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Il paradosso dell'obesità. Si vive meglio e più a lungo se ...

Il paradosso dell'obesità. Si vive meglio e più a lungo ma solo se si fa attività fisica

Alcuni anni fa, Mercedes Carnethon, ricercatrice presso la Feinberg School of Medicine alla Northwestern University, cominciò a riflettere su un enigma: se da una parte l'obesità è il fattore di rischio principale per diabete di tipo 2, è anche evidente che persone con peso normale possono sviluppare la malattia.
Una evidenza al netto di predisposizioni genetiche che rendono alcuni soggetti più suscettibili a certe malattie come il diabete. Neil Ruderman, un endocrinologo della Boston University, già nel 1981, identificò persone "metabolicamente obese ma normopeso", individui con un indice di massa corporea (BMI) nella norma ma affetti da alterazioni metaboliche come insulino-resistenza e alti livelli di trigliceridi, che facilitano il deposito dei grassi viscerali (pericolo per gli organi interni) invece che su fianchi e cosce.
Dall'analisi comparativa dei suoi pazienti la Carnethon scoprì qualcosa di ancora più curioso: i pazienti diabetici di peso normale avevano il doppio delle probabilità di morire rispetto a coloro che erano sovrappeso. Un fenomeno noto come il paradosso dell'obesità riassumibile con il fatto che pazienti in sovrappeso e moderatamente obesi affetti da alcune malattie croniche vivono spesso più a lungo e stanno meglio dei normopeso con gli stessi disturbi. Esempi di malattie croniche associate a questo paradosso sono insufficienza cardiaca, ictus, malattie renali, pressione alta e diabete.

Carl Lavie, direttore del centro di riabilitazione cardiaca al John Ochsner Heart e Vascular Institute di New Orleans, è stato uno dei primi ricercatori a documentare tale paradosso nel 2002 riuscendo solo molti tentativi a pubblicare le sue scoperte su una rivista scientifica. Una difficoltà comprensibile dato che le sue osservazioni andavano contro il "senso comune scientifico" facendo ipotizzare ai revisori che vi fosse qualcosa di sbagliato nei dati raccolti o nel metodo di analisi usato.
In effetti come si poteva da una parte lanciare l'allarme sui rischi dell'obesità e dire nello stesso momento che come questo stato poteva anche agire come fattore protettivo?
I dati in letteratura erano però troppi,  anche se sparsi, perché fossero catalogabili come aneddotici. Tra questi uno studiomostrava che i pazienti sovrappeso che necessitavano di dialisi avevano una minore probabilità di morire per complicanze rispetto a pazienti simili ma normopeso o sottopeso. Nel 2007, un altro studio condotto su più di 11 mila canadesi seguiti nel corso di un decennio evidenziò che quelli sovrappeso avevano una minore probabilità di morire (per qualsiasi causa).
Tra le ipotesi avanzate per spiegare il fenomeno vi la "pista metabolica": si ritiene che con il manifestarsi di una patologia cronica si abbia anche uno spostamento del metabolismo verso le attività cataboliche, il che significa che chi ha maggiori riserve caloriche sarà avvantaggiato .
L'attività fisica è un elemento fondamentale ed è dominante, come impatto, rispetto al solo BMI. Il primo infatti non necessariamente porta ad una diminuzione del peso ma ha un pesante impatto nella "rimozione" dei grassi viscerali e, a cascata, nella diminuzione del fattore di rischio associato alle malattie metaboliche.
In altre parole è meglio essere grassi e fare attività fisica che normopeso e sedentari.
Una  conclusione certificata nel 2005 quando l'analisi dei dati contenuti nel National Health and Nutrition Examination Survey mostrò come i maggiori rischi di morte  si collocavano alle due estremità dello spettro, essere cioè sottopeso o gravemente obesi. Le persone sovrappeso (BMI da 25 a 30) avevano il rischio più basso in assoluto mentre l'obesità moderata (BMI da 30 a 35) presentava un rischio non superiore ai normopeso sedentari.

Una buona notizia per coloro che faticano a buttare giù i chili di troppo e si lasciano per questo scoraggiare: pensate invece che gran parte dei benefici li avete già catturati, anche se non ve ne siete accorti.


Un fossile di mezzo miliardo di anni fa è l'antenato dei moderni artropodi

Cosa hanno in comune farfalle, ragni e aragoste? Sono tutti parenti superstiti di una specie estintasi 250 milioni di anni prima che comparisse il primo dinosauro.
I resti fossili di questa creatura vissuta nel Cambriano (508 milioni di anni fa) e chiamata Yawunik kootenayi, sono stati trovati da paleontologi dell'università di Toronto e del Royal Ontario Museum in un canyon vicino al ricchissimo giacimento fossilifero canadese del Burgess Shale (a cui ho accennato in un precedente articolo, qui).  

(© Robert Gaines)
L'organismo in questione, mostrato nella figura a lato, appare come un proto-artropode, dotato di due paia di occhi e di lunghe appendici frontali che ricordano le antenne dei coleotteri o dei gamberetti attuali. In realtà la struttura è diversa dato che queste appendici hanno alle estremità tre lunghi artigli, due dei quali dotati di file seghettate (come denti) che dovevano aiutare l'animale a catturare la sua preda.

La forma è quindi quella di un artropode (esoscheletro, corpo segmentato, appendici articolate) "prototipico", mancando di altri tratti peculiari.
A differenza di insetti o crostacei, lo Yawunik non possedeva appendici supplementari nella testa oggi presenti mentre le sue antenne, usate durante la ricerca del cibo, venivano posizionate sotto il corpo durante il nuoto. Un comportamento simile a quello osservabile nelle larve di alcuni crostacei che usano le antenne sia per nuotare che prendere il cibo. Una similitudine spiegabile forse con l'ontogenesi, che come sappiamo ricapitola la filogenesi; lo Yawunik ci è utile quindi per visualizzare lo stadio precedente la "scelta evolutiva" di una divisione dei compiti tra le diverse appendici.
Una simulazione al computer del Yawunik

Il fossile scoperto nel Marble Canyon non è un esemplare raro ma è una delle forme più abbondanti in quei sedimenti. Una chiara indicazione del ruolo centrale di questo animale nell'ecosistema di quell'epoca, che ne sottolinea l'importanza.

Consiglio vivamente la consultazione del sito "The Burgess Shale" gestito dal Royal Ontario Museum. per un approfondimento sui ritrovamenti fossili e sulla vita delle incredibili creature che hanno caratterizzato "l'esplosione cambriana".



Fonte
- A large new leanchoiliid from the Burgess Shale and the influence of inapplicable states on stem arthropod phylogeny
Cédric Aria et al, (2015) Palaeontology

Tiroide e genetica si riflettono sul quoziente intellettivo

Tiroide e genetica si riflettono sul quoziente intellettivo

Non dico nulla di nuovo quando affermo che il livello ematico degli ormoni tiroidei è direttamente correlato alla funzionalità neuronale. Del resto il termine popolare di "cretinismo" è indicativo di una deficienza mentale e fisica permanente, generalmente associata a ipotiroidismo, quindi a cascata una carenza di ormoni tiroidei. Le cause sono varie ma tipicamente legate ad anomalie congenite della tiroide o dell'ipofisi; nel primo caso si avrà un deficit di tiroxina o di triiodotironina, nel secondo di somatotropina.

L'importanza degli ormoni tiroidei è su più livelli:
  • regolano lo sviluppo e la differenziazione del sistema nervoso centrale sia durante la vita fetale che dopo la nascita; 
  • sono fondamentali per la formazione del rivestimento mielinico delle strutture nervose. L'assenza (o carenza) del rivestimento mielinico equivale in soldoni alla mancanza della guaina isolante dai fili elettrici e causa una perdita di efficienza della trasmissione nervosa soprattutto sulle lunghe distanze.

I problemi possono sorgere anche per motivi diversi da anomalie congenite come ad esempio per un deficit nel passaggio degli ormoni tiroidei dalla madre al feto attraverso la placenta. Non si tratta di eventi di poco conto tanto che una gravidanza associata ad ipotiroidismo aumenta notevolmente la probabilità nel nascituro di un calo, anche significativo, del suo quoziente intellettivo (QI).
Detto per inciso la scoperta del passaggio degli ormoni tiroidei dalla madre al feto è una scoperta tutta italiana, pubblicata nel 2010 sul Journal of Cellular and Molecular Medicine, dal team di Alfredo Pontecorvi, della università Cattolica di Roma.
Il QI è solo un modo per misurare l'intelligenza (©CdS)

Nel primo trimestre di gravidanza, il periodo critico per lo sviluppo del sistema nervoso centrale, il feto non è ancora in grado di produrre i propri ormoni tiroidei, e fa quindi affidamento sugli ormoni materni. Da qui l'impatto dell'ipotiroidismo (o anche solo di bassi livelli di tiroxina) materno sul nascituro: non solo genetica o disfunzioni materne ma anche una corretta alimentazione (vedi presenza di iodio) possono prevenire problemi futuri.     

E di qualche settimana fa un nuovo articolo sull'argomento, pubblicato da un team dell'università di Cardiff, che mostra come bambini portatori di una variante polimorfica del gene deiodonase-2 e bassi livelli di ormone tiroideo  abbiano una probabilità quattro volte maggiore di avere un basso quoziente intellettivo. Non si tratta di un fenomeno raro dato tale combinazione di eventi è presente nel 4% dei bambini inglesi
Il gene deiodonase-2, coinvolto nella maturazione degli ormoni tiroidei, è stato in passato indiziato di giocare un ruolo chiave nella predisposizione a diabete e ipertensione, sebbene il meccanismo sia ad oggi poco compreso.
Nello studio i ricercatori gallesi hanno correlato i dati genetici e la funzione tiroidea di 3123 bambini di 7 anni, i cui dati erano stati in precedenza raccolti nell'ambito di uno studio sul QI (Avon Longitudinal Study of Parents and Children - ALSPAC). Quello che è emerso è che i bambini il cui livello di ormone tiroideo era nella parte inferiore della curva erano più frequentemente dotati di un QI inferiore ad 85.
E' implicito che durante l'elaborazione dei dati si è proceduto ad una normalizzazione degli stessi in modo da tenere conto sia di fattori ambientali che socio-economici.
I risultati dovranno essere ora confermati in modo indipendente in altri gruppi di bambini. Se venissero confermati si potrebbe pensare ad uno screening di massa per la variante genica incriminata, affinché i portatori (i soggetti a rischio) siano seguiti e trattati il più precocemente possibile per compensare eventuali deficit tiroidei (ad esempio mediante compresse ormonali).
Di pari importanza sarà seguire le madri a rischio tiroideo (sia per ragioni genetiche che mediche) in modo da evitare pericolosi cali della funzionalità tiroidea durante la gravidanza.

Fonte
- Maternal perchlorate levels in women with borderline thyroid function during pregnancy and the cognitive development of their offspring; Data from the Controlled Antenatal Thyroid Study.
 Taylor PN, J Clin Endocrinol Metab. 2014 Jul 24


Le donne nate premature hanno un rischio maggiore di complicazioni durante la gravidanza

Le donne nate premature hanno un rischio significativamente più elevato di avere complicanze durante la propria gravidanza.
Il risultato emerge da uno studio condotto da ricercatori canadesi che hanno confrontato le gravidanze di 7405 donne nate prima della 37ma settimana di gestazione confrontate con quelle di 16714 donne nate nei tempi corretti.
Lo studio ha preso in considerazione tre tra le più comuni complicazioni associate alla gravidanza (diabete, ipertensione e preeclampsia) giungendo alla conclusione che il rischio di una complicanza aumentava in modo inverso rispetto alla età gestazionale delle donne alla loro nascita.
In particolare le donne nate tra la 32ma e la 36ma settimana avevano una probabilità del 14 per cento superiore di sviluppare tali problemi, probabilità che diventava quasi doppia in quelle nate prima della 32ma settimana.
Un risultato, ovviamente, confermato dopo avere corretto per fattori come età della madre, stato di salute generale, condizioni del bambino, etc.

Lo studio è utile per le future mamme che sanno di essere nate premature ma "non per allarmarsi ma essere consapevoli", come precisa Anne Monique Nuyt, professore associato di pediatria presso l'Università di Montreal e autrice dell'articolo.

Fonte
- Pregnancy complications among women born preterm
Ariane Boivin et al, CMAJ. 2012 Nov 6; 184(16): 1777–1784

Diabete, invecchiamento e stress. Una triade con in comune le cellule "ringiovanite"

Diabete, invecchiamento e stress. Una triade con qualcosa di inatteso in comune: le cellule beta del pancreas che tornano ad uno stadio immaturo.

Per anni, i ricercatori hanno cercato di capire perché con l'invecchiamento il corpo sviluppi deficit nella capacità di produrre insulina. Una carenza che oltre una certa soglia di tollerabilità porta al diabete.
L'insulina facilita il transito del glucosio dal circolo sanguigno alle cellule che ne hanno bisogno come "carburante" per il metabolismo. Tuttavia anche in presenza di glucosio e di insulina può comparire la condizione di "affamamento" qualora le cellule siano diventate meno responsive all'azione dell'insulina; il che a cascata forza le cellule beta del pancreas a lavorare di più per compensare l'aumentata richiesta (diabete di tipo 2 o insulino-resistente). Per motivi non del tutto compresi, alla lunga questo stress produttivo danneggia le cellule e quindi alla resistenza all'insulina si sovrappone il calo dell'insulina circolante (diabete di tipo 1). Alcuni indizi hanno fatto ipotizzare che gran parte di queste cellule stressate si "suicida" con un processo noto come apoptosi. Ma questa è solo una spiegazione parziale.
I ricercatori della Columbia University hanno avanzato una sorprendente proposta alternativa dopo avere scoperto che nei topi con diabete di tipo 2 le cellule beta non funzionanti non erano affatto morte; avevano invece intrapreso un processo dedifferenziativo, cioè il ritorno ad una forma cellulare meno differenziata o più "immatura".

Una scoperta che apre la strada teorica allo sviluppo di nuovi percorsi terapeutici finalizzati ad invertire il processo riportando le cellule allo stadio maturo, quindi in grado di produrre insulina. Una prospettiva tutt'altro che remota, visti i progressi fatti negli ultimi anni nella manipolazione di cellule staminali.

Il responsabile del progetto, Domenico Accili, direttore del Columbia University Diabetes and Endocrinology Research Center, si occupa da tempo di quello che avviene nelle cellule beta a livello molecolare  durante le fasi che portano al diabete, con particolare interesse per il ruolo svolto dalla proteina FOXO1 che sembra scomparire quando le cellule beta smettono di produrre insulina.
Nel lavoro pubblicato sulla rivista Cell, lo studio si è concentrato su topi geneticamente modificati privi di FOXO1, ma solo nelle cellule beta. Se in condizioni standard gli animali apparivano normali una volta che andavano incontro a stress totalmente naturali - la gravidanza per le femmine e l'invecchiamento per i maschi - i topi divenivano iperglicemici, diminuiva la secrezione di insulina e compariva il diabete. In contemporanea a questo processo alcune delle loro cellule beta mostravano la comparsa di marcatori tipici delle cellule immature.
Lo stress quindi è in grado di alterare il normale funzionamento cellulare "togliendole" dall'insieme di cellule "utili".
Tra i fattori in grado di fornire sollecitazioni fisiologiche che stimolano la produzione di insulina vi è l'obesità, la gravidanza e l'invecchiamento, guarda caso tutti fattori noti per indurre stati diabetici più o meno temporanei.

Una delle ipotesi proposte per spiegare il fenomeno è che togliere le cellule "dall'arena" e rimetterle "in panchina", serve per dare loro un po' di riposo e favorire il loro successivo reimpiego. Altrettanto chiaro che se troppe cellule vengono tolte dal campo, la squadra perde dato che non viene più prodotta insulina.

Anche se non è ancora chiaro perché questo accada, la scoperta potrebbe favorire un nuovo approccio medico consistente nell'alleviare lo stress sulle cellule beta e nel contempo favorire il ritorno in uno stato "produttivo".

 La ricerca sui topi ha anche dimostrato che quando un gran numero di cellule beta viene distrutto, alcune cellule alfa (che producono glucagone) si trasformano in cellule beta. Un meccanismo per indurre un turn-over quando troppe cellule beta hanno chiesto il time-out.
Stesso discorso viene da un altro studio condotto sulle cellule acinose dimostratesi in grado, in coltura, di potersi trasformate in cellule beta dopo opportuni trattamenti.

Per altri articoli sul diabete segui il link.

Fonte
- Pancreatic β Cell Dedifferentiation as a Mechanism of Diabetic β Cell Failure
Chutima Talchai et al, Cell (2012), 150 (6), pp1223–1234

Il video del sorvolo della superficie di Plutone

Un video che non esito a definire emozionante è quello da poco rilasciato dalla NASA riferito al passaggio della sonda New Horizons vicino a Plutone. Emozionante perché sono immagini riprese dal vivo (e non con un telescopio) da un mondo lontano e finora praticamente sconosciuto.
 Se volete una versione del video commentata (in inglese) vi rimando a questo link.
E' bene precisare che non si tratta di un video "reale" ma di una simulazione ottenuta unendo le immagini catturate dalla sonda durante il sorvolo. Il motivo è ovvio se pensate a quanta banda e' necessaria per mettere in cloud un video ripreso dal nostro smartphone.

Come anticipato nell'articolo precedente (QUI), a cui rimando e in cui raccoglierò le immagini più significative, siamo solo all'inizio. Nel corso dei prossimi 16 mesi, mentre la sonda uscirà dal sistema solare, continueranno ad arrivare le immagini immagazzinate nel disco rigido della sonda. Tempi lunghi data la velocità di trasmissione inferiore a quella di un vecchio modem 56k ... ma quella era la tecnologia disponibile quando il modulo venne lanciato.

Per scaricare l'immagine ad alta risoluzione --> NASA






Plutone. I dati ottenuti dalla missione New Horizon

(articolo precedente sulla missione --> qui)

Come appariva il duo Plutone/Caronte prima della missione
New Horizon (credit: NASA, seti.org, spaceflight.com)

Come previsto dalla NASA, il 14 luglio la sonda New Horizon ha intersecato l'orbita di Plutone, raggiungendo il punto più vicino al planetoide (leggi QUI per maggiori informazioni sulla missione).
La posizione odierna della sonda rispetto a Plutone e alle sue lune. In rosso è indicato il percorso futuro (credit: jhuapl.edu)

Sono state ore (e non momenti) di trepidante attesa quelle intercorse tra il momento in cui la sonda aveva raggiunto l'obbiettivo e il messaggio "tutto ok". Come scritto nelle precedenti "puntate" sull'argomento, la sonda doveva essere istruita in anticipo sulla traiettoria da seguire e nelle fasi finali del percorso di avvicinamento avrebbe volato in modalità "offline". L'ora prevista per il raggiungimento del punto di massimo avvicinamento (pari a 12500 chilometri) era stimato per le 07:49:55 EDT, mentre il momento di riattivazione del segnale radio era per le 16:22 EDT. Da quel momento ci sarebbero volute poi altre 4,5 ore perché il segnale "è tutto a posto" arrivasse sulla Terra.
Il segnale è arrivato come atteso alle 20:52:37 EDT salutato da ovazioni che solo chi ha lavorato al progetto per anni può comprendere appieno. Per tutti gli altri, me compreso, è stato il momento di gioia per il raggiungimento di un nuovo traguardo dell'espansione umana.
Nota. Tra i più entusiasti anche i due figli di Clyde Tombaugh, la persona che nel 1930 identificò il tanto a lungo cercato "pianeta mancante" nella volta celeste.
L'incontro ravvicinato con il pianeta (anzi planetoide) è di fatto una toccata e fuga. La sonda non entrerà in orbita ma, data la velocità di crociera del veicolo spaziale più veloce finora lanciato (al momento è 30 mila miglia all'ora) lo "guarderà" giusto il tempo per raccogliere dati e poi proseguirà nella sua rotta verso l'esterno del sistema solare.
Nota. A tale velocità la collisione con un detrito grande quanto un chicco di riso causerebbe quasi sicuramente un danno irrimediabile alla sonda. Quindi molto più sicuro allontanarsi rapidamente da una zona ricca di detriti quale quella dell'orbita del duo Plutone/Caronte. Ricordo anche che uno dei motivi per cui Plutone non è più considerato un pianeta è che non ha ripulito la sua orbita dai detriti.
Dal momento del suo punto di massima vicinanza a Plutone la sonda, nel momento in cui scrivo, si è già allontanata ad una distanza pari a circa 146 mila chilometri, un terzo della distanza che separa la Terra dalla Luna.
Consiglio di scaricare la app dedicata - per visualizzare il percorso e la posizione attuale della sonda - direttamente dal sito della NASA (QUI). Di seguito lo screenshot della app e a seguire una dimostrazione delle funzionalità tratta dal sito Wired.

>se compare un errore nel video usando Firefox, cliccate su "play", poi HD e ancora "play". Meglio ancora aprite provate con un altro browser (con Safari nessun problema)<

Queste le foto messe a disposizione dalla NASA, riferite a quando la sonda si trovava a poco più di 700 mila chilometri da Plutone. Per il momento accontentiamoci in attesa delle immagini ad alta risoluzione.

Quanti dati ha raccolto finora?
Tanti, forse troppi, considerando la modesta energia di cui dispone e il vetusto sistema di trasmissione dati a bordo. Secondo quanto affermato dalla NASA, ci vorranno 16 mesi di trasmissioni (a partire da stasera) perché i dati immagazzinati siano trasferiti in toto sui server della Terra...

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Aggiornamento 16/07/2015
Le sorprendenti immagini di una regione vicino all'equatore di Plutone mostrano la presenza di una catena di "giovani" montagne alte circa 3.500 metri (Credits: NASA / JHU APL / SWRI) -->link

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Aggiornamento 20/07/2015

 Se volete una versione del video commentata (in inglese) vi rimando a questo link (Credit: NASA / JHUAPL / SWRI)

La simulazione del sorvolo delle "montagne Norgay" e della "pianura Sputnik" di Plutone ottenuta dalla unione delle immagini raccolte dalla sonda.
I nomi con cui sono stati battezzate queste aree sono in onore di Tenzing Norgay, uno dei due uomini che per primi raggiunsero la vetta del Monte Everest, e del primo satellite messo in orbita. Le immagini sono state acquisite grazie al Reconnaissance Imager Long Range (LORRI) il 14 luglio da una distanza di 77 mila km. La risoluzione è di circa 1 km 

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Credit: NASA/Johns Hopkins University
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per sapere in ogni istante dove si trova la sonda New Horizons, cliccate sulla pagina dedicata 


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 Ottobre 2015
Immagine ripresa a 1800 km di distanza, proprio sopra l'equatore di Plutone. La regione ricca di crateri sulla sinistra è nota come Cthulhu Regio mentre la distesa di ghiacci a destra è chiamata Sputnik Planum. Il polo nord è fuori visione in alto a sinistra (credit: NASA)

I dati inviati da New Horizons hanno permesso di scoprire una sorprendente varietà di morfologie geologici, incluse quelle derivanti dall'interazione tra ghiacci ed atmosfera e i processi derivanti da impatti meteoritici, tettonica e crio-vulcanismo. Ciò suggerisce che anche altri piccoli mini-pianeti della Fascia di Kuiper, come Eris, Makemake, e Haumea, possano avere storie simili tali da rivaleggiare con quelle di pianeti terrestri.

Di seguito una serie di immagini prese dall'eccellente sito Starts With A Bang
Image credit: NASA/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Southwest Research Institute

Image credit: NASA/JHUAPL/SwRI

Image credit: NASA/JHUAPL/SwRI

Le nuove foto della superficie di Plutone mostrano un pianeta ghiacciato che, dall'alto, non sembra essere molto diverso dalla Terra ... tranne per il fatto che i ghiacciai non sono fatti di acqua ma di azoto. (Credit: NASA/JHUAPL/SwRI)

Tra le ultime immagini ad alta risoluzione giunte sulla Terra vi è questa che mostra una sorta di eclisse di Plutone posizionato tra la sonda e il Sole. (Credit: NASA/JHUAPL/SwRI)

La pianura ghiacciata traversata da solchi che separano le celle poligonali, risultato di un moto convettivo dell'azoto. Una qualche fonte di calore interna fa emergere l'azoto attraverso celle convettive verso la superficie, dove congela e ricade verso il basso. Il blocco scuro al centro è verosimilmente ghiaccio d'acqua sporca che galleggia sul più denso ghiaccio di azoto (credit: NASA). Maggiori informazioni sull'origine di queste celle esagonali sono stati descritti in due articoli pubblicati su Nature nel 2016)

Una catena montuosa innevata lunga circa 400 km. Nell'immagine si notano alcuni crateri da impatto oltre a vallate e pendii. Le "pianure" hanno un color marrone-rossiccio probabile conseguenza della molecola che si forma quando il metano viene investito dai raggi ultravioletti. La neve è con ogni probabilità costituita dal metano atmosferico congelato.

Articolo successivo su Plutone --> qui

Per tenersi aggiornati cliccate il sito della NASA dedicato alla missione --> New Horizons.



Plutone. Ci siamo quasi

Ci siamo quasi.
Uno dei tweet della NASA
Plutone ... (credit: NASA)

... e la sua luna maggiore, Caronte (credit: NASA)

A completamento dell'articolo di presentazione dell'evento (vedi QUI) e di quanto iniziò il vero e proprio conto alla rovescia due settimane fa ("Plutone. Siamo a - 2 settimane") ecco che la sonda New Horizons ci delizia con immagini a risoluzione crescente come quelle inviate l'11 luglio.

Le immagini, riprese ad una distanza di 1milione di miglia, mostrano dettagli interessanti quali i crateri (indice di scarsa o nulla attività di rimodellamento della superficie) ma anche rilievi (è esistita in passato una attività vulcanica?).

Incrociando le dita, il momento di maggior pericolo relativo all'impatto con detriti o lune non previste è superato. Una volta raggiunta la sua posizione di osservazione stabile, le immagini che cominceranno ad affluire ci aiuteranno a scoprire la storia e le caratteristiche di questo pianeta, pardon planetoide, di cui sappiamo così poco.

credit: NASA
Per l'articolo successivo sulla missione --> qui.

Fonte
NASA.gov

Vitamina B12, batteri e acne

La vitamina B12 più che il nome di una molecola è un termine "contenitore" per indicare una serie di molecole, le cobalamine, che rientrano nella categorie delle vitamine essenziali, cioè di quelle molecole che è necessario assumere con la dieta in quanto l'essere umano non è in grado di sintetizzarle (o è in grado ma a livelli insufficienti).
Queste le 13 vitamine essenziali, come redatto dai National Institutes of Health americani

La vitamina B12 si trova in alimenti come carne, prodotti lattiero-caseari e alcuni pesci, tutti alimenti preclusi ai vegani, che quindi sono particolarmente esposti al rischio carenza vitaminica. La sinergia tra vitamina B12 e acido folico nella emopoiesi spiega bene il legame tra mancanza di vitamina B12 e anemia. Da un punto di vista terapeutico, oltre all'anemia, la vitamina B12 ha mostrato interessanti potenzialità nel trattamento della sintomatologia dell'Alzheimer (articolo precedente --> "Vitamina B e terapia Alzheimer? Nessuna evidenza").
Nota. L'apparente "autosufficienza" degli erbivori per la vitamina B12 non viene da una loro capacità di sintetizzarla (animali e piante in genere non ne sono capaci) o almeno non direttamente. Sono i batteri simbionti che popolano il loro rumine e intestino i veri produttori. Per altri dettagli sul metabolismo della vitamina B12 vi rimando al compendio sul sito torrinomedica.
Ma anche le molecole migliori possono avere il loro lato oscuro, come sembra dimostrare lo studio pubblicato su "Science Translational Medicine" in cui si evidenzia la correlazione tra assunzione di vitamina B12 e insorgenza dell'acne.
I diversi stadi dell'acne con la formazione di un tappo di sebo, la proliferazione batterica e l'infiammazione.

E' ancora presto per trarre conclusioni definitive ma quello che si è scoperto è che la vitamina B12 provoca un cambiamento nell'espressione genica della flora batterica presente sulla cute del volto (a tutti gli effetti parte del nostro microbiota) che a sua volta innesca un processo infiammatorio, da cui l'acne.
Propionibacterium acnes
Fino ad oggi il legame tra vitamina B12 ed acne era noto (ipotizzato fin dagli anni '50) ma sempre a livello aneddotico; mancava di fatto la "pistola fumante" ad indicare il colpevole. L'acne - e quindi la terapia ideale - è ancora oggi in gran parte un mistero per i ricercatori nonostante l'ampia diffusione del problema, con l'80% dei teenager (ma anche giovani adulti) affetti. Un mistero non dovuto alle cause ma alla pluralità di eventi in grado di "peggiorare" la manifestazione dell'acne. 
Gli attori coinvolti sono principalmente il sebo, alcune cellule difettose che rivestono i follicoli piliferi, squilibri ormonali (non a caso i recettori degli ormoni steroidei sono abbondanti nelle cellule follicolari) e il Propionibacterium acnes (batterio che normalmente vive sulla cute).
I ricercatori hanno scoperto che gli esseri umani che assumono vitamina B12 tendono a concentrarla nella loro pelle (il che non è una cosa cattiva) ma questo induce nel batterio residente un effetto a catena "spingendolo" a ridurre la produzione della sua vitamina B12, favorendo così l'accumulo di prodotti intermedi in grado di innescare la reazione infiammatoria nella cute.
Ecco allora che si può generare la "tempesta perfetta" in un adolescente a causa della contemporanea presenza di alti livelli ormonali, alimentazione non corretta, predisposizione genetica e fattori altri come stress, etc.
Nota. Il problema non è qui tanto la fisiologica comparsa dell'acne durante la pubertà ma le forme particolarmente virulente, spesso difficilmente trattabili, che si manifestano in alcuni sfortunati causando evidenti deturpazioni del volto e a cascata manifestazioni di disagio e di stress (vedi QUI alcuni dei falsi miti alimentari sull'acne).
Il messaggio principale che emerge da questo studio è che i batteri della pelle sono importanti e che l'alimentazione influisce - anche - su di essi . 
Nel breve periodo questa osservazione non cambierà di molto i trattamenti consigliati dai dermatologi dato che sono necessari ulteriori studi (quindi tempo) per confermare il dato.
Non ha nemmeno senso ad oggi alcuna strategia di riduzione del consumo dei prodotti ricchi di vitamina B12 (che ricordo è una vitamina fondamentale per il nostro benessere) se non nei classici dettami di una dieta equilibrata e salutare.
La vera ricetta verrà forse dallo sviluppo di sostanze topiche in grado di contrastare le alterazioni della cute in modo mirato, ad esempio agendo sulla biodisponibilità della vitamina B12 per i batteri della cute o agendo sul loro metabolismo in modo da minimizzare l'azione pro-infiammatoria di alcuni loro metaboliti.

Articoli precedenti nel blog sul tema vitamine ---> qui

Fonte
- Vitamin B12 modulates the transcriptome of the skin microbiota in acne pathogenesis.
Dezhi Kang et al, Science Translational Medicine  (2015) Vol. 7, Issue 293



Lo sballo chimico dei Rave party e la terapia anti-depressiva

La ketamina è una sostanza nata come analgesico per uso ospedaliero e veterinario che ha tuttavia riscosso un successo inatteso - non voluto - come sostanza ad azione psicotropa, in particolare tra i partecipanti ai rave party dove è nota con il nome di Special K.

Ketamina
Va da se che al di fuori degli ambiti il cui utilizzo è legiferato, il possesso di questa sostanza è illegale in quanto è associabile in toto alle sostanze stupefacenti. Tra gli effetti a cui deve la sua popolarità, la sensazione di distacco dal proprio corpo, una profonda alterazione percettiva e potenti allucinazioni (per una descrizione dettagliata degli effetti e dei rischi associati rimando al sito della ASL).

Tuttavia quello che ci interessa oggi non è il suo utilizzo come droga ma le potenzialità terapeutiche, diverse rispetto all'effetto analgesico, che sono emerse grazie a nuovi studi. Sembra infatti che se opportunamente dosata e sotto controllo medico, la ketamina abbia un futuro nel trattamento di disturbi psichiatrici non facilmente trattabili come depressione, disturbo bipolare e tendenze suicide.
Nel caso dei disturbi depressivi l'azione della ketamina si distinguerebbe dalle classiche terapie antidepressive per l'alta velocità di azione. Mentre gli antidepressivi necessitano di almeno 10-12 giorni di trattamento perché gli effetti comincino a manifestarsi e 2-4 settimane perché i sintomi depressivi si attenuino (ma solo nei soggetti responsivi - per altre info vedi QUI) l'effetto antidepressivo della ketamina compare già dopo due ore!
Una scoperta che ha però dei chiaroscuri importanti: se infatti questa inattesa proprietà del farmaco ha fatto impennare il numero di prescrizioni, soprattutto negli USA, da parte dei medici ansiosi di dare sollievo ai tanti pazienti insensibili alle comuni terapie, dall'altra non può, né si deve, sottovalutare il rischio implicito di un trattamento continuativo di cui si ignorano gli effetti sul lungo periodo.
V. Van Gogh
Il punto chiave su cui verte la potenzialità della ketamina come farmaco antidepressivo sta nel diverso meccanismo di azione rispetto agli antidepressivi classici. 
Mentre questi ultimi agiscono sulle vie cerebrali della serotonina o della noradrenalina (o su entrambi), la ketamina agisce bloccando il recettore NMDA che lega il neurotrasmettitore glutammato, molecola centrale nei processi mnemonici e cognitivi.

La scoperta dell'azione antidepressiva della ketamina è tanto importante quanto inattesa. 
Le prime evidenze si hanno nel 2013 quando il gruppo di ricerca guidato da James Murrough del Mount Sinai Hospital di New York, mostrò alla comunità scientifica l'effetto terapeutico della ketamina con uno studio su 73 volontari affetti da depressione e insensibili ad almeno tre diversi trattamenti classici. Già 24 ore dopo il trattamento il 64% dei pazienti trattati mostrava una chiara diminuzione dei sintomi legati alla depressione!
Ricordo tuttavia che il semplice decremento dei sintomi depressivi non è di per sé sufficiente ai fini terapeutici. 
Una delle caratteristiche più pericolose associate ai trattamenti antidepressivi classici è, in assenza di attento monitoraggio, l'incremento del tasso di suicidio tra i pazienti. La cosa non deve stupire dato che un soggetto afflitto da un profondo stato depressivo è generalmente in uno stato tale da non avere la forza mentale per porre in atto le pur desiderate azioni di "soppressione dello stato di infelicità". La fase più critica è da sempre quella tra il momento in cui il soggetto comincia a manifestare un miglioramento (uscita dallo stato passivo) e quella in cui sono minimizzati gli effetti autodistruttivi. 
Il trattamento con ketamina, forse a causa della velocità dell'effetto, si è dimostrata in questo senso nettamente più sicura. Nessun paziente ha cercato di recare danno a se o agli altri né durante né dopo il trattamento.

Il lavoro di Murrough è continuato negli ultimi due anni e si è focalizzato sull'analisi per imaging funzionale (una tecnica assolutamente non invasiva) del cervello dei pazienti trattati, per cercare di capire "come" la ketamina modifichi la funzionalità cerebrale nell'espletare la sua azione terapeutica.

Aggiornamento. La ketamina sotto forma di spray nasale (esketamina) è stata approvata per la terapia antidepressiva da FDA e EMA nel 2019.



Articolo precedente sulla depressione --> qui e qui.

Fonte
- Antidepressant Efficacy of Ketamine in Treatment-Resistant Major Depression: A Two-Site Randomized Controlled Trial


Usare vitamine per ridurre il rischio di cancro? Ascoltiamo la scienza NON il marketing

E' possibile ridurre il rischio di cancro assumendo quotidianamente uno dei tanti integratori multivitaminici pluripublicizzati?

Una domanda non secondaria dato il ricco business che sfrutta (e stimola) la moda pseudo-salutista di usare integratori anche in assenza di deficienze vitaminiche accertate. Non a caso ho usato il prefisso "pseudo" per descrivere molti dei trattamenti para-farmacologici così di moda oggi tra chi si definisce attento alla propria salute.
Due sono gli aspetti che vale sempre la pena ricordare: gli integratori sono utili se in presenza di carenze alimentari primarie o secondarie (derivanti cioè da scompensi organici); l'abuso di vitamine può indurre tossicità sul breve (ipervitaminosi) e risultati dubbi sul lungo periodo come hanno mostrato i risultati dello studio SELECT che ha coinvolto circa 35 mila uomini per testare la capacità della vitamina E (nelle diverse forme e in associazione con selenio) di ridurre il rischio di tumore della prostata. Lo studio è stato interrotto in quanto non solo non erano emersi dati di efficacia del trattamento ma addirittura il rischio di tumore sembrava aumentato.
Altri studi sulle vitamine con esiti opposti alle aspettative che vale la pena menzionare riguardano il beta-carotene e il folato.
Nel caso del beta-carotene, il campione analizzato erano fumatori a cui vennero dati, in doppio cieco, integratori vitaminici contenenti alte dosi di beta-carotene oppure placebo. La frequenza di tumori polmonari nel primo gruppo aumentò in modo basso ma statisticamente significativo. Il beta carotene (che correttamente è considerato un ottimo anti-ossidante) ad alte dosi e in ambiente "inquinato" dai prodotti della combustione della sigaretta come l'epitelio polmonare, diventava un promotore della formazione dei danni al DNA invece di agire come protettore.
Il caso del folato riguarda invece uno studio sulla prevenzione del tumore del colon. Anche qui ad alte dosi l'effetto è opposto all'attesa azione protettiva.
E' di particolare interesse quindi il lavoro condotto da ricercatori di Boston volto a testare se e quanto l'utilizzo continuativo di integratori sia utile, innocuo o addirittura dannoso. Una domanda tanto più importante dato il numero e la tipologia di persone studiate (14 mila medici maschi e over-50) che hanno accettato di partecipare in prima persona a questa indagine durata oltre un decennio. In questo periodo i volontari hanno assunto, in cieco, un mix di vitamine essenziali e minerali oppure un placebo.

Il risultato è estremamente interessante: l'incidenza di cancro nei medici che avevano assunto le vitamine è diminuita dell'8 per cento, un numero che si concentra tra i soggetti a cui in passato era stata diagnosticata una neoplasia. Curiosamente, il trattamento sembra non avere alcun effetto sulla malattia principe degli uomini, il tumore della prostata. Nessuna evidenza di effetti collaterali se non, in alcuni soggetti, la comparsa di temporanee eruzioni cutanee.
Un dato  apparentemente importante, visto che l'8 per cento computato su migliaia di nuovi casi di tumore all'anno, sono un numero interessante da un punto di vista preventivo.

Però ...
... bisogna andarci cauti dato che vi sono delle incongruenze o semplicemente delle limitazioni alle apparenti potenzialità dello studio. La prima ovvia è che già oggi, soprattutto negli USA, più del 50% della popolazione utilizza un qualche tipo di integratore, quindi i margini di miglioramento sono esigui.
Anche la tipologia del campione non è ideale dato che si tratta di persone con alto livello di istruzione e soprattutto in grado di fare auto-diagnosi, quindi soggetti ideali per massimizzare l'impatto di un trattamento che in altri soggetti non sarebbe rilevabile. Che dire poi dell'età? Appartengono ad una generazione con abitudini alimentari e comportamentali (ivi compresi i dettami salutistici) diverse da quelli degli under-50, a cui il trattamento dovrebbe essere mirato.
Se a questo aggiungiamo che le linee guida dei ministeri della salute già oggi raccomandano di seguire una dieta equilibrata ricca di frutta e verdura, quindi già contenente le vitamine necessarie, allora l'impatto reale dell'uso di integratori deve essere notevolmente ridotto.

La cautela è d'obbligo soprattutto considerando gli interessi in gioco da parte dei produttori di integratori che fino a poco tempo fa non esitavano a dichiarare sulle confezioni (o nella pubblicità) i vantaggi associati all'uso i tali prodotti. I risultati dubbi emersi nell'ambito degli studi clinici hanno indotto a maggior cautela, come si evince dal fatto che frasi come "aiuta a prevenire il cancro del …", sono state rimosse dalle confezioni dei prodotti multivitaminici.

Precedenti articoli sul tema "vitamine" --> clicca l'etichetta corrispondente (oppure QUI)

Fonte
- Multivitamins in the Prevention of Cancer in MenThe Physicians' Health Study II Randomized Controlled Trial
J. Michael Gaziano et al, JAMA November 14, 2012, Vol 308, No. 18

Plutone. Siamo a - 2 settimane

Ci siamo quasi.
Mancano due settimane all'appuntamento con Plutone. Un corteggiamento iniziato nel 2006 con il lancio della sonda New Horizons.
Plutone e la sua luna più grande, Caronte visti dalla sonda il  29 giugno quando era distante 18 milioni di km. Credit: space.com / NASA/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Southwest Research Institute
Dal momento in cui è stata scattata la foto la sonda si è già avvicinata a 16 milioni di chilometri e con l'avvicinamento la qualità delle immagini è in costante miglioramento (confrontate quelle altamente pixellate disponibili solo poche settimane fa --> QUI per il resoconto della missione).
Data la distanza sono necessarie circa 4,5 ore perché il segnale inviato dal centro di controllo sulla Terra arrivi a destinazione (4,8 miliardi chilometri!!). Questo implica che ogni comando inviato deve tenere conto della distanza a cui si troverà la sonda quando riceverà il messaggio in modo da non puntare l'obiettivo del Long Range Reconnaissance Imager verso il vuoto.
Ora inizia la fase critica.
Come descritto in precedenza, l'avvicinamento porterà la sonda in una zona "sporca" (tipica di ogni planetoide) dove il rischio di collisione con oggetti imprevisti aumenta sensibilmente.
Questo è il motivo per cui in questi ultimi giorni gli astronomi continueranno ad analizzare i dati provenienti da New Horizons allo scopo di individuare per tempo le zone ad alto rischio e correggere la rotta (continua QUI).


--> vedi QUI per le notizie aggiornate
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