull'argomento qui.  
Potrebbero anche interessare due articoli precedenti sul tema : "SM e infiammazione"; "La vitamina D protegge dalla SM?"

Fonti

Non tutti rimangono uguali: vale anche per le cellule "gemelle" della pelle

Il comune buon senso scientifico afferma che ciascuna cellula del corpo di uno stesso organismo ha al suo interno un DNA identico a quello delle sue sorelle gemelle. In effetti questa affermazione è quasi del tutto corretta.
Quasi, perché pur tralasciando il caso particolare rappresentato dalle cellule germinali (aploidi e con DNA ricombinato per effetto della meiosi) e dai linfociti, che nel loro processo di maturazione subiscono un riarrangiamento unico dei geni deputati al riconoscimento di "invasori" (un linfocita-un anticorpo, è una sintesi estrema di quello che avviene), bisogna pur ricordare che dal momento in cui lo zigote inizia a dividersi cominceranno ad accumularsi anche le mutazioni.
Tutte uguali geneticamente queste cellule? (®nature.com)
Mutazioni che sono una conseguenza sia dell'azione ambientale (radiazioni naturali, ossidazione, etc) che degli errori occorsi durante la duplicazione del DNA che precede ogni mitosi.
Pur essendo le cellule estremamente brave a identificare tali errori (il tasso di mutazione per divisione cellulare è nelle cellule più efficienti, le staminali ad esempio, intorno a 10-14 per ogni nucleotide), a causa dell'enorme numero di divisioni necessarie per generare le 1014 cellule di un individuo adulto, si comprende facilmente quanto anche un evento raro diventi rilevante. Conviene sottolineare che le 1014 sono le cellule presenti e NON le cellule che si sono formate dal momento della prima mitosi. Un numero estremamente più alto.

Al netto delle mutazioni incompatibili con la vita cellulare possiamo allora ben dire che noi siamo un mix di cellule non del tutto identiche. Un dato da considerare sia quando si effettua uno screening genetico usando come fonte le cellule epidermiche che quando si riprogrammano le cellule somatiche adulte per trasformarle nelle staminali chiamate Induced Pluripotent Stem (iPS).
Il mosaicismo delle cellule epidermiche è stato recentemente studiato da un gruppo della Yale School of Medicine ed i dati sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

iPS ®umassmed.edu
"Abbiamo confermato quanto si sospettava, cioè che gli esseri umani sono costituiti da un mosaico di cellule con genoma diverso", afferma Flora Vaccarino, una degli autori del lavoro. "Circa il 30 per cento delle cellule della pelle ha variazioni nel numero di copie di particolari sequenze (copy number variation - CNV), a causa di perdita o duplicazione di alcuni segmenti [rispetto all'originale]. In precedenza si pensava che tali variazioni fossero tipicamente associate a  malattie come il cancro. Il mosaico che abbiamo trovato nella pelle non è inoltre una esclusiva dell'epidermide ma è presente anche nel sangue e nel cervello, solo per citare due esempi".

Le moderne tecniche di sequenziamento del genoma hanno permesso di accumulare in tempi ristretti e ad un costo accessibile una quantità di informazioni prima solo oggetto di speculazioni. Un vantaggio particolarmente importante visto lo sviluppo di tecniche che permettono di ottenere cellule staminali direttamente dai tessuti dell'adulto. Se questo da un lato permette di evitare le problematiche etiche connesse all'uso di cellule embrionali (ES), dall'altro ha allertato i ricercatori per due buoni motivi: il primo è che ci sono dubbi circa la possibilità di assimilare senza ombra di dubbio una iPS ad una ES e che tale processo di reversione non sia foriero di modificazioni non volute; in secondo luogo se le cellule di partenza non sono geneticamente identiche, bisognerà essere molto attenti a ricavare cellule per uso terapeutico, in quanto per pura casualità (o vantaggio proliferativo intrinseco) le iPS ottenute potrebbero derivare da una cellula "mutata" e che tale mutazione sia pericolosa.
Nello studio pubblicato su Nature gli autori hanno confrontato il DNA delle cellule coltivate in laboratorio e ricavate dall'espianto della cute da una zona interna del braccio. L'eterogeneità identificata non era il prodotto della coltura in vitro ma pre-esisteva in piccole frazioni di cellule della pelle.
"Nella pelle, questo mosaicismo è presente e riguarda almeno il 30 per cento delle cellule della pelle" - chiosa la dr.ssa Vaccarino-"l'osservazione di mosaicismo somatico ha conseguenze di vasta portata per le analisi genetiche fatte routinariamente su campioni di sangue. Un campione che riflette l'eterogeneità vista nelle cellule della pelle".

Questo fatto deve preoccuparci? Non in modo irrazionale. Diciamo che sarà necessario implementare una serie di controlli più raffinati prima di usare (o di certificare come buone) delle cellule siano esse a scopo terapeutico che diagnostico. E' ancora troppo fresco il ricordo (descritto nel 2009 e ampiamente citato nei corsi avanzati di terapia cellulare) del bambino portato dai genitori in Russia per essere sottoposto a terapia anti-neurodegenerativa con cellule staminali fetali. Dopo pochi anni, e due ulteriori trattamenti, il bambino sviluppò un tumore cerebrale causato (prove basate sul DNA) dalle cellule iniettate. Cellule che contenevano verosimilmente una mutazione puntiforme, quindi laboriosa da identificare (anzi all'epoca era pressoché impossibile).
 
Fonti
- Skin cells reveal DNA’s genetic mosaic
Yale, news

- Somatic copy number mosaicism in human skin revealed by induced pluripotent stem cells.
A. Abyzov et al. Nature (2012) 492:438-42

- Donor-Derived Brain Tumor Following Neural Stem Cell Transplantation in an Ataxia Telangiectasia Patient
PLoS Med. 2009 Feb 17;6(2)


Morte in utero. Uno studio inglese cerca di prevederlo

Una stima recente indica che nel Regno Unito una donna ogni 200 tra quelle giunte alla 24ma settimana di gravidanza non darà alla luce un bambino vivo. Una frequenza 10 volte più alta di quella associata alla morte in culla e tre volte più alta della sindrome di Down.
Eppure negli ultimi 10 anni, rispetto alla sindrome della morte in culla (legata alla sindrome del QT lungo) i cui tassi di mortalità sono diminuiti considerevolmente, la mortalità prenatale è rimasta sostanzialmente invariata.

Dato l'impatto emotivo che questo evento comporta e la difficoltà intrinseca di un intervento per salvare il bambino, una delle strade ritenute più promettenti è quella di identificare le donne a rischio, monitorarle e quindi intervenire il prima possibile. Per fare questo Gordon Smith del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell'Università di Cambridge, ha attivato nel 2008 uno studio in cui sono state coinvolte più di 4 mila donne alla loro prima gravidanza. Donne che volontariamente hanno accettato di essere monitorate nel corso della gestazione a partire dalla loro prima ecografia.
Da ricordare che la morte in utero (morte endouterina fetale) in Italia è definita tale  se avviene dopo la 22ma settimana. Un intervallo di tempo che arriva fino ad oltre la 37ma settimana, quando il decesso per complicanze riguarda circa un terzo delle morti in utero.
L'obiettivo minimo che si prefiggeva lo studio era di reclutare entro il 2013 almeno 4500 donne. Obiettivo raggiunto. Le donne, oltre all'ecografia di routine alla 12ma e alla 20ma settimana, sono state sottoposte a prelievi di sangue periodici e a ulteriori ecografie alla 28ma e alla 36ma settimana (in Italia oltre alle prime due è consigliata, in assenza di complicazioni, una terza intorno alla 30ma). Oltre a questo è prevista la raccolta e la conservazione di un campione di placenta al momento del parto. Prelievo giustificato dall'ipotesi attualmente accettata che, in assenza di patologie genetiche nel feto, la causa di morte pre-natale è legata ad anomalie della placenta.
Alla fine dello studio e conclusa l'analisi dei dati, prevista per i prossimi mesi, si spera di potere identificare dei marcatori utilizzabili come segnali di allarme precoci.
Una volta identificate le donne a rischio si potrebbe giocare d'anticipo inducendo il travaglio in anticipo (in sicurezza dopo la 37ma settimana) o monitorando in continuo le ultime fasi della gestazione in modo da captare ogni segno di sofferenza fetale.
Sarà interessante leggere le conclusioni dello studio quando usciranno.

Fonte
- Delivering better ways of preventing stillbirth
University of Cambridge, news




Un Sahara lussureggiante ... 5000 anni fa

Caldo, sabbia, roccia, venti in grado di generare tempeste di sabbia della durata di giorni, apperente assenza di vita.
Queste le immagini a cui siamo soliti associare il nome Sahara. E' indubbiamente vero anche se, chi lo ha visitato sa che il deserto del Sahara è un insieme di luoghi, inospitali certo, ma anche alquanto diversi tra loro. In quanto all'ambiente inospitale è utile ricordare che la situazione era ben diversa non dico in epoche remote ma solo "l'altroieri".
Come appaiono oggi alcune
zone del Sahara

Se infatti è sufficiente fare un salto indietro di 2000 anni, al tempo dell'Impero Romano, per vedere un nord-africa climaticamente ben diverso da quello odierno (noto allora con l'evocativo nome de il granaio di Roma), un doppio salto fino a 5 mila anni fa ci porterebbe in un ambiente verdeggiante, con vegetazione rigogliosa e numerosi laghi.

A testimonianza di quei tempi i resti fossili e soprattutto le antiche pitture rupestri scoperte nella regione. Dipinti che raffigurano sia ippopotami in pozze d'acqua che branchi di elefanti e giraffe. Ben diversa dall'immagine qui a fianco.

Il periodo del Sahara Verde, anche noto come il periodo umido africano, ha coperto un arco temporale compreso tra gli 11 mila e i 5 mila anni, collocandosi nel primo Olocene. Questa età dell'oro del Sahara sembra essere terminata bruscamente nell'arco di soli 1-2 secoli. Il seguito è noto, un apperentemente inarrestabile inaridimento.

La sabbia che si proietta dal deserto all'oceano (®NASA)
I ricercatori del MIT e della Columbia University hanno dimostrato che questo improvviso cambiamento climatico è avvenuto quasi contemporaneamente in tutto il Nord Africa. Il lavoro è stato pubblicato su Earth and Planetary Science Letters.
L'analisi dei sedimenti al largo della costa africana, composti in parte di polvere soffiata dal continente nel corso di migliaia di anni, ha permesso di monitorare le variazioni climatiche dell'entroterra. Dalle analisi emerge che in concomitanza con il periodo umido, la regione sahariana ha emesso cinque volte meno polvere di quanto non avvenga oggi.

Per tracciare le emissioni di polveri in Africa attraverso il tempo, il team di David McGee, in collaborazione con la Columbia University e il Woods Hole Oceanographic Institution, ha analizzato campioni di sedimenti da siti al largo della costa nord-occidentale dell'Africa, su una distanza complessiva di 550 chilometri. Da ogni sito è stata prelevato un cilindro di sedimenti (carotaggio) lungo 4 metri. Una dimensione, secondo McGee, che racchiude circa 30 mila anni di sedimenti depositati, strato dopo strato, nell'oceano. Dato che 1 centimetro di sedimento corrisponde a circa 100 anni,  il grado di risoluzione dell'analisi è estremamente alta.

Grazie alla normalizzazione basata sul torio-230, McGee e colleghi hanno potuto effettuare una datazione accurata. La tecnica si basa sul decadimento dell'uranio nell'acqua di mare: l'uranio decade in torio-230 che essendo insolubile si attacca a qualsiasi sedimento che si inabissa sul fondo marino. Dato che la quantità di uranio (e quindi del torio) è relativamente costante in tutti gli oceani, è possibile determinare il tasso di accumulo dei sedimenti nel tempo.
In pratica nei periodi in cui i sedimenti si accumulavano rapidamente, la concentrazione di torio-230 è bassa. E viceversa. Fatto questo McGee è andato a misurare quanto del sedimento accumulatosi negli ultimi 30 mila anni aveva origine africana. 

Una seconda tecnica usata, nota come grain-size endmember modeling (modellamento granulometrico basato sugli endmember), ha permesso di distinguere sedimenti terrestri da quelli marini. Gli endmembers sono i sedimenti "estremi" che permettono di attribuire l'origine dei sedimenti. Dato un certo mix di endmember, la domanda diventava "in quali condizioni ambientali diviene possibile la presenza di entrambi a queste concentrazioni?".
Alla fine di questo processo laborioso si è così potuto ricostruire la variazione del clima nella regione
Ci sono ancora molte domande a cui rispondere. Su tutte, le cause di tale cambiamento climatico (avvenuto in soli due secoli e senza l'intervento dell'Uomo) e lo sviluppo di modelli matematici in grado di prevedere tali fluttuazioni.
Un articolo del 2012 pubblicato su Nature ipotizza una variazione dell'asse orbitale come causa della fine del "periodo umido". Un dato interessante che dovrebbe renderci ancora più consapevoli di come l'equilibrio ambientale sia delicato. 
Sarebbe ovviamente bene se l'essere umano non contribuisse ad alterare questo equilibrio.
Ma questo è un altro discorso.


Fonti
- MIT, news 2013

- Green Sahara: African Humid Periods Paced by Earth's Orbital Changes
  Nature

-  Abrupt Shifts in Horn of Africa Hydroclimate Since the Last Glacial Maximum
Jessica E. Tierney, Peter B. deMenocal Science 15 November 2013

- The response of excess 230Th and extraterrestrial 3He to sediment redistribution at the Blake Ridge, western North Atlantic.  
Earth and Planetary Science Letters 299, 138-149. (PDF)

Autismo. Un nuovo modello murino apre prospettive terapeutiche

L'autismo è una patologia complessa ed eterogenea che ha nel deficit relazionale l'aspetto comune.
Sebbene le cause siano tuttora fonte di indagine, la malattia è verosimilmente legata ad un mix di cause genetiche predisponenti e di anomalie nello sviluppo del sistema nervoso durante la gestazione. Il caso-autismo sta lentamente uscendo dai recinti specialistici in cui è da sempre confinato, anche per le false credenze associate. Prima fra tutte il considerare il personaggio interpretato da Dustin Hoffman in "Rain Man" come esemplificativo della condizione autistica. Il possedere incredibili doti nel calcolo matematico (o altre capacità estremamente specifiche) è solo una delle possibili forme con cui l'autismo si può presentare.

Non a caso il termine corretto per indicare la malattia è Disturbo dello Spettro Autistico (ASD), una definizione-ombrello che copre una patologia eterogenea la cui eziologia è multipla. Vale la pena sottolineare che l'ASD non è un problema trascurabile dato colpisce circa 1 ogni 110 bambini.
Dicevo prima che l'elemento comune alle diverse forme ASD è la carenza degli aspetti base emozionali, elementi questi essenziali per gli esseri umani che, essendo animali sociali, non possono prescindere dalla comprensione dei segnali emozionali.
Un dato ancora più importante se si considera che la diagnosi di autismo è riferita principalmente ai bambini. Quando i bambini crescono, se non opportunamente seguiti, diventano inevitabilmente individui assolutamente incapaci di alcuna interazione base; persone condannate a vivere ai margini della società e generalmente etichettati come ritardati e/o psicotici. 
Un problema devastante per le famiglie.
Problema acuito negli anni dalle spiegazioni fornite da alcuni eminenti psicologi (di cui è perfino meglio tacere il nome) che attribuivano l'autismo ad una carenza nella cura materna nella primissima infanzia. Una teoria che non solo NON ha una base scientifica (o meglio è pari a quella circa l'esistenza dei venusiani) ma che ha creato ulteriori sensi di colpa in genitori che di tutto hanno bisogno fuorchè di ipotesi strampalate.
Oggi, sia grazie ai progressi delle neuroscienze molecolari e della genetica che all'opera di sensibilizzazione condotta da persone che il problema lo vivono quotidianamente (Gianluca Nicoletti, Fulvio Ervas, etc vedi libri a fondo pagina) il velo oscuro intorno a questa malattia si sta sollevando.
Rimando ad un mio precedente post per altre considerazioni scientifiche sull'argomento (vedi Autismo: una patologia geneticamente eterogenea).

Lo scopo del post odierno è quello di riassumere un interessante studio pubblicato alcuni mesi fa sulla prestigiosa rivista Nature. Il lavoro descrive l'approccio testato per invertire (parzialmente ovviamente) i sintomi dell'autismo; studio effettuato su un topo modificato geneticamente. Altri studi farmacologici erano stati condotti prima di allora ma i risultati, seppure moderatamente positivi in topo, si erano dimostrati inefficaci in uomo. Il modello murino usato non era infatti adeguato per la complessità dello studio. Non adeguato nel senso che non ricalvava le alterazioni molecolari in Uomo.
Il team di ricercatori guidato da Nahum Sonenberg della McGill University di Montreal ha pensato allora di creare un nuovo modello murino partendo da topi geneticamente modificati mancanti del gene Eif4ebp2. Entrando nello specifico questo gene codifica per una proteina, 4E-BP2, la cui funzione è quella di spegnere la traduzione di alcuni RNA messaggeri.
I topi privi di Eif4ebp2 mostrano molti sintomi tipici del soggetto autistico, tra cui la scarsa interazione sociale, una capacità comunicativa alterata e la presenza di comportamenti ripetitivi.
Per quanto scritto sopra, se Eif4ebp2 viene eliminata, aumentano i livelli delle proteine la cui produzione è regolata negativamente da Eif4ebp2. Tra le proteine up-regolate, Sonenberg ne ha identificato alcune note come neuroligins (NLGNs), proteine localizzate nella membrana cellulare dei neuroni ed importanti per la funzionalità delle connessioni sinaptiche. L'aumento delle NLGNs induce una iperstimolazione del segnale interneuronale che secondo molti ricercatori è alla base dei sintomi dell'autismo.

Secondo Jack Price, un neurobiologo dello sviluppo presso il Kings College of Psychiatry di Londra. "questa nuova ricerca contribuisce a chiudere la lacuna meccanicistica grazie al collegamento diretto tra le anomalie nella sintesi proteica e le neuroligin".
Cosa ancora più interessante, Sonenberg mostra anche che gli effetti della carenza di Eif4ebp2 possono essere invertiti! L'approccio tecnicamente più ovvio sarebbe stato quello di usare la terapia genica per inserire una copia funzionante del gene difettivo; un approccio tuttavia pieno di incognite tecniche e che necessita di un rodaggio pluriennale.
Più interessante l'idea da loro sviluppata. Dato che 4E-BP2 è in grado di bloccare la traduzione agendo sul complesso proteico che da il via al processo, i ricercatori si sono domandati se fosse possibile sviluppare una molecola in grado di mimare il blocco, sostituendosi quindi alla proteina mancante.
La molecola è stata prodotta e sperimentalmente si è mostrata in grado, sia a livello locale (sinapsi) che sistemico (scomparsa dei sintomi associati all'autismo), di bloccare specificamente la traduzione dei geni a valle di 4E-BP2.
Non contenti, i ricercatori hanno anche provato un approccio basato basato su tecniche di RNA interference (usando cioè piccoli RNA in grado di bloccare la traduzione degli RNA messaggeri per le NGLN). Anche in questo caso il risultato è stato positivo.

Il dato più importante è che la patologia murina è stata revertita (un anglicismo oramai comune tra i ricercatori ...). Chiosa Christos Gkogkas, uno degli autori del lavoro, "sebbene l'autismo sia una disfunzione a carico delle fasi iniziali dello sviluppo neurologico, siamo stati in grado di correggerne le manifestazioni comportamenti in topi adulti".

Sonenberg mette giustamente in guardia il pubblico da indebite aspettative sulle possibilità di una terapia in tempi brevi. "Il farmaco che abbiamo usato è troppo tossico perchè sia ipotizzabile un suo utilizzo in studi clinici", dice. "Ma abbiamo dimostrato che questa via è praticabile. Identificati i potenziali bersagli terapeutici e dimostrato che la terapia farmacologica è possibile in linea di principio" il resto segue. Come la ricerca farmaceutica insegna.

Il problema vero, come accennavo nell'introduzione, è nella eterogeneità della malattia. Se la malattia avesse una causa ben definita (ad esempio una mutazione nel gene X in una percentuale sufficiente di pazienti) lo sviluppo di terapie adeguate sarebbe più "diretto". Al contrario, la ASD è il punto di arrivo di molte, e spesso ancora ignote, anomalie genetiche. Ciascuna  delle quali riguarda meno del 1% dei casi. Questo implica che una terapia potenzialmente funzionante in un soggetto potrebbe non esserlo negli altri 99. Se tuttavia mutazioni diverse colpissero proteine agenti sulla stessa via metabolica, anche l'eterogeneità genetica non sarebbe più un ostacolo insormontabile. Permetterebbe cioè di identificare delle terapie correttive specifiche per una data via metabolica.

Siamo ancora all'inizio. Ogni scoperta illumina il tunnel conducendoci all'uscita.

(articolo successivo sull'argomento, qui)

Fonti
- Autism-related deficits via dysregulated eIF4E-dependent translational control
 Gkogkas CG et al., Nature 2012



I peperoni futura terapia per il Parkinson?

Forse non tutti sanno che i peperoni appartengono alla stessa famiglia del tabacco (Solenacee) e come tali producono nicotina
credit: Luc_Viatour
Altro dato interessante è che il consumo di nicotina seppur tossico ha un effetto protettivo sul rischio di sviluppare il Parkinson. Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che deriva dalla perdita delle cellule cerebrali che producono dopamina. Nelle fasi iniziali, il Parkinson è caratterizzato da difficoltà nel controllare il movimento (tremori alle mani, rigidità degli arti e problemi di deambulazione). Col progredire della malattia, possono comparire problemi cognitivi e in alcuni casi demenza.
Non che queste parole debbano spingere un fumatore in astinenza a cercare di fumare un peperone o a riprendere il "vizio" per evitare il Parkinson. Sarebbe temo ben poco utile.
Ma torniamo alla notizia comparsa sugli Annals of Neurology, la rivista della American Neurological Association, secondo la quale mangiare peperoni può ridurre il rischio del Parkinson.
Lo studio nasce da quanto anticipato sopra cioè che le persone che hanno fatto uso regolare di tabacco negli anni (al netto degli altri problemi associati) avevano un rischio dimezzato di sviluppare il Parkinson. Si sapeva inoltre che "mangiare peperoni due o più volte a settimana riduce del 30 per cento il rischio di malattia", come afferma Susan Searles Nielsen, della University of Washington School of Public Health.
In base a tali osservazioni alcuni ritengono che le persone predisposte alla malattia siano meno responsive all'azione dei composti nicotinici naturali. Comunque sia, ci si chiese se l'azione protettiva riscontrata nei prodotti derivanti dalla pianta del tabacco fosse presente anche nelle altre piante della famiglia della Solanacee che contengono nicotina.
  
Lo studio, condotto tra il 1992 e il 2008, si è focalizzato sulle abitudini alimentari dei soggetti. Tra questi, 490 pazienti erano parkinsoniani appena diagnosticati, mentre il gruppo di controllo comprendeva 644 soggetti neurologicamente sani e non imparentati con i malati. I dati epidemiologici hanno mostrato che tra le solenacee (patate, melanzane, pomodori, peperoncini e peperoni)  i peperoni erano quelli a maggiore azione protettiva.
Elemento importante nella relazione causa-effetto è la diminuzione del rischio di malattia proporzionale all'aumento del consumo di peperoni, specialmente nelle persone che non hanno mai, o raramente, fatto uso di tabacco.

Come giustamente puntualizza la Nielsen "ulteriori studi sono ora necessari per confermare questi risultati". Ancora più importante sarà identificare una molecola con proprietà chimiche simili a quelle della nicotina ma meno tossica.

(articolo successivo sul Parkinson, qui)


Fonti
- University of Washington, news

- Nicotine from edible Solanaceae and risk of Parkinson disease
Susan Searles Nielsen et al., may 2013  2013  DOI: 10.1002/ana.23884



Bambini bilingue. Cosa dicono le neuroscienze riguardo i processi di apprendimento

Chiunque abbia avuto modo di frequentare famiglie con bambini cresciuti bilingue (in genere ciascun genitore interagisce da subito con il bambino solo nella lingua madre del genitore) avrà osservato che esiste un ritardo temporale di qualche mese nella vocalizzazione delle parole di senso compiuto, rispetto ai bambini monolingue (ho controllato, monolingue è corretto!). Superata l'apparente fase di incertezza iniziale i bambini avranno acquisito una invidiabile capacità di esprimersi senza sforzo e senza confusione in ciascuna delle due lingue. Come se l'incertezza iniziale fosse legata al riordino dei due diversi tipi di input linguistici, imparandone il significato e categorizzandoli in scaffali mentali ben precisi.
®NYT and Harriet Russell
Ovvio quindi che i processi mentali alla base di queste capacità abbiano da subito attratto l'interesse dei neuroscienziati. Capire cosa avviene in queste prime fasi dell'apprendimento è sicuramente qualcosa di estremamente interessante.
Uno studio appena pubblicato su Cortex ha analizzato il modo con cui bambini monolingue- o bilingue affrontano le informazioni discordanti associate al nome degli oggetti, nel caso di lingue non fra immediatamente comprensibili senza averne conoscenza (per fare un esempio, italiano e olandese).
Nel lavoro, Kuipers e Thierry hanno misurato sia il cosiddetto potenziale evento-correlato - ERP (cioè la risposta cerebrale, misurabile, ad uno stimolo esterno) che la dilatazione della pupilla successiva al quasi contemporaneo stimolo visivo e sonoro (cioè l'immagine e il nome dell'oggetto). Vale la pena ricordare che i potenziali ERP vengono misurati attraverso procedure assolutamente non invasive come l'elettroencefalogramma.
E' inoltre da tempo noto che i cambiamenti dell'apertura pupillare sono un un riflesso involontario e affidabile per misurare il cambiamento dello stato di attenzione nei bambini preverbali. Per usare termini tecnici, è un ottimo marcatore per monitorare la risposta negli studi sui bambini piccoli. 
La variazione pupillare è sotto il controllo del locus coeruleus, una struttura cerebrale fondamentale per il controllo del sistema noradrenergico (risposta da stress)

Lo studio ha riguardato bambini di 2-3 anni mono- e bilingue i quali hanno prima ascoltato una parola (ad esempio, 'anatra') e 850 millisecondi (ms) dopo è stata loro mostrata una foto correlata o meno con la parola stessa.
I risultati hanno mostrato differenze nei due gruppi:


  • nei bambini bilingue quando l'immagine che veniva mostrata non corrispondeva alla parola pronunciata la pupilla si dilatava (stesso risultato negli adulti);
  • nei monolingue non vi era discordanza nella risposta pupillare sia in caso di parole coerente che incoerente con l'immagine mostrata.
  • Altra differenza, mentre nei bilingue vi è una correlazione diretta fra intensità del segnale ERP e dilatazione della pupilla, nei monolingue la correlazione è inversa.

Sebbene vi sia un ritardo iniziale nelle capacità verbali dei bilingue in realtà questo ritardo è solo apparente visto che i bambini raggiungono gli stessi traguardi nello stesso tempo. Anzi ottengono gli stessi risultati con un input informativo pari alla metà di quello ricevuto dai monolingua (100% di input in una sola lingua).
Gli autori concludono che i bambini monolingue e bilingue sono ugualmente abili nella loro capacità di associare le immagini e le parole corrispondenti, ma si differenziano nei meccanismi di attenzione. In termini semplici i bilingue danno più attenzione agli stimoli inattesi e questa maggiore attenzione permette loro di elaborare in modo più efficiente.


Questi risultati confermano le ipotesi precedenti che i bilingue abbiano una maggiore flessibilità cognitiva rispetto ai monolingua.


Post precedente sull'argomento, "studiare le lingue ...".

Fonti
- Why Bilinguals Are Smarter
New York Times (17/3/2012),  Y. Bhattacharjee 

- ERP-pupil size correlations reveal how bilingualism enhances cognitive flexibility
JR. Kuipers JR & G. Thierry, Cortex (2013)

- Eyes wide shut: linking brain and pupil in bilingual and monolingual toddlers
Nuria Sebastian-Galles, Trends in Cognitive Sciences 2013

Le tecnologie per la lettura del pensiero. A che punto siamo?

Attenzione a chi o cosa pensate! La scienza ha gli strumenti (quasi) adatti per capirlo

La macchina della verità è uno strumento primitivo e scientificamente poco valido se lo scopo è quello di penetrare nei pensieri umani. Tecnologie efficaci che permettano di leggere nel pensiero non sono disponibili.
Non ancora almeno!
Ad oggi la scienza si limita a cercare di capire se quello a cui pensa il soggetto in esame sia identificabile in quanto appartenente ad una idea categorizzabile. Semplificando il tutto ai minimi termini, capire se stia pensando a una persona o a un albero e magari associarlo a caratteristiche tipiche (colore capelli o tipo di albero).
A tal proposito segnalo un articolo interessante pubblicato sulla rivista Cerebral Cortex da ricercatori della Cornell University (NY-USA).

L'essere umano è un animale sociale e in quanto tale è per lui fondamentale intercettare e comprendere i messaggi inviati in modo più o meno consapevole da chi gli sta intorno. Predire il comportamento altrui è basilare per evitare situazioni spiacevoli. Per fare questo il cervello deve captare i segnali, decodificarli e dedurre la personalità dell'interlocutore. Capire se un sorriso è amichevole o se invece corrisponde a un mostrare i denti è ovviamente ben differente. Come avvenga il processo interpretativo situazionale è una delle sfide più interessanti che i neuroscienziati devono affrontare.
Nello studio della Cornell i ricercatori hanno sfruttato le potenzialità informative fornite dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI) per misurare l'attività neuronale di volontari a cui era stato chiesto di attribuirsi quattro personalità ben definite (di un soggetto immaginario).
I 19 partecipanti - tutti i giovani adulti - hanno prima attinto alle informazioni caratterizzanti il soggetto che dovevano raffigurarsi mentalmente; informazioni riferite sia al grado di socialità (ad esempio, "al soggetto X piace cooperare") che al profilo caratteriale (ad esempio "a volte è timido"). Sono stati poi presentati loro diversi scenari (tipo "il soggetto è seduto su un autobus senza altri posti vuoti mentre una persona molto anziana sale") chiedendo di immaginare come ognuno dei quattro protagonisti avrebbe reagito.
Analisi di fMRI. Courtesy of Cerebral Cortex

"I risultati sono stati incredibili", per usare le  parole di Nathan Spreng, uno degli autori dello studio. A ciascuna delle personalità immaginate (l'immagine mentale dei personaggi) corrispondeva una specifica attivazione della corteccia mediana prefrontale (CMP), l'area del cervello coinvolta nel processo decisionale.
Corteccia premediana frontale
Un processo solamente umano? Sembrerebbe, pur con i limiti del caso, di no. La rete neurale nota come "deafult network", deputata al riconoscimento delle "intenzioni" di un consimile, è una caratteristica dei mammiferi sociali.
Sommando questi dati a quelli già noti, quello che emerge è l'importanza della CMP in disturbi cognitivi della sfera sociale come l'autismo.
Se confermati, questi dati potrebbero fornire uno strumento per ricavare nuovi biomarcatori da utilizzare sia a scopo diagnostico che per monitorare l'efficacia di nuove terapie riabilitative.

Ma questa è solo il dato più recente di un'area delle neuroscienze che come ho scritto prima è in pieno fermento. Molti sono gli studi che varrebbe la pena citare, fra questi ne cito due che esemplificano le potenzialità conoscitive offerte dalla fMRI:
  • dedurre a cosa si stia pensando nel momento stesso in cui l'atto diventa conscio
  • la possibilità di vedere una sorta di trailer del film che i volontari guardano. Pensate che stia esagerando? Guardate sotto il confronto fra l'immagine vista nel film e l'immagine ricavabile dalla scansione dell'attività cerebrale.
    Nishimoto,S et al, Current Biology (2011)
Di seguito il video con altri esempi.

Alcuni penseranno che la qualità è lontana da quella mostrata nei molti film di fantascienza che hanno usato questo tema come nucleo narrativo. Ma per chi si occupa di scienza reale e conosce la complessità di tale lavoro, i progressi finora fatti sono strabilianti.
E per di più reali!!

Insomma bugiardi cronici attenti! I progressi nel campo sono continui!

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Articoli precedente sul tema "lettura" del pensiero --> qui.

Fonti
- Singularity University, home page. Raccomando la lettura delle news pubblicate dalla Singularity University, una istituzione finanziata da industrie che fanno dell'innovazione la loro ragione d'essere. Fra queste la NASA, NOKIA, GENENTECH, CISCO, ... ,  giusto per sottolinearne il profilo di Science Think-Tank a 360 gradi.
- Brain scan can decode whom we're thinking of
 Cornell University news

- Brain Scans Can Now Tell Who You’re Thinking About
Singularity University news

- Imagine All the People: How the Brain Creates and Uses Personality Models to Predict Behavior
 Demis Hassabis et al,  Cerebral Cortex (2013)

- Reconstructing Visual Experiences from Brain Activity Evoked by Natural Movies
 Shinji Nishimoto et al, Current Biology, Volume 21 (19) 2011, Pages 1641–1646



Lampi di raggi gamma. Due stelle che si fondono o un buco nero che cattura una preda?

Come ottenere dei fuochi d'artificio visibili su scala galattica? E' sufficiente fare collassare i nuclei di due stelle l'una con l'altra.
Questo il riassunto della ipotesi recentemente formulata per spiegare l'origine delle potenti e lunghe emissioni di raggi gamma captate per la prima volta dai satelliti Vela negli anni '60 (vedi qui per la lista completa delle emissioni registrate). Secondo quanto riportato dall'inglese "New Scientist" che cita un lavoro di un gruppo di astrofisici olandesi, l'origine di questi massicci picchi radianti coinciderebbe con l'ultimo abbraccio fatale di due stelle, vecchie e oramai prive dell'involucro esterno).
I lampi di raggi gamma (Gamma Radiation Bursts - GRB) la cui durata può durare da pochi secondi fino a minuti, sono fenomeni scientificamente interessanti ma anche temuti data l'energia associata e le conseguenze potenziali sulla biosfera. E' stata ipotizzata una correlazione fra tali improvvisi lampi energetici generati in prossimità (astronomicamente parlando) della Terra e passate estinzioni di massa.
L'origine di questi lampi è riconducibile secondo la teoria standard  alle fasi finali di una stella massiccia mentre precipa in un buco nero. Mano a mano che la stella rotola verso il buco nero così come una pallina scivola verso il  fondo di un imbuto, la sua massa si riduce al solo nucleo, essendo il materiale esterno già stato risucchiato. L'elevata rotazione del nucleo (indotta ad esempio dal campo gravitazionale del buco nero) proietta verso l'esterno getti di materia a velocità prossime a quelle della luce, e ovviamente enormi flash di radiazioni. Una radiazione da non confondere con quella emessa dal buco nero dopo avere inglobato la materia (nota come radiazione di Hawking).
In meno di un minuto un lampo di raggi gamma così generato può rilasciare più energia di quella che il sole è in grado di emettere nei suoi miliardi di anni di vita.
Due eventi potenzialmente in grado di generare GRB. La figura è di qualche anno fa.

Il punto debole della teoria standard è che necessita di una altissima velocità di rotazione della stella catturata, mentre al contrario le stelle invecchiando tendono a ruotare sempre più lentamente. Cosa ancora più importante se l'origine dei GRB fosse unicamente quella sopra esposta ci si attenderebbe che tali emissioni fossero distribuite in modo sostanzialmente uniforme in una galassia; dalle zone centrali e dense fino ai rami a spirale. In realtà i GRB finora registrati non sono distribuiti uniformemente ma si concentrano quasi esclusivamente nelle galassie nane. Questa incongruenza ha spinto alla formulazione di teorie alternative, non sostitutive ma semplicemente aggiuntive, circa l'origine dei gamma radiation bursts.

Edward van den Heuvel dell'Università di Amsterdam ha sviluppato un modello secondo cui l'origine dei GRB è da ricercare nel collassamento finale dell'orbita di due stelle massicce, prive dell'involucro esterno, e/o di stelle a neutroni.


Chiariamo il concetto.
Il punto centrale del modello è che stelle massicce tendono a "precipitare" gravitazionalmente verso le zone centrali, le nursey stellari, dei densi cluster galattici delle galassie nane. Quando due di queste stelle si avvicinano troppo l'una all'altra iniziano una orbita reciproca; tuttavia se nelle vicinanze c'è una terza stella in grado di perturbare lo status quo le due stelle perdono l'orbita e iniziano la caduta reciproca che vedrà in sequenza la collisione, la fusione ed infine l'esplosione. Se l'impatto avviene secondo un certo angolo il corpo fuso inizierà a ruotare ad alta velocità emettendo radiazione.
Per produrre l'esplosione giusta le stelle devono perdere prima i loro involucri di idrogeno ed elio e rimanere con il nucleo arricchito di carbonio e ossigeno, una condizione quest'ultima caratteristica solo di stelle di massa sufficiemtente elevata.
un esempio di un gamma ray burst (Credit University of Maryland)


Tuttavia questo è anche il punto debole della teoria. Le condizioni ottimali affinchè si generino i GRB sono la perdita dell'involucro esterno di stelle massiccie giunte nelle fasi finali della loro vita che collassano ad un angolo specifico. Quindi una combinazione di tempi e stati ben definiti. Citando le parole di Stan Woosley della University of California-Santa Cruz, "questo stato è raro e soprattutto permane per un tempo limitato". Controbatte Portegies Zwart "dopotutto queste particolari e potenti emissioni di raggi gamma sono estremamente rare" e il numero di stelle nelle nurseries è estremamente alto.
Condizioni fortunatamente assenti nella nostra galassia. Una emissione che ricordo, per quanto rara, sarebbe in grado, se troppo vicina, di sterilizzare la vita sulla Terra.

Fonti
- Cornell University, Astrophysics
Are Super-Luminous supernovae and Long GRBs produced exclusively in young dense star clusters?
Edward P. J. van den Heuvelet al.

- Tutto quello che avreste voluto sapere sulle stelle di neutroni e molto altro, qui
University of Maryland, Astronomy. Sito curato da M. Coleman Miller

Articoli precedenti sul blog in tema emissioni di raggi gamma stellari: 1 e 2 e 3.

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