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Cronistoria dell'epidemia di Ebola e prospettive immediate

Le domande sull'origine di Ebola e le prospettive future
Credit: Centre for Infections/Public Health England/SPL/Nature
Come prevedibile è calata una cortina di silenzio sui media italiani riguardo l'epidemia di Ebola in atto nell'Africa occidentale. Una noncuranza grave dato che come abbiamo visto nei mesi scorsi, bastano veramente poche ore di volto al virus per migrare dall'Africa equatoriale ai nostri aeroporti. Come al solito si spera che chi di dovere vigili e sappia implementare misure contenitive immediate qualora dovessero palesarsi casi sospetti. 
Nota. Nei giorni scorsi mi ha fatto abbastanza sorridere la notizia rilanciata da molti media "se arriva Ebola, noi siamo pronti". Il sunto del messaggio è che sono state infine predisposte aree adeguate per il trattamento e la quarantena di eventuali pazienti presso l'ospedale Sacco di Milano. Un'area simile è stata approntata presso l'aeroporto Malpensa. Le foto distribuite mostrano l'equipaggiamento protettivo e il personale impegnato in una esercitazione. Il sorriso mi è venuto perché (a parte la chiara posa di molte foto) questa simulazione mostra il trasporto di un soggetto sintomatico e prevede l'utilizzo di un aereo militare. Quindi è riferito al caso in cui si decidesse consciamente di trasportare un malato a Milano dalla zona di contagio. Più interessante sarebbe stato vedere le procedure implementate negli scali civili e nei pronto soccorso della penisola per gestire un soggetto "a rischio" o che manifesta sintomi sospetti. Chiaro che se viene a mancare questo filtro, queste esercitazioni servono a ben poco.
Approfitto allora di questa assenza di notizie eclatanti per fare una breve cronistoria dell'epidemia Ebola e dei motivi per cui l'epidemia attuale in Africa non deve essere presa sottogamba ma necessita di tutta l'attenzione degli organi competenti e dei media.

*************

Carta d'identità del virus Ebola
Ordine:    Mononegavirales
Famiglia: Filoviridae
Genere:    Ebola-like viruses
Specie:     Ebola
Sottotipi:  Ebola-Zaire, Ebola-Sudan, Ebola-Costa d'Avorio, (...)

Almeno cinque sono le specie di virus strettamente correlate a cui gli scienziati si riferiscono con il nome di ebolavirus, tra queste quella responsabile dell'attuale epidemia in Africa occidentale è lo Zaire ebolavirus
Credit: Eri Nakayama et al (Front. Microbiol., 05 September 2013)

Insieme con il virus Marburg e il virus Lloviu (genere Cuevavirus), gli ebolavirus costituiscono la famiglia dei filovirus (Filoviridae).
Il nome "Filoviridae" deriva dal latino e significa "filiforme". Non si sa molto sui filovirus sia perché la loro scoperta è relativamente recente che per la loro alta patogenicità li rende difficili da studiare. I Filovirus necessitano del livello di biosicurezza 4, secondo quanto stabilito dall'americano CDC, nel senso che molti dei suoi membri sono tra i più letali virus noti. I Filoviridae causano febbre emorragica, caratterizzata da massicce emorragie interne e (a volte) esterne. La famiglia dei filovirus ha forti somiglianze genetiche e strutturali con rhabdoviruses e paramyxoviruses.
 
Il genoma dei filovirus è (-)RNA, non segmentato, lungo circa 18 mila nucleotidi. I virioni sono pleomorfi, nel senso che presentano molte anche forme diverse a causa della loro flessibilità. Il nucleocapside ha una simmetria elicoidale e le dimensioni vedono 80 nm di diametro per una lunghezza compresa tra 120 e 1400 nm (maggiori info ---> ICTVdB).


La identificazione dei filovirus è abbastanza recente (risale alla fine degli anni '60) ed è dovuta sia alla oggettiva difficoltà tecnica di caratterizzare un virus in assenza di strumentazioni adeguate che al fatto che questi virus erano di fatto sconosciuti al di fuori delle foreste, peraltro scarsamente abitate, del centro Africa. I membri della famiglia dei filovirus condividono caratteristiche strutturali in comune, oltre all'essere tutti dei virus a RNA. Ma la caratteristica per noi peggiore è che sono, nella grande maggioranza dei casi, estremamente pericolosi per i primati (essere umano compreso), pericolosità che si manifesta con febbre emorragica e collasso multi-organo. Come vedremo successivamente, la estrema "debolezza" dei primati al virus è il miglior indizio che nessuno di loro sia il serbatoio naturale del virus non è un primate ma "solo" uno sfortunato ospite saltuario e casuale.

Che si sia solo all'inizio della fase di caratterizzazione dei membri appartenenti alla famiglia dei Filovirus, è una ipotesi considerata verosimile dagli scienziati. La maggior parte dei virus a noi ancora sconosciuti ci sono "sfuggiti" o perché inoffensivi per noi (quindi non rilevabili se non per puro caso) o perché occupano nicchie molto diverse da quelle dei primati.

La ricerca si è concentrata negli ultimi a cercare di capire l'origine dell'infezione, cioè identificare l'animale (o gli animali) che fungono da serbatoio naturale di questi virus. Solo così si può sperare di comprendere le cause alla base del costante aumento registrato negli ultimi anni dei focolai di epidemia: negli ultimi 21 anni, almeno 19 sono state le epidemie certificate, tre di queste solo nell'anno in corso. 
Per una lista aggiornata ---> qui

Non si tratta di un compito facile dato che i focolai sono imprevedibili (o quasi dato che l'epidemia in Africa occidentale era stata definita probabile da alcuni virologi) e che maneggiare campioni potenzialmente contenenti questi virus richiede procedure di sicurezza molto elevate.

Cronistoria delle conoscenze su Ebola
  • Era il 1967 quando venne identificato il virus Marburg, nome derivante da una città tedesca in cui avevano sede laboratori in cui si studiavano scimmie prelevate dall'Africa. La scoperta del virus è legata ad eventi tragici legati alla errata manipolazione di tessuti prelevati da cercopitechi morti di una malattia allora sconosciuta, che portò all'infezione di 31 persone, 7 delle quali morirono in breve tempo. Questa fu la prima evidenza dell'esistenza di un virus fino ad allora "sepolto" nelle foreste africane. Scoperta la malattia e il virus si poterono cominciare a fare indagini nel territorio in cui vivevano le scimmie, arrivando così ad evidenze anedottiche di rari focolai della malattia in umani che vivevano nei pressi della foresta. Focolai che sorgevano inaspettati e altrettanto rapidamente si estinguevano con la morte dei soggetti infetti (e spesso dei famigliari). La dinamica dell'infezione faceva chiaramente ipotizzare che la malattia si trasmetteva all'uomo in seguito a rari e casuali contatti con l'ignoto animale portatore del virus. Il fatto che tali epidemie fossero fino a quel momento passate inosservate è la logica somma della presenza (e suscettibilità degli abitanti) a molteplici patogeni locali, all'elevata mortalità e rapido decorso della malattia, all'assenza di strade e alla bassissima densità umana che avevano impedito al virus di diffondersi. L'elevata letalità dell'infezione da filovirus nelle scimmie era inoltre una chiara indicazione che i primati non erano gli ospiti naturali (o primari) del virus; se un virus uccide troppo e troppo velocemente l'ospite, si auto-condanna ad estinzione in brevissimo tempo. L'ospite primario in genere è ben adattato al virus, cosa che si manifesta con sintomi dell'infezione non gravi o anche asintomatici (vedi anche quanto scritto in precedenza e referenze a fondo pagina). I sospetti caddero quasi subito sui pipistrelli, ma nessuna prova sostanziale (cioè la scoperta di un pipistrello infetto) fu al tempo trovata.
  • Nel 1976, si presentò in Sudan l'occasione di seguire dal vivo (e non per resoconti) un focolaio epidemico. Le sei persone inizialmente infettate avevano in comune il fatto di lavorare in una fabbrica in una zona rurale sui cui soffitti erano soliti dimorare i pipistrelli. Analisi successive dimostrarono la presenza nel sangue degli animali sia di anticorpi specifici per il virus che di tracce genetiche di Ebola. Mancava tuttavia una delle prove più importanti, cioè identificare il pipistrello come il serbatoio naturale (cioè l'ospite primario) del virus e non come un semplice ospite. Una prova difficile da ottenere.
 Negli anni successivi, i nuovi focolai epidemici non supportarono una correlazione chiara tra la presenza di pipistrelli nella zona e il virus. Ma del resto è difficile trovare prove univoche quando i pazienti zero vivono nei pressi di fitte foreste equatoriali a contatto con molteplici animali.
  • Nel luglio 2007, un minatore che conduceva una attività di prospezione alla ricerca di piombo e oro in una grotta ugandese si infettò con il virus Marburg. I funzionari preposti all'indagine chiusero la grotta fino all'arrivo di un team di ricercatori del US Centers for Disease Control and Prevention (CDC). La speranza era quella di riuscire finalmente ad identificare l'ospite naturale dei filovirus. A tale scopo i ricercatori catturarono circa 1.300 pipistrelli della frutta che erano soliti rintanarsi nella grotta, per fare loro un prelievo di sangue e verificare la presenza del virus Marburg (o di anticorpi specifici). Cinque pipistrelli risultarono positivi al virus, nessuno dei quali (e questa è la chiave di volta) mostrava alcun sintomo della malattia. Altri pipistrelli infetti furono infine rinvenuti in una grotta vicina dove, guarda caso, si era registrato in passato un altro caso legato al virus di Marburg.
Trovato il potenziale colpevole, il passo successivo era capire come fosse avvenuto il contagio. Molto difficile pensare, per la natura dell'animale, ad un contatto diretto; molto più probabile che questo fosse avvenuto attraverso fluidi corporei o deiezioni. I test di laboratorio indicavano che un pipistrello positivo al virus presenta tracce del virus in bocca. L'idea più ovvia fu allora associare la presenza di saliva sulla frutta di cui questi pipistrelli si cibano, e che i virus in essa contenuti fossero poi stati ingeriti da altri animali, tra cui i primati.
Restava ovviamente da chiarire se anche gli altri membri della famiglia dei filovirus potevano trasmettersi nello stesso modo.
  • Arriviamo così all'epidemia attuale che si ritiene sia iniziata nella zona sud-orientale della Guinea nel dicembre 2013, quando un bambino di due anni morì di una misteriosa malattia trasmessa poi in rapida successione a familiari e operatori sanitari. Non si sa molto altro dato che gli sforzi, comprensibilmente, si sono concentrati nel contenere l'epidemia più che a fare analisi a ritroso della sua diffusione. Non è urgente ora ma è fondamentale che venga fatto nel prossimo futuro se si vuole cercare di prevenire futuri focolai, minimizzando il rischio di esposizione alla fonte naturale del virus.
Tutto risolto? C'è una complicazione non secondaria.
I filovirus non sono stati, purtroppo, trovati solo nei pipistrelli, il che rende più difficile identificare il vero "serbatoio" (o forse al plurale se diversi sono gli animali che possono ospitare il virus). 
  • Questo divenne evidente nel 2008 quando funzionari filippini chiesero aiuto al CDC per indagare su un focolaio di malattia nei suini. Quando i ricercatori arrivarono scoprirono che i maiali erano infettati con il Reston ebolavirus, una specie virale scoperta nel 1989 in scimmie importate in USA dalle Filippine.
La scoperta che il maiale poteva ospitare il virus fu uno shock dato che era la prima indicazione del fatto che il virus Ebola poteva diffondersi in animali da fattoria, un fattore di rischio chiaramente molto più elevato rispetto al caso "ideale" di un solo ospite primario e pochi ospiti secondari. Epidemie limitate a scimmie e pipistrelli (animali che solo raramente vengono in contatto con l'essere umano) sono di gran lunga meno preoccupanti di una malattia che può essere trasmessa dal proprio animale di cortile. 
  • La presenza del Reston ebolavirus nei suini è stato osservato nel 2012 anche in Cina.
C'è un dato importante da sottolineare: il virus Reston sembra essere una specie relativamente innocua per l'uomo, come si evince dal fatto che i lavoratori impiegati nelle aziende agricole in cui erano presenti maiali infetti non si sono mai ammalati pur avendo sviluppato anticorpi; chiaro segno questo che il virus era entrato nel loro organismo ma era stato facilmente neutralizzato dal sistema immunitario.
Nota. La relativa innocuità in un animale (es. uomo) di un virus altrimenti estremamente patogeno in altri animali, non è un evento anomalo. Il verificarsi di una infezione acuta in seguito ad un contagio interspecie è un evento raro e i motivi sono facilmente comprensibili. Il virus è il prodotto di una selezione che ha ottimizzato la sua capacità di sfruttare le "porte d'ingresso" (recettori) e il macchinario replicativo di un certo tipo di cellule. Porte e macchinari variano non solo tra una specie e l'altra ma anche tra i diversi tipi di cellule di uno stesso organismo. Quando un virus riesce a "valicare" la barriera della specie (attraverso una serie di mutazioni spesso mediate da infezioni in soggetti deboli come gli immunodepressi) il risultato può oscillare tra una forma leggera della malattia (il virus non è sufficientemente veloce o abile nello sfruttare il nuovo ospite) o una forma molto più grave rispetto a quella dell'ospite originario (già dotato delle contromisure per combatterlo). Al primo caso appartiene ad esempio il vaiolo bovino, al secondo l'influenza aviaria ed Ebola.
Vale la pena ricordare che proprio questa fu l'osservazione che permise a Jenner nel '800 di sviluppare il primo vaccino anti vaiolo. Il virus "bovino", meno adatto a replicarsi nell'essere umano, provocava una malattia nei lavoratori delle stalle estremamente più blanda di quella causata dal vaiolo umano, dando il tempo all'organismo di montare una risposta immunitaria in grado non solo di debellare l'infezione in atto ma anche di conferire una memoria immunitaria contro i virus della famiglia del vaiolo.
Tornando al caso dei maiali ...
  • ... nel 2011, i ricercatori hanno confermato definitivamente che i maiali sono suscettibili all'infezione del ceppo Zaire ebolavirus, il più noto tra quelli altamente patogeni per l'uomo. 
Come scritto sopra, la cosa è preoccupante in quanto è ora chiaro che i suini possono non solo fungere da serbatoio per il virus ma cosa ancora peggiore forniscono un ambiente in cui si possono generare nuovi ceppi di virus. Evento "possibile" se l'animale ha la sventura di venire infettato simultaneamente da diversi tipi di filovirus.
Nota. Lo scambio di materiale genetico tra virus diversi è un fenomeno che tutti hanno sperimentato sulla propria pelle a causa delle epidemie annuali di influenza e la periodica comparsa di pandemie e/o varianti molto più aggressive (SARS). Nel virus influenzale la differenza tra riassortimento e mutazione spiega le differenze tra le epidemie annuali e le pandemia (vedi anche antigenic drift vs. antigenic shift). Un fenomeno non atteso in Ebola (almeno non con la stessa intensità) a causa della diversa struttura del genoma.
Il Reston ebolavirus non rappresenta un problema per l'uomo ma la suscettibilità all'infezione da parte dei suini non deve essere presa sottogamba.


E' oramai chiaro che i virus sono più comuni di quanto non si pensasse un tempo, anche perché passano totalmente inosservati fino al momento in cui non causano malattie a noi o agli organismi (animali o vegetali) con cui siamo soliti interagire.
Siamo probabilmente solo all'inizio del percorso che ci permetterà di scoprire (e studiare) i diversi tipi di filovirus esistente e la loro distribuzione geografica. Oltre al Reston ebolavirus sono stati recentemente scoperti il Bundibugyo ebolavirus (in Uganda nel 2007) e il virus Lloviu (scoperto nel 2011 in Spagna in pipistrelli morti).
  • Nel 2010, è emerso un dato interessante che mostra che ben il 20% delle persone testate in alcune aree del Gabon erano positive ad anticorpi contro lo Zaire ebolavirus, segno di avvenuta (e asintomatica) esposizione al virus. Un dato questo che tuttavia va preso con le pinze in quanto la presenza di anticorpi specifici per il virus di Ebola, potrebbe essere teoricamente il risultato di cross-reattività, successiva ad esempio all'esposizione di virus "simili" ai filovirus per alcuni epitopi, ma di fatto innocui.
Prospettive
Il monitoraggio dell'attuale epidemia può aiutare a capire anche cosa stia avvenendo al virus (Zaire ebolavirus) in seguito alla diffusione mai così ampia per numero di soggetti infettati. Tanto maggiore è il numero di infetti e tanto maggiore è la popolazione virale, quindi maggiore è il rischio che particolari mutazioni, estremamente rare, riescano a comparire e a fissarsi nella popolazione virale.
Un intento ribadito da Kristian Andersen, virologo presso il Broad Institute di Cambridge, Massachusetts "dobbiamo iniziare a indagare se vi sono differenze importanti tra il ceppo 2014 e quelli precedenti".
Una differenza importante, inquietante ma anche attesa, è che il virus si sta adattando all'ospite umano. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che mentre nelle epidemia precedenti si era avuto in contemporanea un rapido declino del numero di scimmie (gorilla e scimpanzè) con centinaia di decessi accertati (--> Science), il virus attuale non sembra avere colpito i primati non umani. L'evento è appunto atteso dato che il virus si è autoselezionato con la trasmissione Homo-Homo. Il vantaggio di questo è che una volta cancellata l'epidemia, il virus umanizzato avrà probabilità nulla di sopravvivere in natura in altro ospite, lo svantaggio è che fino a che l'epidemia non viene messa sotto controllo, il virus è più efficiente nell'infettare altre persone.
Le analisi genetiche condotte finora hanno dimostrato che il ceppo dello Zaire ebolavirus protagonista dell'attuale epidemia, è mutato centinaia di volte da quando si è distaccato dal ceppo di ebola originario circa dieci anni fa (vedi articolo su Nature dello scorso agosto), ma pochissimo si sa circa l'effetto che queste mutazioni hanno avuto sulle proprietà del virus.
Sui motivi che hanno favorito la inusitata diffusione del virus, si ritiene che le cause debbano essere cercate nel fatto che l'epidemia si è diffusa in aree in cui tale infezione non era nota, e quindi non è stata subito identificata. A questo può avere contribuito una iniziale errata attribuzione da parte dei medici locali (o anche dei pazienti) dei sintomi iniziali a quelli  tipici di altre malattie endemiche nella zona come la malaria.

Altro punto critico è il ricordare che l'elevatissima mortalità associata all'infezione (media del 65% con punte fino al 90%; solo rabbia e vaiolo non trattati hanno valori così elevati), ha una duplice spiegazione.
Il tasso di mortalità nel breve periodo in assenza di trattamento
  1. Ebola e altri filovirus hanno letalità così elevata in quanto attaccano direttamente le difese immunitarie dell'organismo, ma in modo diverso rispetto a quanto fa il ben più lento HIV. Quando un virus penetra nel corpo si attiva il meccanismo di difesa "innato" del sistema immunitario, vale a dire la difesa di primo livello, aspecifica e diretta verso un invasore non "identificato"; l'infiammazione è il segno più evidente di questa difesa. Tale meccanismo permette all'organismo di guadagnare tempo e riuscire così a sviluppare una risposta immunitaria specifica per quel determinato invasore. Il virus Ebola sbaraglia la prima linea di difesa dato che infetta e neutralizza proprio le cellule chiave della risposta immunitaria innata. Come se non bastasse, la morte di queste cellule provoca a sua volta il rilascio di molecole effettrici come le citochine, che amplificano l'effetto distruttivo sulle cellule circostanti, tra cui quelle responsabili della produzione degli anticorpi, la seconda e critica linea di difesa. Un fenomeno questo noto come "tempesta di citochine". Sebbene questa capacità sia presente anche in altri virus altamente patogeni, i filovirus sono particolarmente distruttivi in questa azione, dato che hanno la capacità di infettare più tessuti, come il sistema immunitario, milza e reni. In aggiunta al danno ai vasi sanguigni che cominciano così a "perdere" liquidi (da qui i classici sintomi emorragici) si può avere il coinvolgimento di polmoni e fegato, evento che precede il collasso sistemico degli organi, causa principale della morte del paziente. Bloccare sul nascere la "tempesta di citochine" è verosimilmente il modo migliore per eliminare gran parte degli effetti negativi in quanto si da tempo all'organismo di sviluppare la risposta antivirale. Altro approccio chiave è cercare di capire per quale motivo alcuni soggetti sono riusciti a sopravvivere alla fase acuta dell'infezione, pur in assenza di farmaci specifici.
  2. La terapia base seguita è cruciale per aumentare il più possibile la probabilità di sopravvivenza. E' una triste verità il fatto che non esiste ancora alcun farmaco approvato e che quei pochi testati hanno una efficacia tutta da dimostrare. Il più avanzato tra questi è lo Zmapp, che si è dimostrato molto efficace in scimmie ma non è mai stato testato sul campo e tantomeno in laboratorio su umani (per ovvie ragioni etiche); ci sono molti dubbi sul fatto che le pochissime persone testate finora siano guarite per il farmaco invece che per la somma di cure prestate. Tra queste di fondamentale importanza è il mantenimento dell'idratazione del paziente e, la dialisi renale. Non che l'idratazione sia risolutiva ma di sicuro aiuta a stabilizzare il paziente, fornendo così tempo prezioso perché il soggetto riesca ad attivare i meccanismi di difesa pesantemente danneggiati dal virus. Nella maggior parte degli ospedali in Africa la reidratazione (quando pure viene fatta) avviene per via orale mentre sarebbe molto più efficace farlo per endovena. Tuttavia dato che la trasmissione del virus è molto alta per il contatto con i liquidi corporei in generale e con il sangue in particolare (e in assenza di strumenti di protezione adeguati) gran parte del personale sanitario locale si rifiuta (quando anche fosse possibile) di attaccare una flebo al paziente e lo stesso dicasi per la dialisi. La mortalità rimarrebbe in ogni caso molto alta ma attuando queste procedure potrebbe essere dimezzata.

La domanda chiave è se l'epidemia possa essere bloccata in assenza di una terapia farmacologica mirata.
A questo proposito bisogna ricorda che in passato si sono avute decine di focolai legati ai filovirus e che le procedure di contenimento usate si sono rivelate, di fatto, efficaci nel bloccare la diffusione dell'epidemia alle comunità circostanti. Ruolo centrale in tali strategie contenitive hanno avuto termini come "isolamento e trattamento" dei pazienti, "tracciamento e monitoraggio" dei loro contatti e infine "quarantena" di OGNI soggetto a rischio. Le stesse procedure sono state implementate in queste settimane in Nigeria e in Senegal, dopo la comparsa dei primi casi di infezione veicolati da soggetti provenienti dalle zone infette delle nazioni limitrofe.
E' bene però ricordare che questo approccio è fattibile fintanto che il numero di soggetti malati (o a rischio) è limitato. Pena la immediata saturazione dei luoghi (e del personale) deputati al contenimento. Non si può permettere quindi che il virus arrivi alle zone densamente popolate (come la capitale nigeriana).
Il rischio paventato da molti esperti è che, sulla base del ritmo di diffusione attuale, il numero di infetti possa addirittura raggiungere il prossimo gennaio la cifra di centomila persone, un numero oggettivamente inquietante per l'effetto che produrrebbe nell'area.
Agire il prima possibile è quindi una urgenza reale e non tema da esercitazioni dialettiche.


(Su questo blog diversi sono gli articoli su questo tema: QUI trovate i principali).


Articoli di riferimento
- Ebola virus mutating rapidly as it spreads
Nature, agosto 2014
- The Ebola questions
Nature, ottobre 2014
- Microbe-wiki

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