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Gli scarabei usano lo sterco come refrigerante

Cosa vi viene in mente se dico scarabei stercorari? Facile, le palline di sterco che questi laboriosi coleotteri spingono indifferenti alle tante asperità del terreno.  Una tale dedizione si spiega con la preziosità del trasporto da noi ingiustamente sottostimato; oltre ad essere una fonte di nutrimento (de gustibus…) e luogo di deposizione delle uova, lo sterco viene usato anche per difendersi dal clima torrido delle savane africane. 
Credit: Wikipedia (Author=NJR ZA)

Il povero insetto in effetti si trova a zampettare in un luogo alquanto inospitale dato il calore del terreno surriscaldato dal sole equatoriale. Le zampe e la testa ovviamente sono le prime aree a surriscaldarsi, e non è una esagerazione. Nelle giornate più calde le zampe a contatto con il terreno possono raggiungere i 60 gradi (!!). 
Credit: thais.it 

E qui viene il vantaggio offerto dalla pallina di sterco, che ha la grande proprietà di rimanere ad una temperatura intorno a 30 gradi centigradi. Ecco allora che il coleottero ne approfitta, usandola come luogo di sosta: si ferma, sale in cima alla pallina e comincia a toccarsi prima la testa con le zampe anteriori e infine mette la bocca a contatto con le zampe posteriori. Secondo Jochen Smolka, un etologo della università di Lund in Svezia e autore di un articolo a tal proposito apparso su Current Biology, il coleottero durante la sosta rigurgita anche del liquido con cui rinfrescarsi, "durante le ore più calde della giornata questi insetti salgono sulle palline fino a sette volte più frequentemente di quanto fanno i coleotteri che si muovono su un terreno fresco. Ogni volta rimangono in quella posizione per circa sei secondi prima di scendere e continuare a spingere la pallina".
Per verificare la correttezza dell'osservazione i ricercatori hanno ricoperto con silicone le zampe anteriori dello stercorario creando così a tutti gli effetti degli stivali isolanti. Dopo questo trattamento l'insetto non sentiva più il bisogno "urgente" di rinfrescarsi rifugiandosi in cima alla pallina di sterco.

Rimane da capire ora il contributo rinfrescante del liquido rigurgitato.

Fonti
- Dung beetles use their dung ball as a mobile thermal refuge.
J. Smolka et al, Curr Biol. 2012 Oct 23;22(20)

Tibetani e i geni denisoviani: il contributo di un popolo estinto all'adattamento

In un precedente articolo descrissi l'affascinante susseguirsi di eventi che portò alla scoperta del ramo "denisoviano" del genere Homo. Un "parente" fino ad allora sconosciuto, ed estinto, tra quelli più prossimi a noi, oltre agli arcinoti neanderthal (vedi QUI).
Due furono i "miracoli" che resero possibile questa scoperta:
  • il riconoscimento (come tale) di un mini reperto, trovato in un'area ricca di fossili neanderthaliani, riconducibile ad un piccolo ossicino delle falangi (vedi foto a lato);
  • l'eccezionale stato di conservazione che ha permesso non solo di estrarne il DNA ma di ottenere l'intera sequenza genomica. E furono proprio i dati genomici (grazie alla comparazione delle sequenze di riferimento) ad evidenziare che non si trattava di un fossile neandertaliano e tanto meno di un sapiens pur essendone chiaramente "parente". Il reperto doveva appartenere ad una altra specie di ominide, ribattezzato Homo denisova. Articolo successivo sul tema --> Ricostruito l'aspetto di un denisoviano grazie alla epigenetica.
l frammento osseo da cui si è risaliti al genoma denisoviano
(credit: MPI for Evolutionary Anthropology, Germany)

Il termine "specie" in realtà non sarebbe corretto in quanto in biologia tale attributo identifica organismi strettamente imparentati ma non in grado di generare progenie fertile (esempio classico di specie diverse sebbene molto affini sono l'asino e il cavallo la cui progenie è sterile). Dato che tutte le popolazioni non-africane (e vedremo sotto perché) hanno conservano tracce genetiche di Neandertal (tutti) e di Denisova (principalmente melanesiani, tibetani e alcune popolazioni delle Filippine), gli incroci tra sapiens e denisoviani sono avvenuti e hanno, ovviamente, generato una prole fertile. Quindi sarebbe meglio catalogare questo ramo del nostro albero genealogico come sub-specie.

I dati genetici ci mostrano che i nostri antenati non avevano remore di fronte alla prospettiva di accoppiarsi con altri ominidi. Questo è da sempre noto per quanto riguarda le primissime fasi dell'evoluzione del genere Homo (quando ancora risiedeva in Africa) ma per quanto riguarda il sapiens è sempre stato fonte di dibattito. Prima di tutto perché non si era sicuri del fatto che sapiens e neandertal si fossero mai incontrati e poi perché era difficile fare previsioni sulla compatibilità genetica tra i due. Le conoscenze (oltre all'evoluzione della tecnologia) derivate dal completamento del Progetto Genoma hanno fugato i dubbi dimostrando la presenza di DNA neandertaliano in tutte (e solo) le popolazioni sapiens non africane. Una acquisizione fondamentale nel processo di adattamento alle zone climaticamente sfavorevoli che il sapiens (ultimo tra gli ominidi ad abbandonare l'Africa) si trovò ad affrontare nel suo percorso dal medio-oriente verso Europa e Asia. Una rotta che lo portò a transitare in aree abitate da cugini Neandertal già adattatisi (vivevano li da almeno 100 mila anni) ai climi più freddi e meno luminosi del nord. Questa la ragione che spiega perché le odierne popolazioni africane siano prive di ogni traccia di neandertal e perché etnie anche molto lontane tra loro (un calderone che va dal melanesiano al nativo americano all'europeo) ne siano invece dotate.
Nota. Il genoma della maggior parte degli europei e asiatici contiene il 2-4% di DNA neanderthaliano. Il DNA denisoviano oscilla tra tracce minime fino al 5% del genoma dei melanesiani.
Ora a distanza di qualche anno dalla scoperta dell'Homo denisova nuovi dati permettono di collocare i tibetani tra gli eredi dei denisoviani e di spiegarne così il loro "rapido" (geneticamente parlando) adattamento alle alte quote.
I tibetani e la loro "innata" capacità di vivere ad alta quota (Credit: Beijing Genomics Institute via domeonline.co.nz)
Andiamo con ordine.
Vivere ad alta quota non è semplice per il nostro organismo principalmente a causa della bassa pressione di ossigeno che da 159 mm Hg a livello del mare si abbassa a 110 mm Hg a 3000 metri. 
Gli alpinisti professionisti conoscono i rischi associati al mal di montagna (che può comportare un semplice mal di testa ma degenerare in edema polmonare e morte) e li minimizzano mediante un graduale processo di adattamento o limitando il tempo di permanenza ad alta quota.
La bassa percentuale di ossigeno attiva meccanismi regolatori distinti  a seconda del tempo di permanenza in tali condizioni. Nel breve termine (ore o giorni) l'aumento della frequenza respiratoria e del battito cardiaco faciliterà l'ossigenazione dei tessuti compensando così la minore efficienza di carico dell'ossigeno sull'emoglobina (costruita per essere "saturata" a pressioni parziali di ossigeno maggiori). A lungo andare tuttavia  questo sforzo circolatorio provocherebbe un eccessivo affaticamento al sistema respiratorio e vascolare, motivo per cui entrano in azione contro-misure più efficaci e durature come l'aumento degli eritrociti e del volume ematico che aumentano l'emoglobina circolante e la capacità di perfusione dei tessuti. In parallelo si ha un lieve aumento del numero di mitocondri e del livello di enzimi ossidativi così da massimizzare la capacità cellulare di utilizzare l'ossigeno. 
Lo svantaggio di questo adattamento è la maggiore viscosità del sangue dovuta ad una aumentata cellularità, da cui l'aumentato rischio di problemi cardiovascolari per chi vive ad alta quota. Altri problemi noti sono un alto tasso di mortalità infantile.

Nonostante queste premesse, i tibetani sono un mirabile esempio di popolo perfettamente adattato al proprio ambiente. I motivi, come ovvio, sono rintracciabili nella genetica e, cosa per me più interessante, nella antropologia evolutiva.
Uno studio pubblicato su Nature da un team della University of California a Berkeley, spiega che i tibetani devono questa resistenza ad un allele (variante genica) ereditata dai denisoviani almeno 40 mila anni fa (periodo in cui si ritiene si siano estinti).
Questa variante ha permesso loro di sopravvivere ai bassi livelli di ossigeno presenti a 4500 metri senza per questo soffrire delle problematiche cardiovascolari (tra cui il sangue denso) attese. Una conferma, secondo gli autori dell'articolo, "che il processo adattivo ha sfruttato i geni di un'altra specie".

Il gene chiave, chiamato EPAS1, si attiva quando il livello di ossigeno ematico scende, ed è l'interruttore che da il via alla catena di eventi che porta all'aumento dei livelli di emoglobina. Non a caso alcune varianti di questo gene sono state ribattezzate come il "gene del superatleta" in quanto a basse altitudini rende l'atleta capace di trasportare molto più ossigeno nel sangue, aumentando la resistenza alla fatica muscolare. Queste varianti "comuni" nella popolazione generale non sono però particolarmente utili ad alta quota se non nel breve periodo proprio perché aumentano il numero di globuli rossi e quindi la viscosità ematica.
La variante presente nei tibetani è diversa nel senso che è meno responsiva alla minore pressione di ossigeno; vale a dire che il livello di emoglobina aumenta si ma meno di quanto avviene con la forma classica del gene. L'incremento è sufficiente per ossigenare il sangue ma non tale da provocare gli effetti indesiderati sopra descritti.
L'adattamento genetico a vivere in alta quota presenta alcuni tratti comuni alle diverse popolazioni e altri specifici per ciascuna. Caratteristica comune è l'aumento del volume polmonare che si evidenzia dall'esterno con una più ampia gabbia toracica. Un incremento del volume polmonare si associa ad un aumento della superficie alveolare e quindi una più efficiente ossigenazione del sangue.
Riguardo ai tratti specifici questi variano a seconda della popolazione in esame. Le popolazioni andine hanno un maggior numero (per unità di volume) di globuli rossi e di emoglobina, grazie alle quali aumenta la capacità di trasporto di ossigeno. Si tratta di un adattamento reversibile perché in caso di permanenza a bassa quota per qualche settimana, i valori diventano simili a quelli degli abitanti di bassa quota. Se analizziamo invece i tibetani, oltre a quanto letto nei paragrafi precedenti, l'adattamento è di tipo respiratorio con respiri profondi e veloci a cui si aggiunge un maggior diametro dei vasi sanguigni. In questo caso si tratta di una modifica permanente che non varia anche in seguito al cambio di residenza. Gli etiopi degli altopiani non presentano invece alcuno dei precedenti adattamenti ma hanno una variante polimorfica del gene codificante per il recettore di tipo B della endotelina, che conferisce maggiore resistenza cardiaca alla carenza di ossigeno.
Ebbene, questa rarissima variante genetica (di fatto presente solo nei tibetani) è presente nel DNA denisoviano. Nemmeno gli Han, l'etnia cinese più comune che per ragioni geografiche dovrebbe essere più affine ai tibetani, ha questo allele. Il fatto che i tibetani abbiano pochissimo DNA denisoviano rispetto ai melanesiani (lo 0,1% contro il 5%) è un'altra indicazione del vantaggio selettivo centrato sull'allele EPAS1.

Lo scenario evolutivo-migratorio più probabile ad oggi vede i sapiens provenienti dall'Africa incrociarsi prima con i neanderthal (e da qui l'origine di tutte le popolazioni non africane) e poi, nella marcia verso oriente, l'incontro con i denisoviani. Ci sarebbe stata a questo punto una separazione tra coloro che colonizzarono il Tibet e tutti gli altri che invece avrebbe continuato a vivere a bassa quota. Nel primo caso la variante genica sarebbe stata conservata proprio per il vantaggio selettivo associato, mentre negli altri orientali questo allele si sarebbe "diluito" nel corso delle migliaia di generazioni successive in quanto né utile né dannosa (quindi non selezionata). 
Non è chiaro ad oggi se le popolazioni ad oggi più simili ai denisoviani (i negritos delle Filippine ad esempio) siano originate dallo stesso contatto che poi ha portato ai tibetani.
L'espansione umana e l'incontro con i "cugini" Homo ( credit: KR Veeramah & MF Hammer / Nature Reviews Genetics). Altra mappa utili alla comprensione QUI.

E' oggi evidente che il percorso evolutivo della specie sapiens si è avvalso del contributo di altre specie del genere Homo oramai estinte, di cui nulla sapremo in assenza di miracolosi ritrovamenti fossili, sufficientemente conservati da poterne analizzare il DNA. La speranza è quella di imbatterci  in reperti come quelli ritrovati in una grotta dell'Asia centrale (i reperti trovati in Sudafrica poche settimane fa sono molto interessanti ma anche ben anteriori alla comparsa dei sapiens --> Homo maledi).

Uno studio recentemente pubblicato su Current Biology ha permesso di aggiornare la mappa della frequenza degli alleli denisoviani. Il colore da rosso a verde arrivando al nero è rappresentativo della diminuita presenza di alleli. I dati hanno permesso anche di aggiornare il momento dell'incrocio tra sapiens e denisova (tra 44 e 54 mila anni fa) e del sapiens con neanderthal (50-60 mila anni fa).
*** aggiornamento maggio 2019 ***
Un reperto osseo (la porzione inferiore di una mandibola) rinvenuto all'inizio degli anni '80 da un monaco tibetano in una grotta in località Baishiya Karst è stato ora ufficialmente catalogato come reperto denisovano il che lo pone come primo reperto della specie mai rinvenuto oltre a quelle della grotta Denisova (--> Nature)
Credit: Dongju Zhang, Lanzhou University via Nature

Articolo successivo su denisovani e tibetani --> "DNA denisovano in una grotta tibetana"

Altri articoli correlati su questo blog
sul tema "evoluzione recente genere Homo --> QUI
 Sull'origine degli amerindi --> QUI
Sui temi di antropologia --> QUI

Fonte
- Altitude adaptation in Tibetans caused by introgression of Denisovan-like DNA 
Emilia Huerta-Sánchez et al, (2014) Nature 512, 194–197

- The Combined Landscape of Denisovan and Neanderthal Ancestry in Present-Day Humans 
S. Sankararaman et al, (2016)  Current Biology

Taglio del cordone ombelicale. Aspettare è meglio

Il taglio del cordone ombelicale dopo il parto è un atto condiviso da tutti i mammiferi con un intervento più o meno attivo della madre (ad esempio la cagna rompe con i denti il cordone ombelicale).
credit: whattoexpect.com
Dato che il cordone ombelicale non ha solo la funzione di nutrire il feto ma anche di "farlo respirare", un ruolo quindi fondamentale anche dopo il parto prima che il bambino inizi a respirare da solo, la comunità medica si è posta il dilemma sull'intervallo di tempo ottimale tra nascita e taglio del cordone.
Lo studio svedese pubblicato sulla rivista JAMA Pediatrics ha risposto a questo quesito comparando lo sviluppo neurologico di 263 neonati (tutti nati a termine) alla metà dei quali era stato tagliato il cordone immediatamente e all'altra metà dopo tre minuti. I bambini il cui cordone ombelicale era stato tagliato tre minuti dopo la nascita hanno mostrato negli anni successivi (intorno ai 4 anni) capacità motorie ed abilità sociali migliori rispetto a quelli il cui cordone era stato tagliato subito.
Le spiegazioni possibili sono varie, ma la più ragionevole è che ritardando il taglio si massimizza la quantità di nutrienti e di ossigeno fornito al neonato nello stressante momento della nascita: il volume di sangue del bambino aumenta fino a un terzo del normale e così lo stoccaggio del ferro, tutti fattori importanti per lo sviluppo del cervello. Più sangue irrora i polmoni e maggiore l'efficienza di "caricamento" dell'ossigeno atmosferico; quindi minore il rischio di una temporanea ipossia.

Curiosamente, questa differenza nelle performance tra i due gruppi è stata riscontrata solo nei maschi. I test effettuati sulle bambine non hanno evidenziato variazioni significative nelle performance sociali e nei test di QI, indipendentemente dall'intervallo di tempo prima del taglio. Una ipotesi è che le ragazze godano di una protezione supplementare grazie a livelli di estrogeni più alti quando si trovano nel grembo materno.

Il lavoro è il primo ad essersi focalizzato sul follow-up dei neonati. Altro dato che emerge è la definitiva messa in soffitta della credenza che spingeva a chiudere subito la connessione ombelicale per evitare perdite di sangue per la madre.

Le linee guida attuali redatte dall'Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandano il bloccaggio del cordone almeno un minuto dopo il parto.

Fonte
- Long-term Follow-up of Placental Transfusion in Full-term Infants
Heike Rabe et al,  JAMA Pediatr. Published online May 26, 2015.

I disturbi del sonno come predittori di malattie neurologiche

I ricercatori dell'università di Toronto ne sono convinti: i disturbi del sonno sommati ai movimenti del dormiente sono tra i migliori predittori nei soggetti altrimenti sani di malattie future come il Parkinson e l'Alzheimer.
credit: scientific american
"Il Rapid-eye-movement sleep behaviour disorder  (RBD) è un campanello d'allarme indicante un potenziale processo neurodegenerativo in atto che alla lunga può sfociare in una malattia conclamata" ha affermato John Peever, uno degli autori dell'articolo apparso su Trends in Neuroscience.
Non si tratta di numeri che lasciano molto spazio all'immaginazione, quelli forniti da Peever: "più dell'80% delle persone con RBD svilupperà una malattia del cervello".
L'acronimo RBD è già di suo indicativo di qualcosa di anomalo in atto. Sappiamo che durante la fase REM i sogni sono più vividi grazie ad una maggiore attività corticale. Sebbene uno possa sognare di correre, arrampicarsi o litigare, il corpo rimarrà ben fermo nel letto; una sorta di cintura di sicurezza del sonno REM, causata dalla paralisi della muscolatura scheletrica che previene situazioni potenzialmente pericolose sia per sé stessi che per chi dorme accanto. Tale paralisi associata ad piena attività corticale (simile a quella presente nel soggetto sveglio) spiega anche la sensazione di sforzo provata quando si sogna di correre, ben superiore a quella del correre "realmente".
RBD (© wikipedia; video completo QUI)
Non sempre però questo "freno a mano" funziona. O forse sarebbe meglio dire che quando questo freno non funziona la causa va ricercata in anomalie neurologiche ancora asintomatiche nella fase di veglia. Nei soggetti a rischio non compaiono semplicemente nuovi movimenti durante il sonno (diversi a seconda della fase del sonno) ma movimenti degli arti ben marcati, anche molto violenti (appunto perché completamente fuori dal controllo conscio); talmente incontrollati da causare non di rado lesioni al partner o a sé stessi.
Il motivo di questa perdita di tenuta del freno a mano è, secondo gli autori, da ricercare nel fatto che le aree del cervello che controllano il sonno sono le prime ad essere colpite in malattie come l'Alzheimer.

Se i dati verranno confermati, i medici avranno un ulteriore strumento per una diagnosi precoce di malattie ad elevato impatto sociale in una società che invecchia velocemente. E' vero che purtroppo non esistono ancora farmaci in grado di bloccare (e tanto meno di invertire il decorso) tali malattie neurologiche, ma esistono farmaci in grado di contenerne alcuni sintomi, tanto più efficaci quanto prima sono assunti. Se si considera che i sintomi di molte malattie neurodegenerative compaiono "tardivamente" (grazie all'enorme plasticità del cervello) quando più dell'80 % dei neuroni coinvolti sono morti, diviene ancora più evidente quanto sia importante identificare marcatori precoci della malattia.
Nota. Nel caso del Parkinson i sintomi motori divengono clinicamente evidenti quando almeno il 60 per cento dei neuroni dopaminergici nel nucleus accumbens sono morti e quando il contenuto di dopamina nello striato è calato del 80 per cento. La plasticità cerebrale è uno dei miracoli della biologia ma in questo caso è in grado di rallentare la comparsa di sintomi finché il danno diventa troppo esteso.
Vantaggio non secondario di una diagnosi precoce è che sarà possibile reclutare negli studi clinici per farmaci sperimentali solo soggetti ideali cioè le persone che, dato la limitatezza dei danni neuronali accumulati, sono maggiormente responsivi alla terapia. Del resto è evidente che sperare di bloccare, o addirittura invertire, la sintomatologia quando i danni sono estesi è una ipotesi al momento irrealizzabile. Fare i test su pazienti con alterazioni troppo ampie ha come ovvia e nefasta conseguenza quella di cestinare opportunità terapeutiche funzionanti se assunte precocemente. Il problema ad oggi è proprio quello di identificare i soggetti a rischio prima che il danno si manifesti.
Questo studio, se confermato, fornirà un aiuto su questo problema irrisolto.

Articolo successivo su Alzheimer (--> QUI) e sonno (--> QUI).

(potrebbe anche interessare --> "Linee guida sul sonno ottimale" e articoli sull'argomento "Alzheimer", "Neuroscienze" e "Sonno)

Fonte
- Breakdown in REM sleep circuitry underlies REM sleep behavior disorder
   John Peever et al, Trends in Neurosciences (2014), 37(5) p279–288

Le alghe hanno virus pericolosi per noi?

Molti virus umani ben noti, tra cui poliovirus, virus della rabbia e West Nile virus, hanno la capacità di infettare le cellule del sistema nervoso con conseguenze molto serie ma diverse a seconda delle cellule colpite. 
Ma questa non è una novità.
La domanda odierna è se un virus che infetta le alghe possa causare alterazioni neurologiche nell'essere umano.
Nota. In linea generale i virus sono "quasi-organismi" (vedi il perché QUI) altamente specifici raramente in grado di infettare cellule diverse rispetto al bersaglio anche nello stesso organismo (ad esempio l'HIV non è in grado di infettare una cellula muscolare o un adipocita sebbene sia molto bravo ad infettare i linfociti dello stesso individuo). Per uguali motivi un virus umano non è quasi mai pericoloso per il nostro cane o gatto. Perché un virus superi la barriera della specie è necessario non solo che il recettore riconosciuto sia pressoché identico tra le due specie (condizione necessaria per entrare nella cellula) ma che sia tale anche il sistema biochimico e genetico che regola la proliferazione cellulare (fondamentale perché il virus si replichi). Quando tutte queste condizioni si verificano allora si può parlare di zoonosi virale, cosa ben diversa dalla possibilità di contrarre malattie causate da microorganismi come batteri, funghi o protozoi; in questi casi l'azione patologica è mediata da tossine (ad esempio il botulino) e/o causata dalla proliferazione incontrollata di tali microbi con modalità sostanzialmente indipendenti dal macchinario cellulare dell'ospite. Se quindi la possibilità che un virus di scimmia infetti un umano (e viceversa) è "ragionevole", la probabilità teorica che un virus di una pianta o di una alga sia in grado di "usare" una cellula animale è sostanzialmente nullo. Una nozione ben nota a chiunque abbia pratica di laboratorio, dato l'ampio utilizzo di virus batterici come il fago Lambda innocui per qualuque organismo eucariotico.
Nessun problema quindi. O no?!
Quale è il razionale per l'allarme lanciato da alcuni ricercatori sulla potenziale tossicità dei virus delle alghe per l'essere umano o meglio per i mammiferi in generale?

I chlorovirus sono grossi (fino a 220 nm) virus a DNA che infettano alghe unicellulari note come zooclorelle. Come è possibile allora che siano state trovate sequenze di DNA di questo virus nella zona orofaringea di 40 su 92 individui (pari al 43,5%) testati nell'ambito di uno studio su capacità cognitive e ambiente?
La struttura del chlorovirus (fonte: Van Etten / ViralZone)

Una contaminazione ambientale fu la prima e ragionevole ipotesi. Il problema sorse quando si scoprì che vi era una correlazione lieve, ma statisticamente significativa, tra la presenza di questo chlorovirus e una minore performance in alcuni test di velocità visiva, memoria e capacità di attenzione nei soggetti analizzati.
Alga unicellulare infettata da chlorovirus
Credit: Kit Lee and Angie Fox, UNL
Ancora più inquietante il fatto che quando topi di laboratorio furono alimentati con cibo contenente alghe infettate dal virus, i dati su una ridotta prestazione nei test sopracitati vennero confermati. Ad aggiungere "pepe" al risultato la successiva scoperta che l'espressione genica nell'ippocampo dei topi poco performanti era alterata.
Ricordo che l'ippocampo è la parte del cervello essenziale per apprendimento, memoria e comportamento. 
Potrebbe ancora trattarsi di un falso allarme dovuto ad un effetto indiretto o un epifenomeno ma la coincidenza merita attenzione.
Alcuni degli animali alimentati con alghe infette hanno poi sviluppato anticorpi contro il virus, una chiara indicazione che il virus non è semplicemente penetrato (o stato catturato) nell'organismo ma si è anche replicato.
 
Nell'essere umano le evidenze sono molto più scarse, anzi direi unicamente legate al DNA virale trovato nella cavità orofaringea.
Dato che i chlorovirus sono molto comuni nelle acque lacustri le persone "infettate" potrebbero essere venute facilmente a contatto i virus inalando o bevendo acqua contaminata (magari mentre nuotavano). Non ci sono evidenze che il virus sia in grado di replicarsi nell'essere umano e quindi la correlazione con i deficit cognitivi potrebbe essere legata ad un campionamento statistico troppo debole. D'altro canto è possibile che la co-esposizione al virus insieme ad altri comuni (purtroppo) inquinanti ambientali come i metalli pesanti possa avere giocato un ruolo non secondario.
Forse non è una buona idea nuotare qui (©reuters). Anche perché la tossicità delle alghe non è legata ad un virus ma a tossine (tipico esempio è l'alga Ostreopsis ovata)

I risultati sono interessanti e meritano di essere approfonditi, per prima cosa analizzando un campione molto più ampio di persone sia per la per la presenza di DNA virale che per la presenza di anticorpi specifici.
 

Fonte
- Chlorovirus ATCV-1 is part of the human oropharyngeal virome and is associated with changes in cognitive functions in humans and mice 
Robert H. Yolken et al, PNAS vol. 111 no. 45  pp.16106–16111

La faccia nascosta della Luna vista dal satellite DSCOVR

Le foto della faccia nascosta della Luna campeggiano in questi giorni su quotidiani, riviste e blog anche solo minimamente interessati ai temi astronomici. In realtà non si tratta di immagini nuove (come sono invece le immagini di Plutone); l'elemento di novità che ha promosso l'immagine è rappresentato dall'allineamento visivo Luna-Terra.
Tuttavia, come spesso accade, il 99,9% degli articoli che hanno accompagnato la foto si sono limitati a riportare il testo dell'agenzia o la traduzione del comunicato della NASA senza approfondire l'aspetto, a mio parere, più interessante cioè come è nata la foto. Domande sulla natura della missione del satellite che ha fatto le riprese, a che distanza si trova dalla Terra e che orbita segue, ritengo siano gli elementi che il lettore meno che distratto potrebbe voler conoscere.

La prima cosa che colpisce di queste foto è la posizione; per riuscire a catturare la serie Luna-Terra (e non viceversa) il punto di ripresa deve situarsi non solo ben oltre l'orbita standard dei satelliti ma soprattutto al di là dell'orbita lunare. A questa prima osservazione dovrebbe seguire la domanda sul tipo di orbita seguita dal satellite: solare; terrestre; coppia Terra-Luna?
Uno schema semplificato delle orbite "classiche" usati dai satelliti (zoom QUI). Credit: Rrakanishu

La maggior parte dei satelliti, siano essi civili o militari, ha il compito di "coprire" il nostro pianeta o anche solo porzioni di esso; tipici esempi di satelliti "prossimali" sono i satelliti per le telecomunicazioni, quelli che assicurano la copertura GPS e quelli meteo. All'interno di questa categoria si trovano poi i satelliti in orbita geostazionaria (o meglio isosincrona) che per essere tali devono trovarsi a circa 42 mila km dal centro della Terra. Sottraendo il raggio della Terra all'equatore si ottiene il valore è pari a 36 mila km di altezza.
Orbita isosincrona: orbita stabile, tale per cui Forza centrifuga=Forza gravitazionale, e il periodo di rotazione sia uguale a quello del pianeta attorno a cui orbita. Nel caso di un satellite geostazionario il periodo di riferimento è 23 ore, 56 minuti e 4,09 secondi. 
La formula per calcolare l'orbita geostazionaria
Nota. La Luna si trova ad una distanza media di 385 mila km ed ha un orbita sincrona, cioè ha ha un periodo di rivoluzione pari al periodo di rotazione medio del corpo orbitato. In altre parole mostra sempre la stessa faccia ma non è geostazionaria e infatti la vediamo "muoversi" in cielo. Tra le coppie pianeta/satelliti naturali l'unico, tra quelli noti, che credo abbia orbita isosincrona e sincrona è la coppia Plutone-Caronte: un plutoniano vedrebbe non solo sempre la stessa "faccia" di Caronte (come noi con la Luna) ma la vedrebbe ferma nella stessa posizione.
Un satellite in orbita ad una distanza diversa da quella geostazionaria si muoverà più lentamente (o velocemente se ad una altezza inferiore) rispetto alla rotazione della Terra e quindi ci apparirà in movimento.

Un'altra categoria è quella dei satelliti progettati per vedere altro rispetto alla Terra, siano questi telescopi spaziali come Keplero (posti appena all'esterno dell'orbita terrestre e con orbita eliocentrica) o satelliti interessati all'attività solare come DISCOVR (orbita interna a quella terrestre ed eliocentrica) che ha fatto le foto di cui oggi ci occupiamo.
Il telescopio Hubble è una eccezione in quanto pur essendo votato primariamente all'osservazione dello spazio è sufficientemente prossimo alla Terra da avere un orbita geocentrica.
L'acronimo DSCOVR sta per Deep Space Climate Observatory e ha una missione duplice: monitorare il Sole e la Terra. Per tale motivo si è scelto di posizionarlo in orbita nell'area nota come punto di Lagrange 1 (L1), il che assicura piena e costante visibilità del Sole e della Terra senza "eclissi" reciproche.
In figura sono mostrati i punti di Lagrange in un sistema a 3 corpi: si tratta delle aree in cui un oggetto di massa molto inferiore ai 3 attori, ad esempio un satellite, è sottoposto a forze gravitazionali che si annullano tra loro. Il risultato è un orbita stabile. Per una raffigurazione dei pozzi gravitazionali e del perché i punti L siano stabili vedere QUI. (credit: Xander89).
Nota. Tra le funzioni principali del satellite DISCOVR vi è quella di rilevare in anticipo ogni variazione del campo magnetico solare e anomale emissioni di particelle durante eventi noti come espulsioni di massa coronale, il cui impatto su reti elettriche, telecomunicazioni e funzionamento dei satelliti può avere serie conseguenze. Grazie alla posizione, il satellite è in grado di lanciare un allarme, in caso di tempesta solare, 30-45 minuti prima che le particelle colpiscano l'alta atmosfera terrestre, un tempo sufficiente per prendere le contromisure adeguate.
A questi compiti si aggiungono misurazioni sia della radiazione riflessa che di quella emessa dalla Terra oltre che le immagini multi-spettrali del lato soleggiato del nostro pianeta.
credit: NASA e NOAA
Il punto L1 si trova a circa 1,5 milioni di km dalla Terra ed è l'area in cui la forza gravitazionale esercitata dal binomio Terra-Luna sul satellite equivale a quella esercitata dal Sole. Il vantaggio è che in tale posizione il satellite godrà di una orbita quasi-stabile sul lungo periodo ovvero richiedente pochissime correzioni orbitali (e quindi pochissimo consumo di carburante).
Altro vantaggio è che a differenza delle orbite "classiche" dei satelliti, il DSCOVR rimane costantemente nella zona di luce solare permettendo così un monitoraggio continuo della nostra stella. Per lo stesso motivo avrà anche piena visibilità della Terra mentre ruota intorno al suo asse. Per motivi simili i satelliti geocentrici coprono una porzione ridotta della superficie terrestre.

Articoli riguardanti la Luna in questo blog --> qui.

Il mistero del buco nero nell'universo primordiale

La presenza di buchi neri supermassicci non è da tempo una notizia in grado di fare sobbalzare sulla sedia un amatore della materia e tanto meno un astrofisico. Si ritiene in effetti che quasi ogni galassia ospiti al suo centro uno di questi giganti le cui dimensioni, nei casi estremi, sono pari a quelle del Sistema Solare.


Sebbene secondo la teoria della relatività generale possano esistere buchi neri di qualunque  massa, i buchi neri più facili da predire sono i più "modesti" buchi neri stellari, originati dal collasso gravitazionale di una stella massiccia (massa almeno 20 volte quella solare) nella fase successiva all'esplosione della supernova.  In assenza di contributi esterni, questi buchi neri avranno una massa compresa tra 5 e una decina di volte quella del Sole, il tutto concentrato in una sfera di pochi km di raggio. 
Nota. Maggiore la massa delle stelle e minore la loro vita, proprio grazie al fatto che la massa rende possibile "l'accensione" delle reazioni di fusione nucleare energicamente più difficili da iniziare. Alla fine della sua "vita" (e parliamo di pochi milioni di anni contro i 10 miliardi di una stella come il Sole), quando avrà consumato tutto il materiale utile per generare energia sufficiente a bilanciare l'enorme forza gravitazionale, la materia collasserà verso il centro generando una supernova e un buco nero stellare. Questa è la ragione per cui le cosiddette stelle ipergiganti sono rare; il loro veloce ciclo vitale le rende molto rare all'interno della galassia rispetto alle stelle di dimensioni minori.
Buchi neri più piccoli sono, come detto, previsti; le loro dimensioni devono rispettare parametri come il raggio di Schwarzschild, che definisce la dimensione di una sfera tale che, se tutta la massa di un oggetto dovesse essere compressa in tale ambito, la velocità di fuga dalla superficie della sfera sarebbe uguale alla velocità della luce. In altre parole sono teoricamente possibili anche buchi neri più piccolo di 1 mm. Come questi possano formarsi e dove (se esistono) si trovino è tutt'altro problema.

L'emissione di raggi gamma al centro della
Via Lattea
è uno degli indizi della presenza
di un buco nero
Discorso ancora diverso per i buchi neri supermassicci sulla cui origine ci sono diverse ipotesi, la più semplice delle quali è la fusione con altri buchi neri. In questo caso la massa può raggiungere valori incredibili; il record attuale va al quasar S5 0014+81, con 40 miliardi di volte la massa del Sole. Tra quelli massicci il più vicino a noi, al centro della Via Lattea, è noto come S2 (nella regione Sagittarius A) ed ha circa 4 milioni di volte la massa del Sole.

Quale è stata allora la scoperta che ha stupito qualche mese fa gli astrofisici, da tempo avvezzi a questi giganti?
La scoperta di un buco nero supermassicio (massa 12 miliardi quella del Sole) distante da noi - e questa è la notizia - 12,9 miliardi di anni luce
Facendo un calcolo semplice semplice, la radiazione proveniente da questo oggetto (un qasar) arriva da un tempo in cui l'universo aveva circa 900 milioni di anni, se si fa partire l'orologio al momento del Big Bang. Un tempo troppo breve per riuscire a ipotizzare con chiarezza come abbia avuto il tempo per formarsi a meno che la dinamica della formazione di questi oggetti segua regole diverse dall'atteso.
Tra i modelli proposti vi è quello di una nube di gas collassata, in un tempo precedente alla comparsa della prima stella, in un quasi-qasar e quindi in un buco nero di massa circa 20 volte quelle del Sole; nelle fasi successive questo gigante solitario si sarebbe accresciuto a spese del gas circostante e delle vicine proto-stelle. Ad indicare l'elevato tasso di accrescimento di questo buco nero il fatto che la radiazione prodotta è maggiore di quella cosmica "dell'epoca".
Una domanda che sorge spontanea dall'osservare un oggetto pescato negli abissi del tempo è che fine abbia fatto questo buco nero? E' cresciuto sempre più di dimensioni diventando uno dei giganti descritti sopra oppure è evaporato (radiazione di Hawking)? Una ipotesi quest'ultima improbabile dato il tempo necessario affinché ciò avvenga (link). 
La domanda, temo, rimarrà a lungo inevasa.

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Fonte
- An ultraluminous quasar with a twelve-billion-solar-mass black hole at redshift 6.30
Xue-Bing Wu et al, Nature 518, 512–515 (2015)

La moda del volto senza rughe ... potrebbe lasciare il segno

Dove va la tossina del botulino dopo l'iniezione sottocutanea?

I risultati presentati in una nuova ricerca sugli effetti del botulino potrebbero riuscire nel miracolo di fare alzare il sopracciglio anche nei volti più "congelati" dal trattamento anti-rughe.

I ricercatori dell'università del Queensland hanno infatti dimostrato come il Botox - nome comune per la neurotossina botulinica sierotipo A - non rimane localizzato nelle terminazioni nervose che controllano la muscolatura facciale ma viene trasportato lungo i nervi verso il sistema nervoso centrale.
Il viaggio della tossina (credit:wisc.edu)
Il Botox, in uso da decenni come "levigatore" di rughe grazie all'induzione di una paralisi locale di lunga durata, ha tuttavia una valenza ben maggiore rispetto a quella puramente estetica. In clinica viene usato per minimizzare le distonie focali o generalizzate, la spasticità muscolare che spesso si accompagna a lesioni del sistema nervoso centrale, l'emispasmo facciale, alcuni tipi di Tics, l'aprassia palpebrale e il mioclono.
Come spesso accade non sono i trattamenti effettuati in ambito clinico a dovere essere monitorati (dato che lo sono per definizione) ma quelli compiuti senza supervisione che potrebbero facilmente scivolare in un sovra-dosaggio.
struttura della tossina botulina A
(credit: wikimedia)
Una cautela ben sottolineata da Frederic Meunier,  responsabile della ricerca pubblicata sulla rivista specializzata Journal of Neuroscience. "La scoperta che parte della tossina iniettata può viaggiare attraverso i nostri nervi è preoccupante, data l'estrema potenza della tossina (...). La scoperta che alcune delle tossine riescono a sfuggire alla via di degradazione cellulare e "correndo" lungo le terminazioni nervose arrivano ad intossicare cellule vicine è un dato che necessita ulteriori approfondimenti. Tuttavia è bene precisare che ad oggi non sono stati identificati effetti indesiderati attribuibili a tale trasporto [ma solo ad un uso eccessivo e senza controllo NdB] il che suggerisce che il Botox è sicuro da usare", ... se usato bene.
Una precisazione importante dato che se è vero che non sono stati identificati effetti collaterali legati al trasporto della tossina lungo i nervi, è altrettanto vero che la via lungo la quale la tossina è trasportata è la stessa di quella usata da noti patogeni come il West Nile virus o il virus della rabbia. Quindi comprendere come viene trasportato il botulino potrebbe fornire una chiave di volta per bloccare la trasmissione di queste gravi infezioni.
Nota. Il meccanismo di azione della tossina del botulino è noto da anni. La tossina si presenta come un eterodimero in grado di legarsi alla membrana pre-sinaptica ed essere quindi internalizzata. Una volta all'interno della vescicola endosomica, una delle due proteine componenti la tossina forza l'evasione dalla vescicola rendendo così possibile l'interazione con - e il blocco del rilascio - le vescicole di acetilcolina da cui dipende la trasduzione del segnale nervoso e a valle la contrazione muscolare (immagine riassuntiva qui).

Video intervista all'autore dello studio

Botox - Professor Fred Meunier from The University of Queensland on Vimeo.

 

Fonte
- Control of Autophagosome Axonal Retrograde Flux by Presynaptic Activity Unveiled Using Botulinum Neurotoxin Type A.
Tong Wang et al, The Journal of Neuroscience, 15 April 2015, 35(15): 6179-6194

- Botulinum toxin may travel further than expected in nerve cells









Fluoruro di sodio per identificare le placche aterosclerotiche

I ricercatori delle università di Cambridge e di Edimburgo hanno mostrato in un recente articolo le potenzialità di una tecnica di imaging radioattivo, oggi in uso per identificare le metastasi ossee, per evidenziare l'accumulo di depositi di calcio instabili nelle arterie e quindi intervenire in anticipo per prevenire infarto e ictus.
L'aterosclerosi è una condizione potenzialmente grave in cui il lume delle arterie si restringe localmente a causa di depositi grassi note come 'placche'. Due i problemi principali associati: il restringimento del canale provoca una minore ossigenazione dei tessuti irrorati; il distacco di porzioni di queste placche provoca l'ostruzione delle arteriole a valle, cardiache o cerebrali, creando i presupposti di infarto e ictus, rispettivamente.

Poiché le placche aterosclerotiche sono una conseguenza fisiologica dell'invecchiamento (cominciano a comparire già dopo i 20 anni come i classici studi sui militari americani morti in Vietnam scoprirono) rimane da capire perché solo in alcuni soggetti le placche siano instabili e quindi pericolose.
Un primo passo sarebbe identificare i soggetti a rischio e indirizzarli ad un trattamento specifico per la rimozione delle placche. Con questo obiettivo in mente i ricercatori hanno iniettato i pazienti con fluoruro di sodio associato ad una piccola quantità di un tracciante radioattivo necessario, un marcatore essenziale per la localizzazione dei depositi mediante tomografia ad emissione di positroni (PET) e tomografia computerizzata (CT).
Il concetto è semplice. Il fluoruro di sodio è uno dei classici componenti del dentifricio e agisce legandosi ai composti di calcio presente nello smalto dei denti. Allo stesso modo è in grado di interagire con la zona di calcificazione nelle arterie, soprattutto nelle aree instabili. La misurazione e la localizzazione della radioattività nelle arterie permette poi di identificare dove questi depositi si stanno accumulando e rimuoverli prima che possano causare problemi.

Tra i vantaggi di questo approccio, basato su una tecnica consolidata, vi è indubbiamente il basso costo del radiofarmaco e del fluoruro di sodio.

Fonte
- Identifying active vascular microcalcification by 18F-sodium fluoride positron emission tomography   
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