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Glaucoma. Sensori intraoculari del prossimo futuro

Glaucoma. Sensori intraoculari del prossimo futuro
La via per sviluppare una terapia efficace risiede in una misurazione affidabile della pressione intraoculare

Per i tanti malati di glaucoma la lotta quotidiana per tenere lontano il più possibile lo spettro della cecità comporta visite settimanali dall'oculista per misurare la pressione intraoculare.
Nota. Il glaucoma è una malattia oculare dovuta nella maggior parte dei casi a un aumento della pressione intraoculare (IOP) che sul lungo periodo porta alla morte delle cellule della retina e alla degenerazione  delle fibre del nervo ottico. 

Il sensore di pressione oculare (Photos: Stanford/Quake Lab)

Sebbene non sia ancora ben chiaro il meccanismo che collega la aumentata pressione oculare con il danno retinico e nervoso, questa correlazione è un dato di fatto accettato dalla comunità medica. 

Ad oggi la riduzione della pressione intraoculare a livelli normali è l'unico trattamento disponibile. Potrà sembrare banale ma il primo passo per normalizzare la IOP è ... capire che vi è un problema in tal senso dato che i danni si vanno accumulando durante una fase di lunghezza variabile e caratterizzata da sostanziale asintomaticità. In questo senso il problema è duplice: non precisione delle misurazioni di pressione e variazione dello stato nei diversi momenti della giornata. Esattamente come avvienc con la pressione sanguigna, la  IOP può variare non solo su base giornaliera ma anche ora per ora; può essere influenzata da altri farmaci, dalla postura del corpo o anche da una cravatta troppo stretta.
Se il paziente viene monitorato in una giornata "buona", i valori ottenuti indurranno una pericolosa sottostima della gravità della malattia, influenzando così negativamente le terapie adottate.
Per superare questo problema si è pensato ad un approccio simile a quello sviluppato per i diabetici, cioè strumenti in grado di monitorare quasi in continuo la glicemia e che ha permesso di sviluppare sistemi di somministrazione dell'insulina calibrati sull'effettivo bisogno.

L'impianto oculare prodotto è il risultato di questo bisogno; si tratta di uno strumento sviluppato nell'ambito di una collaborazione tra Stephen Quake, professore di bioingegneria e di fisica applicata a Stanford, e Yossi Mandel, oculista presso la Bar-Ilan University in Israele.
Il sensore (testato in modelli animali) è costituito da un piccolo tubo, una estremità del quale è aperta ai fluidi che riempiono l'occhio mentre l'altra estremità è tappata da un microbulbo riempito di gas. Quando la IOP aumenta, il fluido intraoculare viene spinto nel tubo il che porta ad una compressione del gas e alla resistenza al flusso.
Il grosso vantaggio di questo strumento è che la variazione potrebbe teoricamente essere rilevata anche mediante una app personalizzata installata sullo smartphone o mediante tecnologie indossabili come i Google Glass. I dati ottenuti in un dato arco di tempo sarebbero così disponibili al medico che potrebbe predisporre eventuali variazioni terapeutiche prima ancora che il paziente si rechi da lui per la visita periodica.
Quanto questo sia importante è emerso da studi recenti che hanno mostrato come l'analisi continuativa della IOP nell'arco di 24 ore è sufficiente a spingere ad un cambiamento della terapia prescritta nell'80% dei pazienti testati. Il che equivale a dire che le terapie finora utilizzate sono troppo spesso non adeguate al reale profilo di rischio.

E' chiaro che per passare dagli attuali modelli animali alla sperimentazione umana saranno necessari molti altri test di tollerabilità e di efficacia. Il prototipo è stato progettato per adattarsi all'interno di una protesi standard di lente intraoculare che potrebbe essere impiantata in contemporanea alla operazione della cataratta, un intervento comune nei soggetti con glaucoma.
Un ulteriore vantaggio dell'impianto appena sviluppato è che non solo è utile per misurare la IOP ma è estremamente ben tollerato e per di più non altera la qualità visiva.

L'idea per i prossimi modelli (prima di arrivare alla sperimentazione clinica) è quella di minimizzarne ulteriormente l'impatto sviluppando un impianto impiantabile senza dovere fare ricorso alla chirurgia. Meno rischi e meno fastidi per i pazienti.

Altra cosa da fare prima di iniziare i test su uomo è re-ingegnerizzare il dispositivo con materiali di lunga durata, resistenti e totalmente anallergici. Un compito apparentemente non così complesso dato che gli autori dell'articolo affermano che i test su uomo potrebbero cominciare già tra 1-2 anni.


(articolo precedente sul tema "visione" quiqui o cliccando il tag corrispondente nel pannello a destra).

Fonte
- Eye implant developed at Stanford could lead to better glaucoma treatments
 Stanford University, news (25 agosto, 2014)

Il New York Times scrive "e se Ebola mutasse diventando trasmissibile come l'influenza?"

Il New York Times scrive "e se Ebola mutasse e acquisisse la capacità di trasmettersi per via aerea come il virus dell'influenza?"
(Articolo precedente sul tema "mutazioni in Ebola" (--> QUI) e sull'inizio delle terapie sperimentali (-> QUI))
(se invece siete interessati alla domanda: "il contatto con la pelle può causare la malattia" ->QUI)


La vicenda Ebola è sempre al centro dell'attenzione dei media, e non a torto data l'importanza del fenomeno.
Virus Ebola (©wikipedia)
 Non perché Ebola rappresenta una minaccia immediata su larga scala ma perché è la cartina di tornasole delle problematiche epidemiologiche legate alla globalizzazione delle vie di comunicazione. Una globalizzazione che ha di fatto abbattuto le barriere naturali alla diffusione di microorganismi e parassiti in generale e che impone una redifinizione dei meccanismi di controllo per evitare l'importazione di malattie sconosciute o da noi da tempo debellate.

Come ho scritto in un precedente articolo Ebola ha un aspetto "positivo" rispetto ad altre malattie: ha una incubazione e un decorso veloce (non passa inosservata quindi); non sono noti portatori sani; il serbatoio naturale (ancora non noto) è nelle foreste equatoriali dell'Africa, in zone a bassa densità umana. Tutti fattori questi che hanno bloccato per secoli la diffusione del virus al di fuori delle foreste, con focolai limitati nel tempo e che si autoestinguevano molte velocemente.

Nel primo paragrafo ho scritto "al centro dell'attenzione" ma ad essere sinceri l'attenzione è più forte sui media internazionali. I media italiani, passato il picco di interesse della notizia, sono tornati rapidamente ad occuparsi di notizie politiche e di intrecci bizantino-gattopardeschi, tratti tipici di una società incapace di cambiare. Ma tant'è... .

Ripresa ad alta velocità dell'aerosol
associato ad uno starnuto
(Courtesy of virology.ws)
Un articolo interessante sull'argomento Ebola è apparso sul New York Times dell'11 settembre, firmato da Michael Osterholm, direttore del Center for Infectious Disease Research and Policy dell'università del Minnesota. Il titolo dell'articolo è inquietante: "Cosa non abbiamo paura di dire sul virus Ebola" ("What we are not afraid to say about Ebola virus").
Perché inquietante? Perché lo scienziato si pone una domanda da incubo "che cosa succederebbe se le mutazioni che si vanno accumulando nel virus lo rendessero capace di trasmettersi per via aerea?".
Ricordo che al momento il virus si trasmette unicamente attraverso il contatto, una modalità che ha reso di fatto l'epidemia "più controllabile" rispetto a quanto avvenne per la SARS con un virus in grado di passare tra un piano e l'altro di un albergo attraverso le prese d'areazione dei bagni (vedi la ricostruzione della diffusione del virus della SARS fatta a posteriori dall'OMS e qui). Un virus estremamente "diffusivo" tanto  è vero che il virus influenzale H1N1 comparve la prima volta in Messico e da li si diffuse rapidamente in Asia.
Lo scenario è indubbiamente inquietante ma NON è sostanziato da evidenze; si tratta solo di una ipotesi scientifica, posta da Osterholm per incentivare la discussione sul "come affrontare uno scenario peggiore".

Si tratta veramente di uno scenario fantascientifico oppure bisogna seriamente discutere di questa possibilità?
Per farlo bisogna leggere l'articolo in originale (qui) e analizzarne i punti salienti. Partiamo dalla parte dell'articolo in cui l'autore discute delle mutazioni in atto su Ebola:
But viruses like Ebola are notoriously sloppy in replicating, meaning the virus entering one person may be genetically different from the virus entering the next. The current Ebola virus’s hyper-evolution is unprecedented; there has been more human-to-human transmission in the past four months than most likely occurred in the last 500 to 1,000 years.
Quando un virus entra in una cellula, comincia a fare l'unica cosa "biologicamente sensata": fare copie del proprio patrimonio genetico (sia esso DNA o RNA) che verranno poi inglobate in nuove particelle virali da diffondere all'esterno.

Ebola è un virus a RNA, e questo è notoriamente associato ad una minore fedeltà nel processo di copiatura, il che equivale a dire che le copie conterranno più errori di trascrizione rispetto a quelle osservabili in un virus a DNA.
Per inciso la frequenza di errore nei virus è molto maggiore a quella "consentita" ad una cellula eucariote, dotata di meccanismi di controllo su più livelle della replicazione del DNA. Il risultato è che il tasso di errore in una cellula di mammifero è inferiore a 1 mutazione ogni 10 miliardi di basi copiate.
A differenza della DNA polimerasi, RNA polimerasi (o la trascrittasi inversa nel caso dei retrovirus), cioè l'enzima che usa l'RNA come stampo, è privo dei meccanismi di correzione e aumenta notevolmente il tasso di mutazione. Pur non essendo il virus Ebola un virus più soggetto a mutazioni rispetto ad altri virus a RNA, la frequenza di errore è superiore a 1 base ogni 20 mila, il che vuol dire 1-2 errori per ogni particella virale che viene prodotta.
Attenzione però. Mutazione non vuol dire evento che genera vantaggio ma modifica che può essere positiva, negativa o neutra. Nella stragrande maggioranza dei casi le mutazioni (in generale e quindi anche per un virus) o deleterie o neutre; di conseguenza le mutazioni scompariranno velocemente dalla popolazione o rimarranno presenti a livelli molto bassi, rispettivamente. E' vero però che un virus produce migliaia di particelle ad ogni ciclo e tanto più sono le cellule infettate, tanto maggiore è la probabilità che una mutazione "vantaggiosa" per il virus compaia.
Esistono zone del genoma virale in cui è più facile andare a cercare le mutazioni? Non è una cosa semplice da prevedere dato che per raggiungere un obiettivo biologicamente importante (riprodursi al meglio possibile) possono essere percorse molteplici vie. In linea di massima ci sono geni che sono più "adatti" ad essere mutati in modo "utile": tra questi le proteine del rivestimento virale essendo tra le molecole chiave per l'infezione e sono i bersagli privilegiati del sistema immunitario.
Anche il virus dell'influenza è un virus a RNA e questo spiega (sebbene in questo caso vi sia un fattore che aumenta notevolmente la frequenza dei mutanti, cioè la suddivisione dell genoma in più filamenti di RNA e la conseguente possibilità di riassortimento) perché sia necessario vaccinarsi ogni anno contro il nuovo ceppo influenzale e perché di tanto in tanto compaiano delle pandemie (il virus ha fatto un "salto" differenziativo che rende le difese immunitare "vetuste").
Va da sé che tanto in termini generali, tanto più sono i soggetti infettati, maggiori saranno i mutanti che compariranno, maggiore è la selezione di ceppi in grado di infettare e di riprodursi in modo ottimale.

Tuttavia l'affermazione di Osterholm sul fatto che l'evoluzione del virus Ebola è "senza precedenti" non è corretta. Questa affermazione è infatti viziata dal fatto che l'infezione su uomo è nota da pochi anni (dal 1976) e quindi i dati "storici" sono assai limitati; è più che probabile che il virus abbia infettato molte persone nei millenni passati ma di questo mancano informazioni da cui estrarre dati di interesse biologico.
L'infezione di Ebola su essere umano è un caso ben diverso rispetto a quanto avvenuto con il virus HIV. L'HIV è innegabilmente un virus "nuovo" per l'uomo essendo diventato capace di infettarlo molto recentemente. Le mutazioni che hanno permesso al virus di saltare dal suo ospite naturale (a cui era perfettamente adattato e non causa gravi patologie), la scimmia, a uomo viene fatta risalire a due eventi separati (che hanno poi originato i ceppi HIV-1 e HIV-2), probabilmente nella prima metà del '900 (per ulteriori informazioni vedi "gorilla, scimpanzé e origine HIV".
Nel caso di Ebola le scimmie sono esattamente sensibili come noi al virus e quindi non si tratta di un adattamento recente tra ospiti simili; si tratta invece di infezioni saltuarie (dato che sono letali) legate al contatto di uomo o scimmia con lo sconosciuto ospite naturale del virus (una ipotesi è che si tratti di pipistrelli, o dei loro rifiuti organici).
credit: americaninfomaps / WHO / USCDCP


Data la premessa è più che probabile che il virus esista in natura da milioni di anni e che abbia instaurato un equilibrio con il suo ospite naturale, mentre noi siamo "un accidente non previsto per il virus". Un "accidente" a cui il virus può reagire o adattandosi, cioè diventando sempre più abile ad usare il macchinario delle cellule umane, o scomparire, se non ha il tempo per adattarsi.

La differenza nel rapporto infettivo tra un virus e il suo ospite naturale rispetto a quella con un ospite "saltuario" è che nel primo caso si osserva un certo equilibrio tra infezione e risposta. In breve il rapporto virus/ospite è il risultato di un adattamento reciproco in cui l'ospite ha imparato a difendersi dal virus e il virus sfrutta al meglio il suo ospite; il che equivale a dire che il virus infetta ma non uccide il suo ospite, anzi nella stragrande maggioranza dei casi i disturbi che arreca sono assolutamente trascurabili.
Ricordo ancora un concetto chiave: il virus migliore in assoluto è quello che non uccide la cellula (e tantomeno l'ospite) dato che questo implicherebbe la sua stessa scomparsa.
Un virus ben adattato con il suo ospite naturale è il risultato di migliaia di anni di coevoluzione; un tempo sufficiente per accumulare ogni sorta di mutazione "vantaggiosa".

Il tempo c'è stato eppure come vedremo non si è mai verificato un cambiamento radicale. Si tratta di cambiamenti continui che premiano le mutazioni che rendono il virus "invisibile" al sistema immunitario. Mutazioni che perdono velocemente di utilità quando il sistema immunitario dell'ospite si adatta, in un eterno confronto di azione e reazione.

Quest'ultimo punto apre il discorso sull'altra, e più inquientante, possibilità evocata da Osterholm; l'ipotesi che la mutazione del virus Ebola possa originare ceppi in grado di diffondersi per via aerea:
If certain mutations occurred, it would mean that just breathing would put one at risk of contracting Ebola. Infections could spread quickly to every part of the globe, as the H1N1 influenza virus did in 2009, after its birth in Mexico.
La frase chiave è "certain mutation" ("alcune mutazioni"). Di fatto noi non sappiamo quante mutazioni e in quale gene(i) sono necessarie per rendere il virus "aereo"; un elemento teorico di per se poco conosciuto dato che solo recentemente si è cominciato a studiare cosa renda un virus capace di diffondersi per via aerea piuttosto che attraverso i fluidi corporei.
Non è sufficiente infatti confrontare tra loro virus capaci (es. H1N1) con virus incapaci di farlo (es. HIV); si tratta di virus troppo diversi tra loro (anche se sono virus a RNA) per potere pensare di trarre conclusioni significative.

C'è un modo teorico per studiare come avvenga questa transizione ed è stato testato non molti anni fa.
E' stato sufficiente studiare un virus come il famigerato H5N1, non i grado di infettare attraverso le particelle di aerosol. L'esperimento, fatto in condizioni di alta sicurezza sui furetti, doveva testare se fosse possibile, attraverso la selezione continua dei virus, ottenere dei ceppi virali trasmissibili per "via aerea". Se questo si fosse dimostrato vero in laboratorio allora si trattava di un evento possibile (su tempi più lunghi) anche in natura, purché vi fossero le condizioni che favorivano tale "evoluzione".
Nota. Selezionare qui non equivale a modificare geneticamente in modo attivo ma semplicemente di isolare all'interno della popolazione il ceppo dotato di una certa caratteristica. Esattamente quello che avviene in natura ma accelerato.
L'esperimento, compiuto anni fa da Fouchier e Kawaoka, dimostrò che diverse "strade mutazionali" potevano indurre lo stesso risultato e che queste "strade" erano molto diverse tra loro Per capirci, lo stesso effetto si otteneva grazie a combinazioni diverse di mutazioni (su uno o più geni e con sostituzioni diverse).
L'approccio usato da Fouchier e Kawaoka venne accolto da pesanti critiche, tra cui quella dello stesso Osterholm, che lo riteneva troppo pericoloso anche solo potenzialmente.
Comunque sia, questo esperimento permise di ottenere molti dati importanti, tra i quali quello che il virus una volta acquisita la capacità di diffondersi per via aerea (e di infettare) diventava di fatto innocuo: nessun ceppo era più in grado di generare una infezione letale nei furetti.

Il messaggio era chiaro: guadagnare una funzione (trasmissione per via aerea) si accompagna alla perdita di una funzione (virulenza).

E' vero però che quando parliamo di virus, le previsioni su cosa possono o non possono fare sono sempre difficili. Molto più utile e guardare come si sono comportati in passato e da li trarre insegnamenti.

La domanda corretta che dobbiamo porci è: c'è mai stato un virus umano che abbia cambiato il modo di trasmettersi? La risposta è no. Sono passati circa 100 anni da quando i virus (e le malattie associate) sono diventate oggetto di studio e non si MAI visto un virus umano cambiare la modalità di trasmissione.

Ancora una volta è l'HIV a farci da guida: sono più di 50 anni che il virus si è diffuso ed ha infettato milioni di persone eppure continua ad essere trasmesso nella vecchia (e poco efficiente) modalità del contatto "intimo" mediato da fluidi corporei.
Un altro esempio è il virus dell'epatite C che ha subito un impennata di casi dagli anni '80, eppure anche lui è confinato alle stesse modalità di trasmissione dell'HIV solo che è molto più resistente a stress ambientali (cioè al di fuori del corpo) rispetto al labile HIV.
Il caso del virus dell'influenza (e di altri che si trasmettono per via aerea) non è di fatto utilizzabile in quanto già si avvale della modalità di trasmissione a maggiore impatto tra quelle possibili.

Non c'è quindi ragione di credere che il virus Ebola sia diverso dai suoi simili e abbia la capacità di cambiare la modalità di trasmissione. Questo NON vuol dire che l'ipotesi sia da escludere ma che è estremamente improbabile che ciò possa avvenire.
Se una ipotesi è scarsamente probabile, non dovrebbe diventare il pretesto per titoli di giornale con cui spaventare le persone non addette ai lavori.

Dobbiamo concentrarci su come fermare l'epidemia, di per sé un lavoro enorme (QUI per l'inizio delle terapie sperimentali) ed evitare che malattie che credevamo di avere sconfitto ricompaiano alla nostra porta non riconosciute.

Segue una simulazione di quanto sia molto più "facile" invece la diffusione dell'influenza (NON di Ebola che NON si trasmette per via respiratoria). Video dal CdS
 



(Articolo successivo su Ebola --> QUI)

Fonte
- What we are not afraid to say about Ebola virus
 Michael T. Osterholm, New York Times, 11 settembre 2014
- Airborne Transmission of Influenza A/H5N1 Virus Between Ferrets
Sander Herfst et al, Science (2012): 336  (6088) 1534-1541

Al via le terapie sperimentali contro Ebola

 Al via le terapie sperimentali contro Ebola
 (articolo precedente sull'argomento Ebola ---> QUI)
 
Su come affrontare l'epidemia di Ebola prima che il virus diffonda in modo incontrollato, le idee sono tante e spesso confuse.
Come scritto in precedenza Ebola è un virus endemico in alcune aree dell'Africa ma che non ha mai rappresentato un problema reale per le popolazioni locali, figuriamoci per quelle lontane. Il motivo è che il passaggio in uomo o in altri primati è assolutamente saltuario e si auto-estingue in poco tempo data la velocità e la letalità dell'infezione. Il che è un bene (tranne ovviamente per lo sfortunato di turno) dato che impedisce il diffondersi della malattia.
Personale sanitario che avvia alla distruzione gli indumenti contaminati (®Nature)
Una limitazione naturale che è stata superata grazie alla crescente urbanizzazione e alla velocità consentita dal trasporto aereo. Se a questo si aggiunge una catena di controllo non in grado di fare da filtro negli aeroporti di partenza, allora ecco che ci troviamo con una serie di allarmi di persone atterrate in Europa e messe in isolamento. I due casi più recenti sono quelli di Istanbul e di Ancona, casi che fortunatamente si sono rivelati dei falsi allarmi. O meglio falsi per Ebola dato che i soggetti sbarcati avevano contratto altre malattie (nel caso della donna nigeriana di Ancona si tratta di malaria).
Un pericolo scampato dato che la eventuale positività del soggetto avrebbe imposto il monitoraggio anche degli altri passeggeri (un centinaio di persone) come minimo. Ma questo solo nel caso "migliore", cioè quello di un soggetto sintomatico durante il transito nell'area arrivi. Se i sintomi dovessero comparire quando già si trova a casa, è chiaro che il numero di persone da monitorare aumenta esponenzialmente (infatti la stessa cosa vale per gli altri passeggeri).
Di fronte a scenari simili l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO) ha cominciato a formulare piani di intervento e di contenimento, aprendo anche la strada a trattamenti sperimentali su corsie preferenziali. Trattamenti che come ho descritto in un precedente articolo necessitano di iter sperimentali lunghi.
Perché lo sviluppo di terapie contro malattie infettive acute non segue la logica hollywoodiana  vista in film tipo "Virus Letale" dove "basta aspettare la prima guarigione spontanea per usare il siero del sopravvissuto come vaccino naturale". Anche perché il vaccino così ottenuto (in quantità limitate) non fornisce una immunità sul medio periodo dato che non è in grado di stimolare la formazione di linfociti B o T di memoria. Va bene per un trattamento di emergenza ma non per prevenire nuove infezioni dopo qualche settimana dal trattamento.

Diversi sono i trattamenti testati in laboratorio, nessuno dei quali ovviamente è mai stato testato sull'uomo. In condizioni normali nessuno di essi potrebbe essere usato data la assenza del profilo di efficacia e rischio associato; ma in casi estremi anche i rimedi lo sono e quindi l'OMS ha autorizzato il trattamento (l'alternativa è nessun trattamento!) purché i dati ottenuti fossero condivisi in continuo e usati per una analisi in tempo reale.

Il 5 settembre scorso al termine di una riunione di due giorni si è anche cominciato a fare piani di intervento più concreti. L'OMS stima che circa 3.700 persone sono state infettate in Africa occidentale nelle ultime settimane, 1.850 delle quali sono morte. Se dovesse arrivare nelle grandi città africane le precarie strutture esistenti verosimilmente collasserebbero provocando un aumento esponenziale dei casi.
Casi registrati di Ebola (http://healthmap.org/ebola/)

Tra i rimedi proposti vi è appunto quello di utilizzare il siero prelevato dai sopravvissuti; un modo questo per usare gli anticorpi "vincitori" della battaglia con il virus, come se fossero dei veterani super-addestrati da inviare sul campo di battaglia rappresentato dall'infezione ancora in atto in altri soggetti.
Una idea rilanciata da Marie-Paule Kieny, assistente direttore generale per i sistemi sanitari e l'innovazione, che ha detto che la trasfusione di sangue intero o siero purificato da sopravvissuti Ebola è il trattamento più facilmente implementabile su larga scala rispetto a testare e a produrre farmaci a sufficienza (sempre che funzionino ovviamente).
Il vero problema è che al momento non ci sono indicazioni comprovate sull'efficacia di questo trattamento. Nel senso che teoricamente funziona ma in pratica? 
Il siero anti-vipera o l'anti-rabica funzionano sullo stesso principio e sono utili ma potenzialmente molto pericolosi a causa di eventuali reazioni di rigetto (si tratta di anticorpi di origine animale). Vengono quindi usati solo in caso animale di rischio infettivo molto alto (morso da animale malato o non rintracciabile nel caso della rabbia) o di aggravamento delle condizioni del soggetto morsicato (nel caso del morso di vipera).
Utilizzare il siero prelevato da soggetti guariti da Ebola espone ad un altro rischio. Il più ovvio è quello di curare da una parte (sempre che funzioni) e di infettare il ricevente dall'altra con una delle tante malattie endemiche di quelle aree zona (HIV e epatite solo per nominarne due). Se infatti isolare il siero e trasfonderlo in un malato è cosa fattibile anche in zone con presidi sanitari limitati, fare test diagnostici ad ampio del sangue spettro è qualcosa di complicato.
I punti interrogativi sono quindi molti.

Sempre nel corso della riunione gli esperti hanno indicato come priorità l'ottenere i dati di efficacia sul campo da due vaccini
  • uno ottenuto da scimpanzé e basato su un vettore adenovirale (ChAd3 - prodotto dall'National Institute of Allergy and Infectious Diseases-NIAID e dalla GlaxoSmithKline); 
  • il secondo derivato dal comune virus della stomatite vescicolare (rVSV), opportunamente modificato, sviluppato dalla Agenzia di sanità pubblica del Canada.
Entrambi i vaccini funzionano molto bene in scimmia e forniscono una protezione del 100% contro Ebola. Ricordo che a differenza dell'HIV, Ebola è egualmente letale in scimmia; un dato non sorprendente dato che questo virus non ha le scimmie come serbatoio naturale.

La grossa incognita ovviamente è se i vaccini funzioneranno altrettanto bene in uomo; i test di fase-I su volontari sani sono previsti per questo mese e saranno condotti sia negli USA che nelle zone africane colpite. 
Due le domande chiave: è sicuro? E' in grado di attivare la risposta immunitaria anche in essere umano?

Non troppo diversa la situazione tra i farmaci (vedi figura riassuntiva). I trattamenti più promettenti sono già in corsia preferenziale per i test. Tra questi lo ZMapp, un cocktail di anticorpi monoclonali sviluppati da Mapp Biopharmaceutical (San Diego-California), per il quale sono da poco disponibili dati che indicano una protezione al 100% nei macachi.
Vale la pena spendere due parole su come è stata indotta la risposta immunitaria necessaria per la produzione di questi anticorpi. I topi sono infettati con il virus della stomatite vescicolare (VSV), ingegnerizzato per esprimere una delle proteina esposte di Ebola al posto di una delle glicoproteine del VSV. Non si trattava quindi di un virus nemmeno minimamente pericoloso né all'origine né dopo la modifica. La risposta immunitaria contro l'intruso ha generato un certo numero di anticorpi, alcuni dei quali specifici per la proteina di Ebola. Gli anticorpi purificati sono stati usati come ingredienti base per produrre lo Zmapp. Una delle grosse limitazioni del farmaco è che il bersaglio è una proteina la cui sequenza varia, più o meno considerevolmente, nei vari serotipi di Ebola. Nel dettaglio il grado di conservazione tra il ceppo responsabile della crisi attuale e gli altri noti è pari al 65% (Bundibugyo v.), 64% (Tai Forest D’Ivoire v.), 54% (Sudan v.) e 57% (Reston v.). Il farmaco nell'attuale formulazione è verosimilmente poco o nulla efficace sugli altri ceppi di Ebola. Vedi QUI per altri dettagli sulla famiglia Ebola.
Per il farmaco BCX4430 vedere qui

Il finanziamento messo in campo dagli USA è di 42 milioni dollari per i test e lo sviluppo su larga scala.
Secondo i dati dell'OMS sono necessari 490 milioni dollari per sostenere misure di sanità pubblica di base e la qualità delle cure nei centri di prima linea per il trattamento di Ebola.

Una domanda sorge spontanea. Come mai i ricchi paesi del Golfo, ma anche la Cina e la Russia (tutte con enormi eccessi di cassa e sempre più protese ad occupare lo scacchiere geopolitic) non forniscono supporti economici e scientifici e lasciano come al solito il fardello sulle spalle americane?

(16/9/2014). La Cina ha inviato un centinaio di medici nella regione per studiare il fenomeno. Una buona notizia. Mancano all'appello i paesi del Golfo, ma questo non stupisce.
*** Aggiornamento 01/2016 ***
Il primo studio clinico volto a testare l'efficacia delle trasfusioni di plasma "immunizzato" come protezione dall'infezione (e dalle complicanze) del virus Ebola, è fallito. Nessun miglioramento nelle statistiche di sopravvivenza. Val la pena precisare che si tratta di uno studio preliminare e che non esclude in toto l'efficacia terapeutica previa modificazione del protocollo; tuttavia non lascia ben sperare (Nature 10.1038/nature.2016.19124).



(articolo successivo sul tema Ebola ----> QUI)


Fonti
- Blood transfusion named as priority treatment for Ebola
Declan Butler, Nature/news  05 September 2014
- Mapping the zoonotic niche of Ebola virus disease in Africa
eLIFE ( 2014) ;10.7554/eLife.04395 (pdf)
-  Risk of Ebola emergence mapped
Oxford University, News (8 settembre 2014)


Le mutazioni di Ebola durante le epidemia permettono di ricostruirne il percorso

Il 24 maggio, Augustine Goba, responsabile del laboratorio di diagnostica al Kenema Government Hospital in Sierra Leone, riceve un campione di sangue prelevato da una donna incinta ammalatasi dopo aver partecipato al funerale di una vittima Ebola in Guinea.
Ventiquattro ore più tardi, i risultati del test sono pronti e confermano che si tratta del primo caso di Ebola nel paese.
Nota. Un esempio di come la diffusione segua logiche in gran parte prevenibili. Perché permettere un funerale pubblico per una persona morta di una malattia infettiva ad alta letalità?
Dopo il primo caso, altri sono seguiti e il team del dottor Goba è riuscito, a rischio della propria vita, a raccogliere materiale sufficiente per caratterizzare il genoma di 99 virus prelevati da 78 pazienti nei primi 24 giorni di epidemia. 
I dati ottenuti costituiscono la più grande raccolta di informazioni genetiche su Ebola e per questo motivo l'articolo ha avuto l'onore di essere pubblicato sulla rivista Science. Senza questi, sviluppare test diagnostici adeguati e, su tempi più lunghi, terapie sarebbe molto più problematico.

L'epidemia di Ebola in Africa occidentale ha già ucciso più di 1.400 persone - tra cui cinque dei co-autori dell'articolo. A loro Goba ha dedicato questo pubblicazione.

Operatori sanitari nelle aree di infezione in Sierra Leone
 Proprio per la estrema pericolosità del virus, prelevare e maneggiare i campioni biologici è stato il vero collo di bottiglia dell'operazione. In altre parti del mondo (e non sono tante quelle abilitate) si sarebbe usata una camera di protezione di classe 4 (detta BL4), l'unica abilitata alla manipolazione di patogeni ad alta infettività e morbilità. In Sierra Leone si è dovuto fare di necessità virtù, minimizzare il rischio attraverso la disattivazione del virus mediante una soluzione chimica. Il campione contenente un virus integro ma non più funzionante è stato quindi spedito al Broad Institute di Cambridge in Massachusetts, dove l'analisi genomica è stata condotta in tempi molto brevi e in totale sicurezza. Ciascuno dei campioni ricevuti è stato analizzato con una ridondanza superiore alle centinaia di volte in modo da massimizzare la sensibilità ed essere in grado di rilevare rarissimi mutanti virali; uno screening molto utile per seguire l'evoluzione del virus mano a mano che si diffondeva.
Nota. Già in un precedente articolo ho ricordato che le infezioni più pericolose sono quelle causate da patogeni "nuovi"; non nel senso letterale del termine ma come microbi che non hanno nell'essere umano il bersaglio naturale. L'ospite naturale di solito sperimenta sintomi trascurabili, risultato di un equilibrio tra attacco e difesa successivo alle migliaia e migliaia di generazioni che sono intercorse dal "primo contatto". Il miglior virus è quello che uccide la cellula che lo ospita. Senza la cellula il virus non ha "vita propria" ed è completamente inerte. Un virus in grado di nascondersi efficacemente nell'organismo dando luogo ad una infezione cronica (e asintomatica) è in grado di produrre progenie per un tempo indefinito. Un virus che provoca la morte della cellula (e dell'organismo) ha davanti a se un tempo molto limitato. Dall'altra parte l'organismo ospite più "armato" per resistere al confronto con il virus è quello che riesce a neutralizzarlo o semplicemente blocca la sua diffusione ai minimi termini (o del tutto).
 Nel passaggio casuale tra l'ospite naturale (ad esempio un roditore o una scimmia) e un organismo parzialmente permissivo si assistono a due fasi. Nella prima si ha che un virus mutante (o che incontra un soggetto geneticamente permissivo) riesce ad entrare e a riprodursi in cellule "nuove" riuscendo a dirottare il suo apparato replicativo. Nella seconda fase, tra la progenie virale prodotta  inizia la selezione di virus sempre più adatti a questa nuova cellula. Un processo che favorisce la comparsa di ceppi sempre più virulenti. L'organismo ospite non è ugualmente veloce dato che ogni volta che produce un anticorpo efficace, il virus controbatte con un mutante.
Il passaggio tra ospite permissivo e non malato ad ospite parzialmente permissivo e malato è riassunto dall'evoluzione dell'HIV con il passaggio da scimmia a uomo, ed è quello che avviene ora con Ebola. Con alcune grosse differenze: Ebola è acutamente letale, non si conosce l'animale che in natura funziona da serbatoio naturale (anche le scimmie sono uccise dal virus) ed ha un tempo di incubazione molto breve.
Dal confronto tra i dati genomici del ceppo originario isolato in Guinea e i discendenti isolati dal dottor Goba si è riusciti a ricostruire il percorso del virus: 
  • portato in Sierra Leone da 12 tra le persone che hanno partecipato al funerale in Guinea, 
  • l'epidemia ora in atto è originata da un unico virus passato da animale al malcapitato di turno, il cosiddetto paziente zero.
Per quanto scritto sopra è chiaro che il virus dell'attuale epidemia non è un discendente delle precedenti epidemie (l'ultima seria è stata 10 anni fa). Deceduto l'ultimo paziente ammalatosi il virus "umanizzato" viene di fatto cancellato e si è dovuto attendere un nuovo passaggio animale-uomo. Il confronto tra il DNA odierno e quello isolato nella precedente epidemia mostra 395 differenze (mutazioni). Nel primo mese dalla nuova epidemia sono comparse 50 nuove mutazioni, nessuna delle quali, apparentemente, è di per se sufficiente a spiegare la anomala diffusione attuale. Non si è assistito in altre parole ad una aumentata infettività o letalità anche se è bene ricordare che entrambi i parametri sono già di loro notevolmente alte; verosimilmente si tratta di mutazioni risultanti da fenomeni di deriva genetica.
Tra i dati osservati vi è che le mutazioni accumulatesi non sembrano avere alterato negativamente (per noi) la sensibilità del virus ai farmaci. Il che è in un certo senso atteso dato che la comparsa di virus resistenti è solitamente associata alla esistenza di una terapia, meglio ancora se non risolutiva. Sulla falsariga di quanto avviene con le terapie attuali contro l'HIV che non permettono la sua eradicazione ma si agisce bloccandone la proliferazione; se il trattamento è discontinuo il virus può riaffacciarsi ed è in questo momento che compaiono i ceppi resistenti. Nel caso di Ebola non ci sono dati dell'efficacia di farmaci sperimentali su esseri umani e quindi non c'è nessuna pressione selettiva in favore di mutanti.
Quello che si è invece osservato è che le mutazioni comparse mano a mano che il virus si diffondeva in Sierra Leone, sono localizzate in aree chiave riconosciute dai kit diagnostici. Una cosa alquanto pericolosa in quanto rende più complesso dotarsi di kit in grado di identificare al 100% un soggetto infetto.

Video




Il rischio di una escalation non può essere minimizzato come afferma Charles Chiu, un infettivologo della University of California a San Francisco. "Più a lungo procede l'epidemia, maggiori sono gli infettati, maggiore è la probabilità che emerga un virus ancora più pericoloso [NdB ad esempio un virus più resistente al di fuori dell'organismo infettato] di adesso".

 Per cercare di contenere il focolaio favorendo l'autospegnimento, si sta procedendo all'invio di forniture e di operatori sanitari, oltre che all'istruzione del personale locale affinché siano minimizzate le possibilità di contagio.

(Articolo successivo sull'argomento Ebola ---> QUI)


Fonti
- Ebola virus mutating rapidly as it spreads
  Erika Check Hayden - Nature, news  28 August 2014
- Genomic surveillance elucidates Ebola virus origin and transmission during the 2014 outbreak
  Stephen K. Gire et al,  Science,  August 28 2014

Ha senso fare studi clinici su trattamenti che mancano di basi scientifiche?

Il termine medicina alternativa è un termine fuorviante. L'alternativa alla medicina è infatti la non-medicina, cioè la non-cura basata su criteri di scientificità. Mi si obbietterà che il termine vuol indicare trattamenti diversi rispetto a quelli della medicina ufficiale basata sulla farmaceutica e sulla chirurgia. Ma anche in questo caso il termine non è corretto in quanto l'unico requisito che deve avere una terapia è quello di funzionare e di fornire un beneficio al paziente. Questi ultimi due termini sono essenziali per capire il punto centrale dello scontro ideologico; un trattamento deve funzionare in modo riproducibile e avere un rapporto beneficio/rischio aggiuntivo nettamente maggiore di 1.
Una terapia non necessita di una conoscenza dettagliata per essere considerata. E' altrettanto vero però che una terapia mai testata prima deve avere delle solide basi razionali se si vuole decidere di testarla.
  • Un trattamento ipotetico basato sull'olio estratto da una pianta sconosciuta, di cui si ignorino i principi attivi, ma di cui si abbiano chiare evidenze della sua attività cicatrizzante non è medicina alternativa ma un trattamento basato su dati accumulatisi nel tempo.
  • Una ipotetica terapia che dimostrasse l'azione benefica sull'acne giovanile dei raggi lunari in una notte di plenilunio, purché depauperata della componente "effetto-placebo", potrebbe perfino essere considerata valida se l'effetto fosse provato anche se non se ne capisse il meccanismo.
Se un trattamento funziona almeno tanto bene (e sul lungo termine) di un intervento chirurgico o di una pastiglia, questa è medicina e non medicina alternativa.

Ma è proprio sul punto centrale della riproducibilità che la discussione si distacca da una discussione semantica e diventa un vero e proprio confronto tra trattamenti validati e non validati. Senza questa evidenza non si può parlare di medicina o conoscenza tout-court.
La ricerca dell'evidenza è compito del metodo sperimentale che crea le condizioni affinché sia possibile distinguere ciò che appare funzionare da ciò che funziona. O come avviene in molti casi, identificare semplicemente ciò che sembra funzionare ma non in modo riproducibile e quindi è per definizione non prevedibile. Se manca la prova della efficacia, allora il trattamento, anche se teoricamente ineccepibile, non è "vendibile" a terzi come terapeutico o peggio ancora come un'alternativa ad altri trattamenti ancorché poco efficaci.

In medicina il compito di distinguere tra ciò che è e ciò che non è, è svolto dalla sperimentazione clinica (vedi QUI) ed è proprio questo il punto dolente della omeopatia e di tutti i trattamenti che nell'accezione comune rientrano entro i termini medicina complementare e alternativa (CAM) e medicina integrativa (IM).
Medicina integrativa è un termine più usato in UK che da noi ed indica un approccio che mischia medicina alternativa con la medicina basata sull'evidenza. I fautori sostengono che si tratta di curare "tutta la persona" e non solo i sintomi, mettendo l'accento sul rapporto medico-paziente. Questo approccio è stato sottoposto a pesanti critiche in quanto potenzialmente in grado di compromettere l'efficacia della medicina tradizionale includendo rimedi alternativi inefficaci,
In effetti negli ultimi 20 anni molti sono stati gli studi clinici iniziati con lo scopo di dimostrare l'efficacia dei metodi alternativi. Il problema è che molti di questi studi hanno usato punti di partenza errati e fuorvianti, in grado di minare alla base il concetto stesso di studio clinico. Il risultato è stato quello di alterare un metodo rigoroso con assunti pseudoscientifici. 

Per chiarire meglio il punto, cominciamo con un esperimento mentale.

Immaginate che qualcuno vi stia descrivendo un trattamento che si fonda su due principi. Il primo principio afferma che i sintomi devono essere trattati con composti che sono in grado di indurre gli stessi sintomi in soggetti asintomatici. Il secondo principio afferma che se diluisci serialmente il principio attivo alla base del trattamento, il trattamento stesso diventerà più forte. E non parliamo di diluizioni minime ma di numeri anche dell'ordine di 10^60, un valore di molti ordini di grandezza maggiore rispetto alla costante di Avogadro, ad indicare che la possibilità che sia rimasta una singola molecola di composto è quasi nulla. Dato questo, è ragionevole credere che tali rimedi abbiano una qualche probabilità di essere efficaci? E in subordine, è etico testarli all'interno di uno studio clinico randomizzato (RCT)?
L'esempio non è casuale dato che quanto sopra descritto è l'omeopatia, un approccio sviluppato da Samuel Hahnemann circa 200 anni fa e basato sulle teorie del vitalismo e altre idee prescientifiche.
Facendo una ricerca su PubMed per i termini "studio clinico randomizzato omeopatia" compaiono più di 400 referenze, molte delle quali sono delle review del campo. Le restanti tuttavia si riferiscono a RCT, quindi a studi in cui sarebbe stato lecito attendersi che l'ipotesi da verificare fosse sostanziata. 
Tra questi i più famosi (o famigerati?) sono due studi (randomizzati, in doppio cieco e controllati con placebo) per il trattamento di diarrea acuta infantile in Nicaragua e Honduras, rispettivamente. Nei due studi i rimedi omeopatici testati erano diversi e riguardavano diluizioni 10^60 volte di miscele contenenti sostanze tra cui Arsenicum album (triossido di arsenico), Calcarea Carbonica (carbonato di calce), camomilla, estratti della pianta podophyllum e mercurio metallico. Risultati? Uno studio ha riportato un beneficio statisticamente discutibile mentre l'altro, successivo e più rigoroso, non ha trovato alcun beneficio. Eppure, ed è questo il vulnus, entrambi gli studi sono stati condotti sebbene non vi fossero evidenze che i rimedi proposti nella sperimentazione avessero alcuna efficacia reale per la diarrea infantile. Anzi, due degli ingredienti usati, arsenico e mercurio, decisamente tossici, sono stati di fatto diluiti fino alla non-esistenza.
Nota. Non è l'elemento "sostanza tossica" ad essere centrale quanto il fatto che la molecola sia stata diluita alla non-esistenza. Molti altri sono gli esempi di sostanze sedimentatesi nella pratica medica antica, allora ovviamente ignote, caratterizzate solo in tempi recenti. I due esempi classici sono quelli del salicilato (estratto dal salice) e dell'arsenato presente in alcuni ingredienti della medicina tradizionale cinese. Nel primo caso il prodotto moderno ottenuto è l'aspirina, che tra l'altro funziona meglio rispetto ai prodotti di nuova generazione estremamente purificati (un caso che indica come la somma eccipienti e prodotto attivo dia un risultato maggiore della somma delle singole parti). Nel secondo caso, l'arsenato è stato scoperto quando si è andati ad isolare gli elementi attivi dei prodotti usati; una scoperta che ha permesso di ottenere un'arma efficace per il trattamento dei casi di leucemia promielocitica acuta resistenti al trattamento con acido retinoico.
Se si parte dal concetto di una diluizione infinita, allora non è irragionevole attendersi che i risultati del RCT non potranno essere positivi e daranno luogo nel migliore dei casi a dati incerti (qualora esista una forte componente placebo). Al che la domanda: che senso aveva iniziare studi del genere?

Non c'è solo l'omeopatia. Negli USA (e non solo) ha avuto successo il Reiki, una pratica anche nota coma "medicina energetica" che in alcuni casi pretende di riuscire a convogliare con una mano l'energia di guarigione, attinta da una fonte non meglio precisata nota come 'fonte universale', direttamente nel paziente. Sempre nell'ambito della medicina energetica abbiamo anche il "tocco terapeutico".
Anche qui sono stati condotti studi clinici (!?) che si sono conclusi con un nulla di fatto circa la pretesa utilità delle stesse. Il problema è che ancora oggi un certo numero di ospedali in USA hanno al loro interno luoghi in cui si pratica il reiki e che portano avanti studi clinici su di essi. 
Ma non sono i soli; basta dare uno sguardo al sito ClinicalTrials.gov (in cui sono registrati tutti gli studi ufficiali in corso) per vedere che reiki, tocco terapeutico, omeopatia, riflessologia, terapia cranio-sacrale, agopuntura, e altre modalità più o meno fantasiose sono oggetto di studio.

La scienza clinica (o medicina basata sull'evidenza - EBM) presuppone che se un trattamento sperimentale non abbia accumulato tutta una serie di evidenze sostanziali non possa accedere allo stadio di RCT. Questo perché uno studio clinico costa tempo, soldi e fatica oltreché risorse umane come quella dei volontari (sani o malati che siano). Se se ne abusa, altri studi meritevoli non potranno essere fatti appunto perché le risorse sono per definizione limitate.

La plausibilità biologica è l'elemento centrale che deve guidare l'accesso al RCT. Attenzione però.
Dire che qualcosa è "biologicamente plausibile" non implica "conoscere l'esatto meccanismo". Vuol "solo" dire che il meccanismo ipotetico non viola leggi e teorie scientifiche che poggiano su basi ampiamente provate e consolidate. Nel caso specifico, l'assunto base dell'omeopatia viola molte leggi della fisica dato che presuppone la memoria dell'acqua. Questo dovrebbe de facto eliminare anche solo il prendere in considerazione l'omeopatia come pratica medica.
Non a caso alcuni autori spingono per aggiornare il termine EBM nel nuovo SBM, cioè "science based medicine". In questo modo il fuoco viene spostato sui dati scientifici e non su ciò che appare. Forse un passo estremo, ma è la conseguenza dell'inquinamento dell'EBM causato dall'ammissione di pratiche non scientifiche dentro gli studi clinici. 
Non si tratta di una mera discussione di termini. Il punto centrale è se sia etico esporre soggetti sani o malati a pseudoscienza.
Un esempio classico degli effetti dannosi lo si è avuto esponendo soggetti con tumore al pancreas ad una terapia alternativa basata su un radicale cambiamento del regime alimentare fatto mediante succhi di frutta, grandi quantità di integratori e perfino clisteri di caffè. Lo studio inizialmente condotto con modalità da doppio cieco e randomizzato, è stato successivamente modificato in "aperto", cioè il paziente sceglieva se usare la terapia ufficiale o quella "alimentare". Quando i dati sono stati infine pubblicati, i risultati sono apparsi da subito inquietanti. La sopravvivenza ad un anno (il cancro del pancreas è tra i peggiori tumori) si è ridotta di quattro volte nei soggetti del gruppo "alimentare" rispetto a quelli trattati normalmente. Non solo come sopravvivenza ma anche usando parametri chiave come QoL (qualità della vita dei mesi di sopravvivenza).
Questo è un esempio di uno studio che non avrebbe mai dovuto essere approvato. Resta sempre libera la scelta di un individuo capace di intendere e volere su quale trattamento iniziare, ma non è accettabile che si siano spesi milioni di dollari pubblici per questo studio.
Tutti gli studi clinici, non solo RCT, dovrebbero essere basati su evidenze precliniche o derivanti dalla pratica medica scientificamente supportati, che li giustificano; meglio ancora se supportati con biomarcatori per guidare la selezione dei pazienti e il follow-up
Solo se le evidenze sono tali da giustificare l'inizio di uno studio clinico, allora coinvolgere soggetti umani nella sperimentazione diventa anche una scelta eticamente giustificabile.

Quanto scritto lo abbiamo visto in azione in Italia pochi mesi fa. Sull'onda mediatico popolare di Stamina sono stati attivati studi clinici basati sul nulla e che sono finiti nel nulla. Purtroppo il nulla non è stato sufficiente per alcuni, dato che hanno imposto la continuazione del trattamento. Ma questa è una storia di cui abbiamo già parlato (qui).

(articoli preceedenti sul tema in questo blog qui e qui)

Fonte
- Clinical trials of integrative medicine: testing whether magic works?
 Trends in Molecular Medicine Volume 20, Issue 9, p473–476, September 2014

Autismo e anomalie del cervelletto. Una nuova pista

La strada che porta alla comprensione clinica dell'autismo è tortuosa, e non solo in senso metaforico. Per tutta una serie di motivi che ruotano intorno alla definizione stessa della malattia, ASD (Autism Spectrum Disorder): un "contenitore" in cui finiscono malattie diverse e poco caratterizzate, accomunate dal fatto che i malati presentano tratti comportamentali comuni. In assenza di altre informazioni diventa quindi molto difficile identificare gruppi di soggetti omogenei da un punto di vista della patogenesi molecolare, il primo e fondamentale passo per identificare l'anomalia (o molto più probabilmente le anomalie) alla base della malattia.

A titolo di esempio vale la pena ricordare come l'autismo sia una patologia principalmente maschile e che i casi femminili riportati nella letteratura scientifica siano di fatto riferiti ad una malattia eziologicamente diversa.

E' sempre importante allora tenere d'occhio la letteratura scientifica per monitorare la comparsa di nuovi tasselli dal cui assemblaggio emerge pian piano un quadro meno "nebuloso". Una nebulosità che ha reso possibile la diffusione di ipotesi infondate, nel migliore dei casi ma molto spesso folli, sulla causa prima dell'autismo. Nell'elenco delle peggio teorie ricordo la bufala del legame vaccino del morbillo autismo (vedi figura in basso e mio precedente articolo QUI) e l'ipotesi, ancora peggiore se possibile date le reazioni che innescava, formulata da uno psicologo che identificava nella carenza di cure materne la causa scatenante della malattia.

Tra i tanti lavori seri emersi negli ultimi anni, quello pubblicato da un gruppo di ricerca della università di Princeton è particolarmente interessante in quanto mette al centro dell'indagine il cervelletto, un'area importante del sistema nervoso centrale e in particolare il suo ruolo di filtratore degli input tra il mondo esterno e la corteccia cerebrale.
Se molto si sa del coinvolgimento del cervelletto nel controllo motorio molto meno nota è la sua azione nello sviluppo infantile per problematiche non di tipo motorio. Dato che il cervelletto processa le informazioni sensoriali (sia interne che esterne) è verosimile che un suo anomalo funzionamento causi una alterata gestione degli stimoli sensoriali da parte dei centri corticali superiori. In effetti una delle caratteristiche comuni dell'ASD è proprio l'incapacità sociale legata ad una non corretta gestione degli input esterni, siano essi precipuamente sensoriali (suoni, odori, …) o relazionali.
Il bambino autistico è spesso descritto come un bambino in gabbia, non in grado di "assimilare" input sociali altrimenti facilmente elaborati in tutti i bambini. Un bambino privo di questa "comprensione" è condannato, se lasciato a se stesso, ad una vita di isolamento e di sofferenza.

Ed è proprio quello che i dati pubblicati sulla rivista Neuron sembrano avere confermato. All'interno dell'ampia variabilità associata all'ASD, potrebbe esserci anche una lesione del cervelletto avvenuta in fase molto precoce con conseguente diaschisi dello sviluppo, vale a dire una anomalia a cascata in zona "altra" del cervello.
Gli autori dell'articolo ipotizzano che la presenza di lesioni cerebellari possa provocare interruzioni nel flusso di dati proprio nella fase dello sviluppo in cui si apprende ad elaborare gli input sensoriali. Spiega Sam Wang, professore associato di biologia molecolare al Neuroscience Institute di Princeton, "è ben noto che il cervelletto è un processore in grado di elaborare input di per se neutri. La nostra neocorteccia [NdB "nostra" in quanto sebbene presente anche in altri mammiferi siamo solo noi Homo sapiens ad averla molto sviluppata] non riceve informazioni che non siano state precedentemente filtrate. Esistono passaggi critici che devono avvenire prima che un input esterno raggiunga la corteccia neurale. Ad un certo punto, si impara che sorridere è bello perché la mamma ti sorride. Si tratta di associazioni fatte durante lo sviluppo postnatale. Il sorriso diventa bello. Nell'autismo tuttavia qualcosa in questo processo va male, e l'elaborazione di almeno una parte degli stimoli esterni viene meno".
Proprio quello di cui parlavo prima. E' come se vi fosse una barriera tra il soggetto autistico intrappolato in un mondo in cui le informazioni dall'esterno sono "in una lingua non comprensibile".

Mustafa Sahin, professore di neurologia alla Harvard Medical School, non autore dello studio, avvalla questa idea."L'associazione tra deficit cerebellari e autismo era nell'aria da un po' di tempo. Quello che Sam Wang e i suoi colleghi hanno fanno è stato razionalizzare idee sparse e collocarle all'interno dello sviluppo post-natale, legando cervelletto e circuiti neocorticali".
Uno schema riassuntivo delle connessioni cervelletto-corteccia nel topo. Vi rimando al sito originale (QUI) dove è disponibile la versione animata dello schema in cui è possibile confrontare le differenze tra topo mutato e normale (Credit: Simons Foundation Autism Research Initiative / IMAGE: Emily Elert)

Già nel 2007 un articolo pubblicato sulla rivista Pediatrics riportava casi di individui con lesioni al cervelletto alla nascita e che avevano 40 volte più probabilità di risultare successivamente positivi al test diagnostico per l'autismo.

"Quello che abbiamo capito dallo studio della letteratura scientifica è che questi due problemi - autismo e lesioni cerebellari - sono potenzialmente correlati tra loro" continua Wang.
In questo grafico è riassunto l'indice di correlazione basato su criteri epidemiologici tra un evento X e il rischio di autismo. E' interessante sottolineare ancora una volta che il valore associato al vaccino trivalente sia inferiore ad 1. Di fatto assolutamente non correlato (Courtesy of Princeton University)

Da un punto di vista sperimentale la strada è ancora molto lunga. La prova può infatti solo venire dalla disponibilità di modelli animali in cui sia possibile, inattivando elettricamente alcune aree del cervelletto, agire sulle aree corticali. Un'altra possibilità è quella di avvalersi dei metodi computazionali forniti dal progetto BRAIN per studiare il legame tra aree diverse del cervello.
In entrambi i casi siamo solo all'inizio.

Articolo successivo sul tema autismo ---> qui
Per altri articoli sul tema cliccare il tag "autismo" nel riquadro a destra


Fonti
- Early cerebellum injury hinders neural development, possible root of autism, theory suggests
Princeton University, news
- The Cerebellum, Sensitive Periods, and Autism
Samuel Wang et al, (2014) Neuron, 83 (3) 518-532
- Does cerebellar injury in premature infants contribute to the high prevalence of long-term cognitive, learning, and behavioral disability in survivors?
C. Limperopoulos et al, (2007) Pediatrics, 120 (3) 584


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