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Sclerosi multipla. Le speranze di un farmaco sperimentale

Sclerosi multipla. I promettenti risultati di un farmaco sperimentale

Attenzione, la cautela è d'obbligo in questi casi!
Non perché la notizia sia dubbia ma perché si tratta di un farmaco sperimentale che come tale necessita di ulteriori studi prima che possa essere considerato sicuro ed efficace. E per ottenere questo "bollino" è necessario che un numero adeguato di pazienti sia testato per un tempo sufficientemente lungo.
Altro punto da sottolineare è che, come vedremo, si tratta di un farmaco in grado di attenuare i sintomi riducendo gli eventi acuti e NON una cura definitiva.

Il percorso della sperimentazione clinica non ammette scorciatoie, è lungo e costoso e deve rispondere ad un obbligo fondamentale da un punto di vista scientifico ed etico, cioè ogni paziente deve ricevere solo un trattamento con un profilo rischio/beneficio idoneo. Profilo che ovviamente cambia a seconda della gravità della malattia: un effetto collaterale non accettabile per un raffreddore potrebbe essere invece un "rischio aggiuntivo" del tutto etico per una persona la cui aspettativa di vita senza quel farmaco è di 6 mesi. La sperimentazione clinica, giova qui ricordarlo, è composta da molti tasselli (parte delle tre diverse fasi in cui essa si articola) che devono incastrarsi tra loro perché lo studio possa proseguire in condizioni di sicurezza massima e di potenziale efficacia terapeutica del trattamento. Va da se che anche una sperimentazione che dia risultati di ottima tollerabilità ma con scarsa o nulla efficacia deve essere interrotta in quanto il rapporto rischio aggiuntivo vs beneficio reale sarebbe più alto dell'assenza di trattamento.
Una introduzione forse ovvia ma da sottolineare ogni volta data la spinta "popolare" verso rimedi non testati, comprensibile se sollevata da un familiare ma inaccettabile quando viene da politici o organi di stampa. La buffonata criminale del metodo Stamina ne è un esempio recente.
Le notizie positive si riferiscono ai risultati ottenuti grazie allo studio quadriennale di fase III, FREEDOMS, centrato sul farmaco Gilenya, presentati al 29.mo congresso europeo sulla sclerosi multipla (ECTRIMS) tenutosi a Copenhagen qualche mese fa. Dati risultati decisivi per la approvazione del farmaco da parte della FDA americana e della EMA europea. La cautela rimane sui vantaggi (o conseguenze) a lungo termine del trattamento, visto che queste informazioni  emergeranno solo con l'esposizione al farmaco di un numero di individui (con caratteristiche cliniche non "standardizzate" come avviene durante la sperimentazione clinica) sufficientemente alto da fare emergere una casistica altrimenti "invisibile" durante la sperimentazione.
Riassumendo il tutto in una frase, il farmaco ha mostrato una capacità, statisticamente significativa, di ridurre di un terzo la perdita di volume cerebrale associata al progredire della sclerosi multipla.
Questi gli aspetti principali dello studio:
  • il trattamento continuativo con Gilenya riduce l'entità della perdita di volume cerebrale del 33% rispetto ai pazienti trattati con terapie standard;
  • la riduzione del volume cerebrale è, nell'unità di tempo, più accentuata nei pazienti con malattia a decorso più rapido;
  • i pazienti che, nonostante la diagnosi di sclerosi multipla, si mantengono più a lungo in uno stato asintomatico sono quelli in cui la riduzione di volume cerebrale è più lenta.
Dati i precedenti elementi si spiega il senso di avere utilizzato come marcatore dell'efficacia del trattamento con Gilenya la variazione volumetrica cerebrale: ha il vantaggio indubbio di essere poco costoso, specifico per la malattia e soprattutto non invasivo.
Schema riassuntivo tratto dal sito della Novartis su riduzione volume cerebrale e SM (credit: Novartis).


 Punto centrale è che il trattamento sembra ugualmente efficace (per il rallentamento della perdita di volume cerebrale) indipendentemente dal fatto che al momento dell'assunzione del farmaco il paziente fosse nelle fasi iniziali della malattia o già sintomatico.


Gilenya™/ Fingolimod
(2-amino-2-[2-(4-octilfenil)etil]propan-1,3-diolo)
 Il farmaco agisce da immunomodulatore (ricordo che la sclerosi multipla è una malattia autoimmunitaria caratterizzata da una progressiva demielinizzazione dei neuroni) e ha mostrato una significativa capacità di ridurre la frequenza delle fasi recidivanti della malattia. La molecola in se agisce sul recettore della sfingosina-1 fosfato, facilitando il "sequestro" dei linfociti nei linfonodi; un "escamotage" che permette di sottrarli dal circolo riducendo così i danni commessi dai linfociti autoreattivi. Un funzionamento che anticipa i potenziali effetti collaterali come infezioni cerebrali, legati probabilmente alla diminuzione di linfociti circolanti.
Effetti potenziali certamente gravi (al momento mi risulta un solo caso tra USA e EU) ma che devono essere pesati sulla aspettativa di vita del paziente in assenza di un trattamento efficace (vedi link a fondo pagina riguardo all'allarme lanciato dalla Agenzia del Farmaco Italiana).
Approccio ideale sarebbe quello di eliminare in maniera specifica i linfociti autoreattivi, sfuggiti per motivi non noti alla selezione negativa del processo di maturazione linfocitario. Ideale certo ma complicato dall'assenza di sufficienti dati sulle cause scatenanti la reazione autoimmunitaria e sull'identità dei linfociti colpevoli.

Rallentare il processo degenerativo è un primo passo importante per migliorare la qualità di vita dei pazienti in attesa dello sviluppo di terapie adeguate. 

(Articolo successivo sullo stesso tema --> qui o  al tag tematico --> qui)

Fonti
-  Nota Informativa Importante su Gilenya (fingolimod) (11/11/2013)
Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), 11/11/2013


- Dati tecnici sul Gilenya (fingolimod)
EMA (European Medicines Agency). Link al PDF in italiano


- New data show Novartis' Gilenya® reduced brain volume loss by one third and confirm brain volume loss link with disability in MS patients
Novartis, news (ottobre 2013)

- Efficacy and Safety of Fingolimod in Patients With Relapsing-Remitting Multiple Sclerosis.
clinicaltrials.gov

- Gilenya
  European public assessment reports (EMA-European Medical Agency)

La dieta basata sul gruppo sanguigno non è scientificamente fondata ...

... e se per quello nemmeno la cosiddetta paleo-dieta (la dieta dei cavernicoli?!)

Tra le diete in voga negli ultimi anni la cosiddetta dieta del gruppo sanguigno è quella che ha avuto un seguito per me inspiegabile, scientificamente parlando. La teoria che la supporta, proposta anni fa da un naturopata americano, Peter D'Adamo, ipotizza l'esistenza di una correlazione evolutiva tra ciascun gruppo sanguigno e una dieta specifica.
Una teoria che ha fatto vendere milioni di copie di libri all'autore.
L'idea mi è sempre parsa "curiosa" dato che si fonda su una combinazione di dati reali e di estrapolazioni dubbie.
Prima di passare alla teoria proposta da D'Adamo riassumiamo brevemente le differenze ematiche che esistono nella specie umana.
Forse stupirà molti scoprire che, dall'analisi del sangue condotta su un campione significativo di individui, sono stati identificati circa 270 antigeni diversi riconducibili a 30 gruppi sanguigni.
Un antigene è una sostanza (non necessariamente proteica) che può essere riconosciuta come aliena dal sistema immunitario e contro la quale viene attivata la risposta immunitaria. Una reazione ben nota nei casi di rigetto cronico dei trapianti o, situazione più interessante per il tema oggi affrontato, in seguito a trasfusione di sangue tra soggetti non compatibili.
I gruppi sanguigni principali (per capacità di attivare una risposta immunitaria importante e per frequenza nella popolazione), sono i ben noti fattore Rhesus (Rh positivo/negativo) e il sistema AB0.
Tra i due è il sistema AB0 quello che D'Adamo ha usato per elaborare la sua teoria. 
Le basi molecolari del sistema AB0
Il tipo di gruppo sanguigno A, B, AB o 0 è il risultato della combinazione allelica individuale conferita dal gene AB0, codificante per una glicosiltransferasi, enzima in grado di modificare un glicano posto sulla membrana plasmatica degli eritrociti. A causa della mutazione nella guanina-258 il gene dell'allele 0 codifica per una proteina tronca priva di attività enzimatica. Gli alleli A e B hanno invece alterazioni che conferiscono attività enzimatiche specifiche, la A in grado di aggiungere N-acetilglucosamina al fucosio mentre il B aggiunge il galattosio.
L'allele 0 è recessivo, come tipico delle mutazioni "loss of function" mentre A e B sono co-dominanti. Da qui deriva che un soggetto con gruppo 0 debba per forza possedere entrambi gli alleli di tipo 0 mentre, ad esempio, un soggetto B può essere il risultato sia della combinazione B/0 che B/B.
Come evidenziato nella figura gli individui con gruppo 0 hanno in comune con gli altri gruppi la struttura glucidica di base, essendo privi dell'enzima funzionante. Per converso gli individui con gruppo AB avranno sia le strutture tipiche del gruppo che del gruppo B.
Le modificazioni glucidiche presenti nei diversi gruppi sanguigni
Ciascuno dei principali gruppi sanguigni può a sua volta essere suddiviso in altri sottotipi. Ad esempio i due alleli più comuni dell'allele 0 sono lo 01 e lo 02, il gruppo A ha 20 sottogruppi, etc ma questo ha un impatto relativo nelle trasfusioni; per questo motivo la tipizzazione del proprio gruppo è generalmente limitata al Rh e al gruppo generale AB0.
Per spiegare il rigetto immediato associato ad una trasfusione di sangue errata, bisogna ricordare che abbiamo anticorpi diretti contro le modificazioni in noi non presenti. Quindi, una persona con gruppo 0 avrà anticorpi contro le modificazioni presenti nei gruppi A e B.
Come mai abbiamo anticorpi pronti ad agire contro molecole che in teoria non abbiamo mai incontrato prima (il rigetto avviene infatti indipendentemente dal fatto che in passato ci sia stata una analoga trasfusione errata)?
Il motivo è che nei primi mesi di vita, in seguito all'esposizione del corpo a sostanze esogene (dal cibo ingerito ai batteri ambientali) si entra in contatto con   strutture molecolari simili a quelle presenti sulla superficie eritrocitaria e questo induce una risposta immunitaria umorale (anticorpale) che rimarrà con noi per tutta la vita. O meglio, si sviluppa solo nei soggetti che sono privi delle molecole "scatenanti" la reazione. In altre parole un individuo del gruppo B non svilupperà anticorpi contro le modificazioni legate all'aggiunta del galattosio; questo perché durante la fase di maturazione del sistema immunitario nel timo vengono eliminati i linfociti capaci di  riconoscere il cosiddetto self (quando questa cernita funziona male, si pongono le basi per malattie auto-immunitarie).
Ricapitolando, mentre gli individui del gruppo 0 sviluppano anticorpi anti-A e anti-B, i soggetti B hanno anticorpi anti-A e i soggetti A anticorpi anti-B. Chiaramente gli individui con gruppo AB mancano di entrambi questi anticorpi.
Da qui la ragione per cui le persone con gruppo 0 sono da un punto di vista trasfusionale donatori universali ma possono ricevere solo sangue 0 mentre i soggetti AB sono accettori universali ma possono donare solo a soggetti AB.

Comprese le basi fondanti il sistema AB0, passiamo alla dieta dei gruppi sanguigni cercando di capire per quale motivo il tipo di gruppo sanguigno sia stato considerato "dieteticamente" rilevante.
Gli elementi alla base di questa dieta sono:
  • Gruppo 0 viene associato agli antenati cacciatori e quindi ad una alimentazione tipica di un carnivoro, in cui la massa muscolare e la piena disponibilità energetica sono essenziali. Ecco quindi il consiglio di privilegiare cibi proteici (uova, carne e legumi) ed evitare farinacei.
  • Gruppo A sarebbe invece l'emotipo comparso con la fase agricola (circa 10mila anni fa). Questi individui dovrebbero quindi privilegiare una dieta vegetariana.
  • Gruppo B è associato alle popolazioni nomadi con stile di vita basato sulla pastorizia (migrati dall’Africa circa 15 mila anni fa). Sono gli unici a cui, secondo D'Adamo, è concesso inserire nell'alimentazione i latticini.
  • Gruppo AB è il più moderno e alle persone AB viene consigliato un regime alimentare onnivoro, un menù a metà strada tra i precedenti.
Tra i punti punti salienti della teoria la scoperta, risalente a più di una decina di anni fa, che le strutture glicaniche presenti sugli eritrociti prima descritte sono presenti anche sulle cellule dell'epitelio intestinale. Altro elemento "concettuale" importante, l’attività di alcuni enzimi digestivi che sembra variare in base al gruppo sanguigno di appartenenza. 
Da qui la teoria che per evitare problemi allergici o di scarsa assimilazione sia necessario adeguare la dieta al proprio gruppo sanguigno.

Ora, questo mix tra dati di fatto e ipotesi alimentari non può non lasciare perplessi in quanto confonde un regime alimentare basato sulle caratteristiche di vita (quindi forzato dato che i supermercati e il veganesimo erano di là da venire) con  esigenze alimentari specifiche. Un pescatore non privilegiava il pesce rispetto ai farinacei in quanto salutare ma perché, in assenza di scambi commerciali, mancavano i farinacei. 
Inoltre l'eventuale predominanza di un dato allele AB0 in popolazioni con certi "obblighi" dietetici legati alla geografia del luogo abitato, è molto probabilmente il risultato di un "effetto del fondatore" e/o bottleneck di popolazione più che  al fatto che un dato gruppo sanguigno si sia rivelato più di adatto di un altro al regime alimentare "imposto" dall'ambiente.

Sarebbe curioso del resto pensare che tutte le popolazioni vissute di prodotti ittici per centinaia se non migliaia di anni abbiano evoluto un adattamento alimentare tale da richiedere le proteine del pesce ed essere invece intolleranti a prodotti estranei alla loro "storia evolutiva" come quelli derivati dalle farine vegetali.

Che esistano esigenze alimentari specifiche per ogni animale è indubbio (un carnivoro NON può ruminare, con buona pace di alcuni animalisti che hanno cercato di fare diventare vegetariano il loro gatto, quindi non potrebbe vivere mangiando erba nemmeno se "volesse"), che il gruppo sanguigno sia l'elemento che identifica le necessità alimentari è tutt'altro discorso.
Distribuzione frequenze allele A (©wikipedia)

Distribuzione frequenze allele B (©wikipedia)

Distribuzione frequenze allele 0 (©wikipedia)
Dalle figure sopra riportate è possibile visualizzare la frequenza degli alleli determinanti il gruppo sanguigno AB0. Quello che salta immediatamente all'occhio è la omogeneità nella distribuzione dei diversi alleli nell'Europa occidentale. Una conseguenza legata ad una certa uniformità genetica più che ad una uniformità alimentare o, come vorrebbe la dieta dei gruppi sanguigni, all'esistenza di una selezione in grado di favorire diete "sangue"-compatibili.

Altro elemento fondante questa dieta ha a che fare con le lectine (da non confondere con la lecitina, un emulsionante importante per la salute cardiovascolare), proteine presenti in numerosi alimenti, dai vegetali ai latticini, in grado di legare i carboidrati.
Proteine centrali nei processi di riconoscimento cellulare, sfruttate tra l'altro da numerosi virus per identificare la "corretta" cellula bersaglio.
Secondo D'Adamo ogni persona, in relazione al suo gruppo sanguigno, mostra intolleranze per alcune lectine, in quanto queste, una volta introdotte nell'organismo attraverso l'alimentazione, sarebbero in grado di attaccare il corpo favorendo processi di agglutinazione.
Un esempio di alcune delle lectine presenti sulle membrane cellulari
(© Figdor CG et al, Nat Immunol, 2002)

L’idea, quantomeno curiosa, è che queste lectine possano essere incompatibili con il gruppo sanguigno e scatenare intolleranze. Una ipotesi contraddetta dal fatto che la sensibilità al glutine e la celiachia sono distribuiti similmente, fatte le debite proporzioni, tra i gruppi 0, A, B e AB.
Rimanendo al caso delle lectine, le persone intolleranti ad esse lo sono solo in relazione ad alcuni cibi, sebbene queste molecole si trovino in tantissimi alimenti.
Il dato indica che i fattori in gioco, genetici o meno, sono altri e più complessi.

Riassumendo, si è partiti da dati veri (presenza delle stesse glicoproteine su eritrociti ed enterociti) per estrapolare conclusioni NON supportate da studi scientifici.
 Questo NON vuol dire che l'ambiente in cui si vive non esercita alcuna pressione selettiva sulle "abitudini alimentari". Il caso esemplare è quello della intolleranza del lattosio negli adulti, che descrivo in dettaglio a fondo pagina

C'è qualcosa d'altro che non torna nella correlazione tra dieta e alleli AB0.
La frequenza relativa degli alleli A,B e 0 varia moltissimo tra le diverse popolazioni, senz’alcun collegamento con il tipo di dieta seguita durante l’evoluzione. La diversa frequenza allelica è in buona parte risultato del founder effect e non ci sono evidenze che questi alleli abbiano subito una pressione selettiva tale da indurre una "alimentazione etnica".
Semmai, nel corso dell’evoluzione umana e in seguito all’avvento di agricoltura e pastorizia, si sono sedimentate mutazioni vantaggiose, come la tolleranza al lattosio, che ha permesso, a chi ne era portatore, di metabolizzare lo zucchero del latte anche in età adulta, fornendo un vantaggio alimentare.

La dieta basata sui gruppi sanguigni è quindi scientificamente infondata?
Come detto prima si è partiti da dati reali per ottenere conclusioni non validate, alquanto improbabili da un punto di vista logico e potenzialmente dannose da un punto di vista medico.
Dannose in quanto suggeriscono di adeguarsi per un tempo indefinito a diete sbilanciate: ricche di proteine in alcuni, solo vegetariane in altri e tutte, tranne quelli con gruppo B, prive di latticini.
Vero che gli autori suggeriscono di utilizzare integratori vari e di sostituire i latticini con latte di capra, tuttavia lo sbilanciamento rimane.
Altre critiche metodologiche (e di risultati) arrivano da articoli pubblicati su importanti riviste scientifiche, tra cui:
  • nel 2013 una meta-analisi pubblicata sull'American Journal of Clinical Nutrition che riporta la più aggiornata ed estesa review degli studi finora condotti. Da questo studio comparativo non emergono dati in grado di supportare i benefici promessi da questa dieta.
  • Uno studio, pubblicato su PLoS One da un team della università di Toronto, ha dimostrato la fallacia della teoria che sostiene che le esigenze nutrizionali di un individuo variano in base al tipo di gruppo sanguigno. Nello studio sono stati reclutati un migliaio di persone, giovani e adulti sani, che hanno fornito informazioni dettagliate sulla loro dieta abituale. A ciascuno di loro è stato poi prelevato del sangue sia per le analisi metaboliche standard che per la analisi del DNA. La correlazione tra tipo di dieta, marcatori metabolici e gruppi sanguigni ha dato risultati pressoché nulli. Ad eccezione del ben noto legame tra dieta e metabolismo, il gruppo sanguigno non forniva alcuna informazione aggiuntiva.
Questo non vuol dire che non esiste una correlazione tra patrimonio genetico (e quello della nostra flora intestinale) e dieta ideale. Un campo di studio coperto dalla nutrigenomica e dallo studio del microbioma, rispettivamente.

  • La nutrigenomica è una branca della genomica che si occupa di comprendere gli effetti del cibo (e dei suoi componenti) sull'espressione genica. Una disciplina alquanto interessante ma, al momento solo per addetti ai lavori. Le uniche informazioni utilizzabili dal grande pubblico sono quelle relative alla intolleranza al lattosio o la predisposizione alla celiachia, entrambe diagnosi ottenibili con la semplice osservazione senza bisogno di test genetici. Siamo ben lontani dalle promesse di chi vuole vendere un kit genetico per indirizzarvi su una dieta fatta su misura per un dato genotipo. L'interesse di questo campo è alto ma limitato alla ricerca biomedica.
  • Il microbioma, cioè la caratterizzazione delle popolazioni microbiche che ospitiamo nel nostro apparato gastrointestinale, è ancora più importante. Sono ben noti gli studi che hanno permesso di correlare obesità e sindrome metabolica con un dato profilo microbiomico.

***

Un ultimo appunto sulla paleodieta, di cui ho scoperto l'esistenza poco tempo fa.
Già il nome la dice lunga sulla sua scientificità (dieta del paleolitico alias dei cavernicoli) ma pensare che qualcuno abbia ipotizzato che minimizzare i carboidrati (e su questo si può discutere) e aumentare i grassi fosse la strada giusta utile per dimagrire senza causare scompensi lascia un poco perplessi.
Ma dato che non bisogna mai porre limiti alla credulità, i ricercatori della università di Melbourne hanno messo alla prova gli assunti teorici con test sui roditori. Non solo la dieta non funzionava ma può essere causa di problemi a chi soffre di disfunzioni metaboliche pre-diabetiche (asintomatici) e poco propensi all'attività fisica.
I test sono stati condotti sui topi divisi per gruppi in funzione del tipo di cibo fornito (dieta con il 20 o il 60 per cento di grassi) per 8 settimane. I topi sottoposti alla paleo-dieta sono aumentati di peso (15 per cento) e hanno raddoppiato la loro massa grassa.
Per ulteriori informazioni rimando allo studio pubblicato sulla rivista Nutrition & Diabetes (Andrikopoulos et al, febbraio 2016).


Fonti
- AB0 Genotype, ‘Blood-Type’ Diet and Cardiometabolic Risk Factors
Wang J et al, PLoS One. 2014 Jan 15;9(1)

- Blood type diets lack supporting evidence: a systematic review. 
 Cusack L et al, Am J Clin Nutr. 2013 Jul;98(1):99-104

***

L'intolleranza al lattosio nell'adulto nelle diverse popolazioni
Volendo analizzare invece la presunta correlazione tra gruppo sanguigno e "comportamento ancestrale" (cacciatore vs agricoltore ad esempio) c'è da dire che altri sono i fattori evolutivi, legati alla fisiologia dell'alimentazione, che hanno operato sulle diverse popolazioni primo tra tutti il mantenimento della tolleranza al lattosio nell'adulto.
Il lattosio, il carboidrato più comune nel latte, è un disaccaride composto da glucosio e galattosio non assorbibile di per sé dalle cellule intestinali. Perché ciò avvenga il lattosio deve essere scisso nelle due unità fondamentali; una operazione svolta dalla lattasi, un enzima la cui produzione cala sensibilmente con il passaggio alla fase adulta. In assenza dell'enzima il lattosio ristagna nell'intestino e diventa fonte nutritiva per i batteri che lo metabolizzano. Da qui la sensazione di gonfiore, fastidio e  problemi intestinali evidenziabili quando un adulto intollerante (NON allergico che è un'altra cosa) beve latte.
Percentuale di intolleranti al lattosio nella popolazione (courtey of foodbeast.com)

Da un punto di vista evolutivo la diminuità espressione del gene della lattasi nell'adulto è "irrilevante", quindi non soggetta a selezione, in quanto l'alimentazione di infanti e adulti è diversa.
Caratteristica questa, vera sia nei mammiferi in generale (siano essi carnivori o erbivori) che nello specifico dei primati.
Diverso è il caso per quelle popolazioni che hanno mantenuto da secoli uno stile di vita (e una alimentazione) basato sulla pastorizia il proprio elemento di sostentamento; qui la pressione selettiva ha indubbiamente favorito il mantenimento della capacità di digerire il latte anche in età adulta.
No-lattasi = meno cibo disponibile = minore probabilità di sopravvivenza propria e della propria progenie.
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Sempre in ambito alimentazione e genetica potrebbe interessarti in questo blog articoli su:
- gusto e genetica (qui)
- difetti della teoria dieta ipocalorica e longevità (qui)
- i rischi legati al fruttosio (qui)
e in genere quelli raggruppati nel tag (a destra) "alimentazione"

Identificata una regione del cervello in grado di identificare i "bordi"

I ricercatori del Vision Center della università di Sydney, hanno identificato un gruppo di cellule nel cervello umano responsabile della identificazione dei bordi di un oggetto.
Un sistema questo che, in modo grossolano, può essere considerato come il nostro rilevatore automatico degli spigoli, in grado di tutelarci da traumi senza tuttavia sovraccaricare con continue elaborazioni il nostro Io-cosciente. Per apprezzare i vantaggi di questo sistema pensate al dispendio dell'attività cerebrale conscia se nello spostarci da un luogo all'altro anche per pochi metri dovessimo analizzare coscientemente il percorso e muoverci in modo da non urtare ogni oggetto sporgente. 
Questo d'altro canto è uno dei problemi più importanti che incontrano gli ingegneri robotici quando cercano di fare muovere un droide anche solo per pochi metri su un terreno accidentato: le istruzioni che devono essere inserite per evitare cadute o blocchi sono tali da rendere il processo di programmazione una sfida quasi più complessa della costruzione del droide stesso.


Esagero?
Pensate a tutte le situazioni banali di pericolo potenziale (ben noti a chi ha bambini piccoli), dal muoversi per casa allo scivolare sicuri tra i banchi di una cristalleria. Non pensiamo "accidenti devo stare veramente attento al prossimo passo! Scaffale di fronte e a fianco a mezzo metro!". Semplicemente evitiamo le sporgenze in modo automatico … beh quasi sempre.
Disponiamo di un pilota automatico affidabile, almeno fintanto che non sovraccarichiamo il nostro cervello con altri compiti "taggati" come prioritari. Questo può avvenire quando siamo assorti in pensieri astratti o molto concreti come le gambe di una ragazza che abbiamo appena incrociato. Questa "visione" o il rumore di una frenata sulla carreggiata a fianco sono tutti eventi che il cervello etichetta come prioritari e che rischiano di mettere in pausa il nostro rilevatore di ostacoli (o meglio il sistema che riceve l'allarme).
Quindi una cosa è pensare ad altro ma continuare a "monitorare" in modo inconsapevole il mondo circostante - il cervello dedica una parte della sua attività di sottofondo alla continua registrazione degli input visivi - un'altra è non vedere proprio la scena perchè qualcosa d'altro ha messo in pausa il rilevatore.

Nella maggior parte dei casi questa disattenzione non provoca incidenti ma tutti noi abbiamo il ricordo di situazioni in cui siamo stati in grado di evitare per un puro soffio un pericolo rappresentato da un qualche oggetto sporgente. Abbiamo sempre ringraziato i nostri "riflessi pronti" senza sapere quale e dove fosse situato il sistema di rilevazione ed elaborazione.
Dato che noi tutti siamo in grado di catturare elementi visivi in modo inconsapevole, e concordi nel non credere ad un angelo custode che veglia sul nostro cammino, allora DEVE esistere un circuito cerebrale di rilevazione.
Certo, un conto è ipotizzare l'esistenza di una rete neurale dedicata e un altro è identificarla! Scoprire infine che il sistema è così efficiente da essere in grado di distinguere elementi specifici di pericolo potenziale (i bordi appunto) è stato un plus.

Questa ricerca, condotta dal team di Paul Martin della università di Sidney, è il naturale proseguimento del lavoro condotto sulle scimmie non antropomorfe, e pubblicato sul sul Journal of Neuroscience, in cui vennero identificate le cellule in grado di rispondere selettivamente all'orientamento dello stimolo visivo. I dati recenti confermano questa osservazione negli umani. Le cellule coinvolte si trovano nel cosiddetto cervello "primitivo", la parte del cervello impegnata nel processo di reindirizzamento degli stimoli visivi (catturati dalla retina) verso la corteccia cerebrale, la regione "evoluta" del cervello sede dei processi di "interpretazione" degli input.

Schema del percorso "visivo". E' evidente il passaggio nel talamo prima di giungere alla
corteccia visiva (courtesy of medicinembbs)
Finora si sapeva che il segnale trasdotto dalla retinica era analizzato in diversi distretti cerebrali a seconda del pacchetto d'informazione associato: colore, forma, intensità sono gli elementi meglio compresi. Ora sappiamo che ci sono cellule in grado di riconoscere "modelli". Quando guardiamo il monitor di fronte a noi percepiamo che ha quattro lati, ciascuno con un particolare orientamento (verticale o orizzontale) che lo distingue dagli altri e dallo spazio dello sfondo. Il sistema cellulare ora identificato è sensibile proprio a questo genere di informazioni.

Parte della difficoltà stava nel fatto che si tratta di cellule estremamente rare, un fatto che come afferma Martin, ha ritardato di quasi dieci anni la scoperta: "Avevamo identificato queste cellule già dieci anni fa, ma essendo presenti nell'ordine di una decina per ogni migliaio abbiamo al tempo pensato ad un errore e, di conseguenza, scartato i dati. Tuttavia la loro ricomparsa in più occasioni ci ha fatto ricredere sul precedente giudizio spingendoci a studiarle con maggiore attenzione. Li ci siamo resi conto che pur essendo talamiche assomigliavano molto di più alle cellule della corteccia".
In quest'ultima frase c'è una parte molto importante, la localizzazione inattesa.
Così lo spiega Martin "Abbiamo scoperto che queste cellule si trovano nel talamo [ndb. nel corpo genicolato laterale], un'area che in precedenza si riteneva deputata al solo transito dell'informazione dagli occhi alla corteccia. Questo vuol dire che la corteccia, la zona evolutivamente più recente, non è il luogo (o semplicemente non è l'unica area) in cui si forma quella che noi percepiamo come immagine. Non si tratta nemmeno di una elaborazione progressiva dell'immagine formatasi in seguito al passaggio in diversi distretti [ndb. per intenderci come se l'immagine fosse una automobile, creata in una catena di montaggio]. Si tratta più che altro di informazioni che arrivano separate da distretti diversi in quanto è il segnale "visivo" stesso ad essere indirizzato da subito in più punti contemporaneamente".
Si tratta di una sintesi multidirezionale più che di un mattone sull'altro.

Sintesi del processo di formazione dell'immagine
(credit: wikimedia)

L'esistenza di un sistema similare è stato descritto in molti animali, dai mammiferi (roditori e felini) agli uccelli (galline) e perfino negli insetti (api). Ovviamente con caratteristiche specifiche legate alla tipologia del sistema nervoso; ricordo ad esempio che la corteccia compare nei mammiferi. L'identificazione nella scimmia prima e nell'uomo poi era un tassello fondamentale e oggi finalmente disponibile.

La scoperta ha diverse implicazioni potenziali e potrebbe aiutare nel comprendere altre funzionalità "automatiche" associate alla visione come quella usata nel movimento, per trovare cibo, leggere e riconoscere i volti (solo per menzionare le principali).

Tutti elementi importanti, secondo Martin, per la costruzione in un prossimo futuro di dispositivi medici (ad esempio un occhio bionico) in grado di  interfacciarsi correttamente con il cervello.
Per sviluppare un dispositivo come l'occhio bionico non è ovviamente sufficiente riprodurre colore e luminosità. E' molto più importante che il cervello "capisca" non solo il segnale inviato ma che questa analisi venga effettuata da regioni specifiche del cervello, quelle in grado di identificare i modelli. Un problema particolarmente importante in quei casi in cui il danno non è limitato all'apparato fotorecettore ma riguarda i centri di elaborazione del segnale.

Fonti
- Cortical-like receptive fields in the lateral geniculate nucleus of marmoset monkeys.
Cheong SK et al, J Neurosci. (2013) 33(16):6864-76

Cellule uovo funzionanti ottenute dalle staminali

Cellule uovo dalle staminali

Alla fine ci sono riusciti. 
Un team di ricercatori giapponesi coordinato da Mitinori Saitou è riuscito ad indurre il differenziamento di cellule staminali in cellule uovo. Un processo tutt'altro che semplice in quanto necessitante l'attivazione del processo meioitico, il meccanismo alla base della formazione delle cellule germinali (cellule aploidi).
Saitou non è nuovo a queste accelerazioni tecniche come dimostra il lavoro dell'anno scorso in cui dimostrò la fattibilità di ottenere spermatozoi perfettamente funzionanti partendo da due tipi di cellule staminali diverse (vedi sotto).
Ottenere cellule germinali funzionanti è tutto fuorchè un procedimento semplice. Se si riuscirà a ripetere l'esperimento in uomo, sviluppando un procedimento eticamente corretto, questa tecnica potrebbe diventire un valido strumento per supplire ai tanti casi di sterilità femminile ad oggi intrattabili. 
Certo non possiamo sottostimare il potenziale impatto negativo sulla genetica di popolazione che la rincorsa a terapie in grado di fare riprodurre chi, per motivi genetici, non è in grado di farlo. Assenza di selezione vuol dire accumulo di alleli dannosi per la fitness (intesa come capacità di un individuo di raggiungere un età che gli permetta di generare progenie a sua volta fertile) a valori superiori rispetto a quelli di equilibrio. Ma, pur essendo questi argomenti su cui è importante riflettere, la ricerca persegue obiettivi di conoscenza su cui poi saranno le legislazioni a regolare.
Mi limiterò qui a riferire l'aspetto scientifico di questa ricerca.

Gli esperimenti per cercare di ottenere gameti da staminali embrionali o da cellule totipotenti ottenute da adulto (un metodo questo preferibile per motivi etici) sono in corso da anni. Un percorso ad ostacoli e quasi "al buio" dato che le conoscenze di base (e sulla epigenetica in particolare) erano troppo scarse, come ben capiamo a posteriori, perchè tali tentativi avessero una qualche probabilità di riuscita.
Tanto più quando è la cellula uovo l'obiettivo finale del processo differenziativo. Infatti pur essendo anche lo spermatozoo una cellula derivata dalla meiosi, l'oocita è nettamente più complesso e quindi più delicato: lo spermatozoo è una macchina da corsa che deve resistere ad un ambiente ostile e giungere per primo al traguardo; una volta consegnato il "pacchetto di informazioni" il suo scopo si esaurisce e con esso la cellula che si fonde in parte con la cellula ricevente.
La cellula uovo al contrario deve fornire, oltre al proprio pacchetto di informazione genomica, tutta una serie di informazioni locali in grado di indirizzare le prime divisioni cellulari. Un processo tutto a carico della cellula uovo almeno fino al momento in cui l'embrione si "aggancia" alla parete uterina. La caratterizzazione della distribuizione non casuale (ma a gradiente) dei vari morfogeni presenti nella cellula è valsa nel 1995 il nobel a Nüsslein-Volhard e a Eric Wieschaus.
Ricreare una cellula uovo vuol dire quindi assicurarsi che il processo di differenziamento sia in tutto e per tutto completo: non solo deve avvenire la aploidizzazione della cellula ma anche i processi interni devono essere completi. Questo il motivo per cui i risultati in quest'area latitavano mentre approcci diversi su altre cellule (ad esempio da cellula della cute a staminale emopoietica) segnavano un successo via l'altro; tra gli ultimi esperimenti di successo vale la pena menzionare l'ottenimento di spermatozoi perfettamente funzionali partendo sia da cellule embrionali che da cellule pluripotenti ottenute a partire da adulti.
Mitinori Saitou (link al suo lab al Riken Institute)

Ora il team di Saitou (lo stesso team che aveva vinto la sfida sul differenziamento degli spermatozoi) ha riempito questo buco grazie all'articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Science. 
I punti principali del lavoro, condotto sui topi, sono:
  • punto di partenza del processo differenziativo sono state le cellule embrionali (ES) murine 
  • Nel precedente articolo Saitou aveva mostrato come fosse possibile ottenere spermatozoi sia partendo da ES che da IPS (Induced Pluripotent Stem Cell - cellule adulte dedifferenziate ottenute grazie alle metodiche sviluppate da Shinya Yamanaka e John Gurdon, entrambi premiati con il Nobel nel 2012.
  • Le cellule de-differenziate sono state prima trasformate in epiblasti e quindi in cellule germinali primordiali (PGC), diretti precursori dell'oocita.
  • A differenza delle PCG maschili che una volta ottenute e iniettate in un maschio sterile ne permettevano il ripristino della fertilità, le PCG femminili necessitano di ulteriori trattamenti per essere funzionali;
  • trattamenti consistenti nell'incubazione delle cellule con tessuto ovarico. In seguito a tale incubazione si sviluppano spontaneamente delle strutture tissutali di tipo ovarico che trapiantate in una femmina sterile danno origine ad oociti. 
  • Oociti la cui funzionalità è stata validata mediante fertilizzazione in vitro e inserimento nell'utero di un topo accettore. La prole nata da questo processo è a sua volta fertile (la vera prova del successo sperimentale). 
Il protocollo sperimentale sviluppato da Saitou (Nat. Protocols, 2013)


Come è facile immaginare, questa scoperta ha aperto nuove prospettive.
Il gruppo di Saitou sta ora studiando la possibilità di ottenere oociti umani funzionanti come chiave di volta per il trattamento della sterilità. E' indubbio che questo approccio presenti seri problemi sia di tipo etico che pratico. Un solo esempio: l'impossibilità di ottenere il tessuto ovarico necessario per l'incubazione iniziale. E' impensabile l'idea di asporatare, come fatto in topi, l'ovaio sano di una donatrice per trasformarlo in un terreno di coltura adatto a fare sviluppare le cellule uovo di un'altra persona.
L'esperienza insegna che una volta che la via è tracciata le soluzioni eticamente corrette seguono.

Fonte
- Offspring from Oocytes Derived from in Vitro Primordial Germ Cell–like Cells in Mice
Katsuhiko Hayashi et al, (2012) Science, 338 (6109) 971-975

- Spermatogonial Stem Cell Transplantation into Rhesus Testes Regenerates Spermatogenesis 
Producing Functional Sperm
Hermann BP et al, (2012) Cell Stem Cell, 11(5) 715-26

- Generation of eggs from mouse embryonic stem cells and induced pluripotent stem cells,
 Katsuhiko Hayashi & Mitinori Saitou, Nature Protocols (2013) 8, 1513–1524 

Tumore orofaringeo, virus e attività sessuale. Una relazione pericolosa

In una giornata di sole del 1998, Maura Gillison stava percorrendo i sentieri che attraversano il campus della Johns Hopkins University (a Baltimora nel Maryland), ma la sua mente non apprezzava il tepore della bella giornata; come capita spesso a chi fa ricerca la sua attenzione era rivolta ai dati che stavano allora emergendo dai suoi studi sul papillomavirus umano (HPV).
Maura Gillison
(oggi alla Ohio State University)
 L'HPV è un patogeno molto diffuso tra gli esseri umani tanto che praticamente ognuno di noi è venuto in contatto con uno dei 120 sottotipi che definiscono questa famiglia di virus. Un contatto magari asintomatico o dimenticato ma rilevabile anche a distanza di anni grazie al test anticorpale. Se nella stragrande maggioranza dei casi l'infezione con questi virus rappresenta un fastidio trascurabile e temporaneo (a meno di essere immunodepressi) due dei sottotipi virali (HPV-16 e -18) sono da tempo noti come potenziali carcinogeni nelle donne. Dico potenziali perchè l'infezione cronica con questi due, pur pericolosi, HPV aumenta la probabilità (non la certezza) di specifici tumori del collo dell'utero. Per spiegarmi meglio uso i dati americani forniti dal Center for Disease Control (link):
Lesioni verrucose genitali: incidenza femminile pari a circa 360 mila casi ogni anno (molto probabilmente sottostimato).
Tumore della cervice uterina: circa 10 mila donne si ammalano ogni anno (numeri molto fedeli in quanto derivati dalle ospedalizzazioni).
Questo per dire che se si interviene precocemente sulle lesioni pre-cancerose è possibile evitare le problematiche connesse, anche se l'agente infettante è il HPV-16. Tanto più che l'infezione è solo il primo passaggio, quello "facilitante", di una malattia che si manifesta a decenni di distanza dal "contatto".
Se questo pericolo era noto per le infezioni genitali molto poco si sapeva circa la correlazione tra virus e tumore alla gola, una relazione potenzialmente responsabile di decine di migliaia di casi di cancro alla gola ogni anno.
Proprio questo era ciò su cui la Gillison stava meditando. 
Una relazione (HPV-tumore orofaringeo) che sorprese in principio molti clinici dato che fino alla fine degli anni '90, la maggior parte dei casi di cancro nella parte posteriore della gola (orofaringe) era attribuita ad esposizione cronica ad alcol e tabacco (soprattutto tabacco masticato). Ma quando la casistica di pazienti "insospettabili", soggetti cioè con comportamenti improntati al salutismo - come quarantenni maratoneti - divenne non più trascurabile, allora fu chiaro che mancava un tassello e che questo era importante per capire l'incidenza del tumore in soggetti teoricamente non a rischio come i "salutisti". In effetti era la stessa prognosi diversa di tumori "simili" nelle due categorie di persone che indicava come da un punto di vista biologico, i tumori non fossero poi così simili biologicamente. Come spiegare altrimenti il fatto che i tumori orofaringei dei soggetti "salutisti" rispondevano molto meglio alla chemioterapia e alla radioterapia? Una efficacia evidente nella percentuale nettamente superiore di guarigioni (o almeno di sopravvivenza a 5 anni) nei "salutisti" con tumori HPV-positivi rispetto ai soggetti con tumori HPV-negativi, trattati ovviamente in modo identico.
Nota. L'attuale terapia standard per il tumore orofaringeo è una combinazione di cisplatino e di radiazioni. Poichè il trattamento ha vari effetti collaterali (danni alla gola e alla capacità di parlare e deglutire) i medici sono, alla luce delle conoscenze odierne, propensi a sperimentare sui pazienti HPV positivi dei dosaggi diversi che minimizzino i danni a lungo termine.
 Diversa biologia vuol dire verosimilmente diversa genesi della malattia. Anche questa una ipotesi confermata dalle analisi bioptiche che mostrano sostanziali differenze istologiche nelle biopsie positive al HPV rispetto a quelle provenienti da un fumatore con lo stesso tumore.
Quello che preoccupa è che nonostante le tendenze salutiste imperanti si assista oggi ad un aumento del numero di tumori orofaringei. Solo negli USA l'incremento di questa particolare tipologia di tumore vede 10 mila nuovi casi all'anno (la maggior parte dei quali HPV positivi) ed il numero stimato per il 2030 è intorno a 16 mila. In Europa, i tumori orofaringei HPV-positivi sono quadruplicati negli ultimi 15 anni. In Italia 1 su 3 è positivo al virus (vedi anche Adnkronos). In tutto il mondo si stima che il virus sia responsabile, nelle diverse aree, di una percentuale tra il 45% e il 90% dei tumori orofaringei!
Deve esserci allora una qualche variabile (comportamentale o ambientale) in grado di spiegare per quale motivo l'incidenza delle infezioni orali sia aumentata.

Douglas ha affermato che il
suo tumore alla gola sia stato
  "causato" dalle sue pratiche
sessuali (©wikipedia)
Per comprendere questo e spiegare l'immagine di Michael Douglas qui a fianco, riassumiamo brevemente la cronistoria degli studi che hanno portato alla completa accettazione, da parte della comunità scientifica, del coinvolgimento del HPV nei tumori orali e, a seguire del comportamento facilitante questa infezione.
Scrivevo in apertura che la Gillison si interrogava sulla esistenza di una correlazione che gli altri clinici non avevano mai preso in considerazione.
Da dove nacquero i sospetti che la indussero ad iniziare lo studio? Come spesso avviene nella scienza, un ruolo importante è nella capacità di vedere le implicazioni di una osservazione "strana" che la maggior parte dei ricercatori avrebbe scartato considerandola come una anomalia o frutto di casualità. Proprio questo avvenne nel 1996 quando un collega microbiologo alla Johns Hopkins University, Keerti Shah, mostrò alla Gillison i risultati appena ottenuti che mostravano la presenza del HPV in una biopsia di un tumore orofaringeo. 
Si trattava di un caso isolato, di una contaminazione accidentale oppure era la punta di un iceberg di qualcosa di importante? La Gillison che già studiava il virus del papilloma cercò di trovare evidenze più solide di tale coinvolgimento.
Per fare questo diede inizio ad uno studio di popolazione volto a confrontare le persone con tumore orofaringeo con gli individui sani; uno studio che in oltre sette anni ha coinvolto circa 300 partecipanti, a cui furono prelevati campioni di tessuto. Per evitare di condizionare con le proprie ipotesi il risultato dello studio, durante tutta la durata della ricerca i ricercatori coinvolti evitarono di analizzare i dati aspettando di avere reclutato un numero statisticamente sufficiente di soggetti. "La mia politica, quando si fa una analisi epidemiologica è aspettare che tutti i dati siano disponibili", afferma la Gillison, "io non credo a nulla che non sostanziato dai dati. I dati devono parlare da soli". Sante parole!
Quando nel 2005 infine iniziò l'analisi comparativa quello che emerse confermava i timori iniziali: le persone con il tumore generalmente noto come "della testa e del collo" erano positive al virus con una frequenza 15 volte maggiore rispetto ai soggetti sani. Riassumendo, circa il 25 % delle biopsie dei tumori orofaringei non solo erano positive al HPV ma erano positive anche alle due oncoproteine virali E6 ed E7.
Nota. L'HPV è un virus a DNA che codifica per 8 proteine necessarie nelle diverse fasi dell'infezione; alcune di queste (come E6 e E7) sono tra le principali responsabili della tumorigenicità. Una tumorigenicità, è bene precisare, potenziale e limitata a circa due dei 120 tipi di HPV noti: HPV-16 e -18. Come tutti i virus a DNA l'HPV si replica all'interno del nucleo sfruttando l'apparato enzimatico cellulare. Sebbene la replicazione standard sia di tipo episomale, sono stati recentemente descritti casi di integrazione genomica che potrebbero giocare un ruolo chiave nel processo di trasformazione cellulare. Il ciclo vitale, e le manifestazioni cliniche (condilomi e verruche), del HPV è da tempo descritto per quello che riguarda il tessuto epiteliale (genitale o cutaneo). L'infezione delle cellule squamose basali porta ad una iperproliferazione di cellule già "regolate per dividersi". Si tratta per il virus solo di sfruttarne l'armamentario replicativo il più possibile prima che la cellula prosegua lungo il suo percorso differenziativo - mano a mano che si sposta verso la superficie - diventando prima un cheratinocita e poi morendo ripiena di cheratina per assolvere al suo compito di protezione della cute. A questo punto il virus può fuoriuscire dalla cellula oramai inutilizzabile e "andare alla ricerca" di nuove cellule bersaglio (guardate l'animazione presente sul sito dell'università di Bristol, qui). Questo per quanto riguarda le infezioni cutanee. Molto poco però si sapeva della capacità del virus di infettare l'epitelio della mucosa orofaringea.

Una prima indicazione che la scoperta di Shah aveva un interesse clinico venne pubblicato dalla Gillison pubblicato nel 2000, ma non ebbe un particolare impatto. La comunità scientifica ritenne in gran parte che il virus identificato fosse frutto di una contaminazione accidentale e quindi eziologicamente non correlato. Nel 2007 tuttavia il campanello d'allarme generale cominciò a trillare dopo che la Gillison ebbe pubblicato i risultati dello studio settennale sulla popolazione di malati che dimostrava il legame. I risultati del 2008 dimostrarono in modo chiaro che esistevano differenze sostanziali tra i due tipi di tumore (HPV positivi e negativi) e che queste erano fortemente correlate con le attività sessuali dei pazienti: le persone con tumore HPV positivo erano quelle che avevano avuto più rapporti di sesso orale con parter diversi; al contrario mancava ogni correlazione significativa con fumo e alcol. Il contrario nelle persone con tumori HPV negativi.

E qui ci riallacciamo all'immagine di Michael Douglas in apertura. L'attore americano, reduce da una battaglia contro un tumore alla gola, fece scalpore pochi mesi fa quando dichiarò che la causa del suo tumore era stata l'attività sessuale orale da lui praticata con la sua partner (tecnica nota come cunnilingus). Un fatto che non dovrebbe sconvolgere più di tanto visto che l'infezione da HPV nell'apparato genitale femminile è un noto fattore di rischio per il tumore del collo dell'utero (oltre che per le alterazioni benigne come i condilomi o le verruche se localizzate sulla cute). E se il virus passa dall'apparato genitale femminile al cavo orale ed qui in grado di infettare le cellule della mucosa (anche se a bassa efficienza), come potremmo stupirci del risultato?
La dichiarazione di Douglas è importante in quanto serve a rendere consapevoli di un comportamento a rischio.

Tornando ai dati prodotti da Maura Gillison, più del 90 % dei tumori orofaringei HPV-positivi risultatorono associati al virus HPV-16, non a caso il ceppo notoriamente implicato nel tumore dell'utero.
Ma sappiamo anche che è da qualche anno attivo un programma di vaccinazione delle ragazze volto a ridurre drasticamente nei prossimi decenni la frequenza del tumore del collo dell'utero agendo preventivamente nel ridurre le infezioni da HPV. Due sono i vaccini autorizzati, Gardasil di Merck e Cervarix di GlaxoSmithKline. Il fatto che la vaccinazione sia raccomandata, tanto da essere fornita gratuitamente, alle ragazze prepuberi (fascia di età consigliata tra 9 e 26 anni) è direttamente correlato alla necessità di proteggerle dall'infezione sessuale ai genitali conseguente alla attività sessuale con partner infetti.

Allora forse la soluzione è già a portata di mano: estendere la vaccinazione anche ai maschi.
Non corriamo! Abbiamo un problema importante da risolvere. Dimostrare che questa vaccinazione è utile. Il che non è una paturnia precauzionale ma una vera e propria necessità (sacrosanta) imposta dalle autorità sanitarie qualora ci si proponga di estendere l'ambito di utilizzo di un qualunque farmaco ad aree non coperte dalle precedenti sperimentazioni.
Ma ottenere questi dati di efficacia non è semplice dato che a differenza del tumore della cervice uterina (dove il test non è invasivo, basta un pap-test per identificare lesioni pre-cancerose), nel caso del tumore orofaringeo le cellule tumorali sono dentro la tonsilla. Sarebbero quindi necessari follow-up alla vaccinazione altamente invasivi, come la tonsillectomia.
Cosa ovviamente improponibile.
Un altro modo? La proposta di alcuni ricercatori è di analizzare le tonsille di coloro che abbiano nel frattempo subito la tonsillectomia per ragioni non-cancerose, e usare i campioni bioptici per verificare la presenza di cellule pre-neoplastiche. Un approccio che però implicherebbe utilizzare un campione molto più ampio, dovendosi basare su eventi spontanei abbastanza infrequenti come l'infiammazione delle tonsille.

Ci sono altre domande che attendono una risposta:
  • l'infezione orale da HPV deriva solo da atti sessuali che coinvolgono il contatto tra la bocca e genitali, o anche da pratiche più frequenti come il bacio profondo?
  • perchè solo una minima percentuale di coloro che contraggono una infezione da papilloma orale si ammalano di cancro orofaringeo? Circa il 90 % di coloro che hanno contratto una infezione orale sono da considerarsi completamente guariti (sia per le lesioni che per la presenza di virus) entro i due anni dalla malattia.
  • Quale il rapporto tra HPV e altre forme di cancro?  Dato che il virus è in grado di infettare (e modificare) anche le cellule della mucosa orofaringea non è inverosimile che l'HPV sia in grado di infettare anche le cellule delle vie respiratorie profonde, come quelle polmonari, e/o quelle esofagee. Se gli studi condotti sui tumori esofagei non hanno portato a risultati conclusivi è noto che circa il 20 % dei casi di cancro al polmone negli uomini e il 50 % nelle donne si riferiscono a persone che non hanno mai fumato. I dati disponibili sono anche in questo caso incerti. Se in alcuni studi sembra esistere una correlazione significativa tra virus e tumore altri studi hanno confutato tali osservazioni, tra cui uno della stessa Gillison.
C'è ancora molto su cui lavorare, ma il segnale d'allarme non può più essere trascurato.

Nota aggiunta qualche settimana dopo la pubblicazione del post per rendere conto di un nuovo studio pubblicato sul British Medical Journal. Lo studio, una metanalisi di 125 lavori per un totale di quasi 14 mila casi di carcinoma squamoso orofaringeo, ha permesso di osservare la presenza del virus in circa il 25 per cento dei casi, la maggior parte dei quali in Asia e Africa. Una ragione in più per aumentare la guardia (JL Petrick et al, British Journal of Cancer (2014) 110, 2369–2377).


Fonti
- HPV: Sex, cancer and a virus
Nature, novembre 2013

- Prevalence of human papillomavirus in oropharyngeal and nonoropharyngeal head and neck cancer--systematic review and meta-analysis of trends by time and region.
Head Neck. 2013 May;35(5):747-55

- Evidence for a causal association between human papillomavirus and a subset of head and neck cancers
Gillison ML et al, J. Natl. Cancer Inst. (2000) 92 (9): 709–20

- Vaccino contro HPV per la prevenzione tumore del collo dell'utero
Ministero della salute

- Efficacia dei vaccini anti-HPV

Una biopsia? No, una nanobiopsia

Nanobiopsie
La possibilità di agire "manualmente" sulle singole cellule è una opzione ben nota sia a chi ha pratica di laboratorio (ad esempio con tecniche quali il FACS - Fluorescence Activated Cells Sorter) che alle tante persone che hanno sentito parlare di fertilizzazione in vitro. Una delle immagini più comuni di quest'ultima tecnica è la pipetta che tiene ferma la cellula uovo durante l'inserimento del nucleo maschile.
Ma le potenzialità e i vantaggi connessi alla manipolazione di specifiche cellule sono pressochè infinite e, cosa più importante, non relegati ad una scienza futuribile o alle stramberie di qualche scienziato pazzo.
Pensiamo alla possibilità di separare in modo specifico le cellule tumorali da un tessuto in cui la maggior parte sono cellule normali, o meglio ancora di identificare e separare all'interno di una massa tumorale le cosiddette CSC (cellule staminali cancerose), cellule che sebbene presenti in bassissima percentuale sono le vere responsabili della proliferazione tumorale. Isolare queste cellule e studiarne la genetica e la biochimica è il vero modo per sviluppare terapie assolutamente mirate alla sorgente della malattia e non più ai suoi epifenomeni.
Da una nanobiopsia al sequenziamento (©actis et al / ACSNano)

Ma esistono potenzialità ancora più interessanti associate allo sviluppo di tecniche di micromanipolazione. Ad esempio è la possibilità di prelevare una parte del contenuto della cellula senza per questo distruggerla. Un approccio questo particolarmente utile nella ricerca in quanto permette, ad esempio, di monitorare l'evolversi di alterazioni biochimiche o dell'espressione genetica.
Un metodo sviluppato recentemente potrebbe rispondere a queste esigenze.

La nanopipetta in azione (©actis et al / ACSNano)
In sintesi si tratta di una nanopipetta di vetro manovrata da un computer, in grado di agganciare una cellula ed estrarre un volume pari a 50 femtolitri, pari a circa l'uno per cento del volume cellulare, grazie al diametro del canale pari a 100 nanometri.
La tecnica, nata dalla collaborazione tra l'Imperial College di Londra e la University of California - Santa Cruz, è stata finora utilizzata per estrarre singoli mitocondri o analizzare l'espressione di specifici RNA.
Obiettivo prioritario ora è quello di renderla ancora più versatile grazie a dei sensori posti all'estremità della pipetta, in modo da ottenere misurazioni istantanee delle molecole bersaglio.

Fonti
-  Compartmental Genomics in Living Cells Revealed by Single-Cell Nanobiopsy
 Paolo Actis et al, ACS Nano, (2014) 8 (1) -  PDF
-  "Nanobiopsy" allows scientists to operate on living cells 
Imperial College London, news

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