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Ipertensione resistente. Un nuovo "vecchio" farmaco entra in gioco

Buone notizie per i soggetti affetti da ipertensione resistente (refrattaria ai trattamenti standard). Un farmaco già in uso da anni per il trattamento dei soggetti con alti livelli di aldosterone si è dimostrato straordinariamente efficace per l'ipertensione, se paragonato ai trattamenti attualmente prescritti.

Questo è quanto emerge dall'articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet, frutto di una sperimentazione in doppio cieco dal nome PATHWAY-2, finanziata dalla British Heart Foundation. Nello specifico lo Spironolattone (vedi anche su drug.com) si è dimostrato "straordinariamente superiore" alle alternative disponibili, quali il bisoprololo (un beta-bloccante) e la doxazosina (un alfa-bloccante ), in test durati 6 anni e che hanno coinvolto 314 pazienti in 14 centri diversi.
I numeri parlano chiaro: in quasi tre quarti dei pazienti testati si è osservato un notevole miglioramento della pressione sanguigna con lo spironolattone, il 60 % dei quali poteva vantare valori ottimali dei parametri pressori (contro il 17% e 18% ottenuto con il bisoprololo e la doxazosina, rispettivamente).  

La scoperta potrebbe avere un profondo impatto a livello globale, dal momento che l'ipertensione gioca un ruolo chiave nel rischio di ictus e malattie cardiache, oltre ad interessare un adulto su tre.

Come detto in apertura pur essendo il farmaco in uso da anni, il suo utilizzo come anti-ipertensivo è stato molto limitato. Uno dei motivi è che il meccanismo d'azione dello spironolattone porta ad un aumento del livello di potassio nel corpo cosa che ha sempre destato preoccupazioni. Lo studio attuale ha tuttavia dimostrato che tale aumento ha un impatto marginale rispetto alle previsioni teoriche e privo di rilevanti effetti collaterali.
L'eziologia della ipertensione resistente è ancora oggi poco compresa ma una teoria è che essa sia il risultato della ritenzione di sodio, probabilmente causato da un eccesso dell'aldosterone, un ormone prodotto dalla corteccia surrenale. Lo spironolattone grazie alla sua azione diuretica aiuta il corpo a liberarsi del sale in eccesso e a riportare nella norma i valori pressori.
Dato il suo meccanismo, non stupisce che il farmaco si sia rivelato particolarmente efficace nei pazienti in cui la ritenzione sodica era superiore alla media.

Fonti
- Spironolactone versus placebo, bisoprolol, and doxazosin to determine the optimal treatment for drug-resistant hypertension (PATHWAY-2): a randomised, double-blind, crossover trial
Bryan Williams et al, The Lancet (Settembre 2015)

-  Prevention And Treatment of Hypertension With Algorithm-based therapy (PATHWAY) number 2: protocol for a randomised crossover trial to determine optimal treatment for drug-resistant hypertension
Bryan Williams et al, BMJ Open. 2015; 5(8)

Virus della leucemia bovina e tumore al seno umano?

Introduzione
Viviamo e ci siamo evoluti in un mondo pieno di virus, molti dei quali sono diventati parte integrante del nostro patrimonio genetico (esempio classico --> i retrotrasposoni). Se è vero poi che alcuni virus rappresentano una seria minaccia per la nostra salute è altrettanto vero che il 99,9 % periodico di tutti i virus presenti sul pianeta sono per noi totalmente innocui.
Il che non dovrebbe stupire chi conosce i principi base del funzionamento virale. I virus sono come "macchine" estremamente specializzate che necessitano per potere funzionare (leggasi, replicare il proprio materiale genetico) di sfruttare il "macchinario" cellulare. Semplifichiamo pensando ad una serratura e a un software di funzionamento di cui loro possiedono la chiave di entrata e il codice di attivazione. Basta una variazione minima in uno di questi due passaggi per rendere un virus pari ad un inerte granello di sabbia.
Insieme a virus esclusivamente umani come il morbillo coesistono virus cross-specifici come l'influenza (condivisa con alcuni uccelli da cui periodicamente emergono ceppi capaci di valicare la barriera cross-specie, da cui originano le note pandemie) fino ad arrivare a virus totalmente incapaci  di replicarsi nelle nostre cellule. La totale dipendenze da uno specifico sistema proteico (quello della cellula ospite) è il motivo per cui ogni tipo di virus ha "preferenze obbligate" non solo per un determinato organismo ma anche per le cellule bersaglio (ad esempio per le cellule epiteliali della mucosa e nessuna affinità per le cellule epiteliali della cute). Varcare la barriera cross-specie è possibile solo in seguito a mutazioni e solo se il nuovo ospite ha caratteristiche molecolari sufficientemente simili a quelle del bersaglio originario. Basta un singolo aminoacido diverso in una regione chiave del recettore cellulare per rendere il virus totalmente incapace di "vedere" la cellula.
Per rendere il concetto il virus responsabile del cimurro nei cani e quello del morbillo umano, pur appartenendo alla famiglia dei Paramyxoviridae, sono totalmente incapaci di infettare l'altro ospite (anche dopo migliaia di anni di stretta convivenza, una situazione potenzialmente in grado di favorire la comparsa di mutanti cross-specifichi).
E' altresì noto che alcuni virus, proprio a causa del loro dipendere totalmente dal macchinario di replicazione cellulare, hanno la nefasta capacità di indurre tumori cioè uno stato patologico in cui le cellule hanno "perso il controllo" di "quando e se" dividersi. Il tumore è qui un "effetto collaterale" dell'azione del virus finalizzata a riattivare il complesso replicativo. Alcune stime recenti parlano di circa il 15% dei tumori la cui origine può essere fatta risalire ad un evento infettivo. Tra i virus dotati di questa capacità abbiamo il virus del sarcoma di Rous (RSV) e l' HTLV negli uccelli, il virus della epatite B (HBV) negli umani, il MMTV nei topi, (etc).

Sempre in ambito di patogenicità indiretta (non direttamente correlata con la replicazione virale) vale la pena menzionare il probabile coinvolgimento di un virus nella insorgenza del diabete di tipo-I. Non si tratterebbe qui di un evento causato dal virus ma di una anomala (eccessiva, fuori controllo e fuori bersaglio) reazione allo stesso da parte del sistema immunitario che, nei soggetti geneticamente predisposti, porta alla distruzione delle cellule beta del pancreas.
Per concludere questa carrellata, si deve citare il fenomeno della parziale permissività: quando un virus "animale" con cui noi entriamo in contatto è strettamente imparentato con un "nostro" virus può accadere che il virus sia sufficientemente simile da riuscire ad entrare nella cellula umana (o viceversa) ma troppo diverso per riprogrammare a suo vantaggio il macchinario cellulare. In questi casi due sono le possibilità: nessuna particella virale viene prodotta (infezione abortiva); pochi virus prodotti (infezione semi-permissiva). L'ultimo caso spiega per quale motivo gli studi condotti da Edward Jenner dimostrarono l'efficacia dell'inoculazione del virus vaiolo bovino in umani (che produce sintomi molto blandi) come agente protettivo - in grado cioè di attivare la risposta immunitaria - nei confronti del temibile vaiolo umano.
Nota. Per una panoramica del variegato mondo dei virus consiglio la lettura del precedente articolo --> "Virus. Quasi-organismi sub microscopici".

Il caso: virus bovino e tumore mammario umano?
Credit: UC Berkeley
Nonostante queste premesse ha suscitato sorpresa la scoperta di una possibile correlazione tra il virus della leucemia bovina (BLV) e il tumore al seno nelle donne.
Lo studio, condotto da ricercatori dell'università di Berkeley e pubblicato sulla rivista PLoS ONE, è consistito nell'analisi del tessuto mammario di 239 donne (sia sane che con storia di tumore al seno) per cercare tracce genetiche della presenza di BLV. Nel 59 per cento dei campioni che provenivano da donne con storia di cancro al seno si è rilevata la presenza del DNA virale, contro il 29 per cento dei campioni di tessuto da donne sane.
Valori di odds-ratio compatibili con l'esistenza di una correlazione.
Attenzione però  ad estrapolare in automatico un nesso causale tra virus e tumore!
Come sottolineato da Gertrude Buehring, autrice principale dell'articolo, i dati NON indicano per se stessi l'esistenza di un nesso causale (cioè il virus provoca il tumore) ma una associazione. Il virus infatti potrebbe infatti essere arrivato successivamente allo sviluppo del tumore, anche se rimarrebbe da capire perché questo sia avvenuto principalmente nelle donne con tumore. Quello che è certo è che il dato dovrà essere confrontato su larga scala per verificarne la forza statistica e inoltre bisognerà capire se e quanto tale virus sia in grado di replicarsi nelle cellule umane.
Come sia giunto il virus ai tessuti mammari umani non è noto anche se i maggiori indiziati sono il consumo di latte non pastorizzato o di carne poco cotta (entrambe procedure sconsigliate per ovvie ragioni igieniche); alternativamente potrebbe essere stato trasmesso da altri esseri umani, possibilità invero remota.
Nota. Già nel 2001 uno studio aveva mostrato la presenza di antigeni virali in sezioni di tessuto mammario umano ma l'assenza di materiale genetico virale, l'equivalente della pistola fumante nella ricerca del colpevole, rallentò il processo di monitoraggio per anni fino a che non si resero disponibili tecniche a maggiore sensibilità.
Il BLV, pur essendo relativamente diffuso nei bovini, con predilezione per il sangue e i tessuti mammari, ha una scarsa patogenicità: meno del 5% degli animali infettati si ammala. Proprio questo fatto, insieme all'assenza di evidenze chiare di una potenziale trasmissibilità ad essere umano ha giocato un ruolo chiave per spiegare lo scarso interesse degli allevatori (e soprattutto delle autorità sanitarie) ad implementare attività volte al contenimento prima e alla eradicazione poi dei focolai di infezione. Per fare un raffronto tra procedure interventiste e lo scarso interesse mostrato per il BLV, una malattia dei bovini come l'afta epizotica pur innocua per gli esseri umani ma altamente contagiosa e deleteria per i bovini è da anni attentamente monitorata. Le misure adottate prevedono l'abbattimento di tutti i capi nell'area in cui si manifesta il contagio, anche di quelli apparentemente sani o di quelli di un allevamento adiacente.

Se i dati presentati in questo articolo venissero confermati su larga scala è indubbio che le cose cambieranno anche per il BLV.

Tra le ricadute immediate dello studio vi sarebbe (condizionale d'obbligo in attesa di conferme) anche lo spostamento dell'enfasi verso la prevenzione del tumore al seno (riducendo gli agenti potenzialmente in grado di favorilo) piuttosto che nell'impari lotta di tentare di eradicarlo o anche solo controllarlo una volta che sia comparso.
Qualunque oncologo sa che i progressi concreti nella cura dei tumori raggiunti negli ultimi anni sono in gran parte da attribuire al miglioramento delle capacità diagnostiche (eliminare un tumore nelle primissime fasi dello sviluppo) e della prevenzione (vedi ad esempio fumo e tumore al polmone) più che nella efficacia di terapie nelle forme tumorali avanzate.

Fonti
- Exposure to Bovine Leukemia Virus Is Associated with Breast Cancer: A Case-Control Study
Buehring GC et al, PLoS One. 2015 Sep 2;10(9)

-  Bovine leukemia virus in human breast tissues
GC Buehring et al, Breast Cancer Res. 2001; 3(Suppl 1): A14.


Il virus HPgV attenua l'infezione da HIV?

Il meccanismo non è noto ma alcuni dati sembrano indicare che la presenza del pegivirus (HPgV) in soggetti infettati da HIV, eserciti una azione benefica rallentando la progressione verso l'AIDS, verosimilmente grazie ad una minore capacità replicativa del HIV.
Struttura del pegivirus (credit e altre info --> Viralzone)

Sebbene il virus HPgV (appartenente alla famiglia dei Flaviviridae, a cui appartiene anche il virus della febbre gialla e il WNV) sia noto dal 1967 e sia stato associato ad alcune forme di epatite acuta (quindi sia tutt'altro che un ospite gradito), ben poco si sa riguardo al suo modus operandi, ad esclusione dei tratti caratteristici del suo essere un virus RNA+. Il problema principale è che è mancato in questi anni un modello animale idoneo, cioè l'ospite da usare per studiare infettività e patogenicità del virus.
Le cose ora potrebbero cambiare dopo la scoperta di Bailey e collaboratori che virus molto simili al HPgV sono presenti in babbuini selvatici e che è possibile infettare macachi, animali già ampiamente usati con l'HIV.
In un prossimo futuro si potrà quindi capire come i due virus interferiscono tra loro e, forse, ipotizzare di usare HPgV modificati e non patogeni come trattamento anti-HIV.

Altri articoli sul tema virus (--> QUI) e HIV (--> QUI)

Fonti
- Durable sequence stability and bone marrow tropism in a macaque model of human pegivirus infection
Adam Bailey et al, Sci. Transl. Med. 7, 305ra144 (2015)
- letteratura scientifica sul pegivirus --> Pubmed

Il cuore spezzato è come la dipendenza da cocaina

(articolo precedente sul tema --> "La sindrome del Cuore Spezzato") 

****

Il patema d'amore appare ad un adolescente (ma non solo) come uno stato irrimediabile a cui è preclusa ogni speranza (o desiderio) di sfuggire a tale morsa. Eppure, la grandissima parte delle persone alla fine ne esce senza conseguenze e guardandosi indietro fatica a capacitarsi del livello di obnubilamento provato. 
Se il fenomeno è così totalizzante da mettere in secondo piano le attività primarie per la propria sopravvivenza (mangiare, alzarsi la mattina, etc) è lecito domandarsi come sia possibile uscire da questa fase e come mai alcune persone giungano invece a gesti estremi per situazioni che, viste dall'esterno, sono meno che irrilevanti. 
Il merito va, come ovvio, ai meccanismi di difesa del nostro cervello che, quando lo stress raggiunge livelli di allarme si aiuta ... dopandosi. 
Il nucleus accumbens attivato
nella fase di reward
(S. Mackey and J. Younger)
Esempio classico di autodoping fisiologico è quello che si sperimenta con la sensazione di benessere alla fine della sessione quotidiana di jogging. Una sensazione che ci "vizia", se svolta con frequenza regolare, a tal punto da indurre stati simili all'astinenza quando si saltano sessioni di allenamento: il nervosismo di chi non è riuscito a fare la corsa quotidiana non è altro che la manifestazione del calo dei livelli degli endocannabinoidi (e in misura inferiore delle endorfine), entrambe molecole che il corpo rilascia per attenuare lo stress legato all'attività fisica (J. Fuss et al, PNAS, 2015).
Nei precedenti articoli sulla biochimica dell'amore (vedi link a fondo pagina) avevo già introdotto due ormoni chiave:
  • ossitocina, essenziale per il "bonding" (la creazione di un legame emotivo tipo quello madre-neonato);
  • dopamina, prodotta nella parte basale/posteriore dell’encefalo e trasportata all’occorrenza verso i lobi frontali della corteccia. Trasporto che avviene dopo una grossa soddisfazione (premio) o quando il cervello vuole limitare l'entità di uno stato negativo.
Non si tratta di un meccanismo tipicamente umano ma è comune a tutti i mammiferi superiori. Il che è comprensibile sia per le necessità di legare la madre alla prole, che da lei dipende in tutto per sopravvivere (alimentazione in primis), che per situazioni più tipiche dell'animale adulto: lo sconforto di avere perso una preda (o un boccone particolarmente ambito o avere perso la gara chiave per conquistare il comando, etc) non possono in natura essere affrontati con l'aiuto di uno psicologo. L'animale (quindi anche noi) deve essere pronto il prima possibile a riprendere le sue attività … pena l'estinzione immediata.
Nel caso degli esseri umani la situazione è ovviamente più complicata (si sa che noi siamo specializzati nell'inventarci problemi) ma la soluzione fisiologica è sostanzialmente simile: una bella scarica di dopamina e siamo pronti a ricominciare anche semplicemente minimizzando quando avvenuto.
E se la secrezione di dopamina prodotta dai circuiti classici non è sufficiente per "riattivare" il comportamento normale, esistono meccanismi per stimolarne la produzione. Se i meccanismi di compensazione sono inefficienti si casca nella situazione descritta in apertura di articolo.
Molte specie di mammiferi superiori evitano in toto questo problema limitando gli incontri al solo momento dell'accoppiamento.
Nelle specie in cui la presenza di entrambi i genitori è fondamentale per la sopravvivenza della progenie la natura ha dovuto implementare meccanismi in grado "incentivare" la convivenza dei partner.
Ma gli ormoni non fanno miracoli e infatti la gran parte dei rapporti con il partner, anche le storie vissute come totalizzanti per anni possono avere termine; una evidenza che da un punto di vista neurobiologico è sostanziata dal titolo di un articolo che riassume il lavoro condotto da un team di psicologi della università di Saint Louis. Il titolo "wired to break" (programmati per rompere) sostanzia in tre parole le cause del "collasso" dello stato di innamoramento, diverse nei due sessi:
  • l’uomo non ama essere tradito;
  • la donna detesta essere imbrogliata. 
Il che ha perfettamente senso da un vista biologico. Il maschio deve evitare il rischio di far crescere cuccioli suoi e la femmina necessità di un maschio che dia affidamento per la crescita dei cuccioli stessi. Il maschio vuole fedeltà, la femmina lealtà e affidabilità. 
Che poi nella realtà queste aspettative vengano sempre soddisfatte, è un altro discorso.
Il doping neuronale ha proprio il fine di minimizzare ogni motivo di attrito, anche a costo di negare l'evidenza, nelle fasi in cui la coppia deve essere solida. Se qualcosa va storto in questa fase, la sensazione provata sarà quella di un malessere profondo.
Helen Fisher
Un tradimento o la perdita della sensazione di "tutela e assistenza" possono avere effetti dirompenti e di diversa durata.
Il grado di tolleranza varia nelle diverse coppie le cui cause sono identificabili nell'attività cerebrale. Helen Fisher (già autrice di un buon libro divulgativo dal titolo "Perché amiamo") ha analizzato mediante risonanza magnetica l'attività cerebrale delle coppie che affermavano di essere profondamente innamorate, proprio per valutare le basi della "resistenza" ai fattori di rottura, presenti in ogni coppia. I dati ottenuti mostrano che queste coppie hanno una aumentata attività delle aree del cervello associate al piacere, le stesse che vengono attivate dall'uso di cocaina.

Questo il commento di Brian Boutwell "Il lavoro di Helen Fisher ha rivelato che questo circuito nel cervello, profondamente associato ai fenomeni di dipendenza, è anche implicato nell'attrazione romantica e può aiutare a spiegare l'attaccamento che segue alle classiche fasi di infatuazione fisica". 
Rompere questo circuito equivale, funzionalmente, a togliere ad un cocainomane la possibilità di accedere alla sua droga (ricordo per inciso che l'astinenza da cocaina ha caratteristiche molto diverse da quelle associate agli oppiacei, molto "mentale" la prima e molto "fisica" la seconda).
Chiedere a chi si trova improvvisamente privato del legame amoroso di "guardare avanti" equivale sotto molti aspetti a chiedere a qualcuno di "non pensare alla mancanza della dose quotidiana".
Brian Boutwell

Gli studi di Boutwell si sono concentrati sull'attività cerebrale di ex cocainomani proprio per cercare di capire come il cervello si sia adeguato allo stato di deprivazione; i dati indicano un aumento della materia grigia (vale a dire l'area ricca di corpi cellulari) in specifiche aree. Non mi stupirebbe quindi scoprire simili modificazioni nelle persone uscite dal tunnel di una relazione troncata e passati attraverso un periodo forte depressione.
Tra gli studi attuali di Boutwell di particolare interesse sono i test per valutare l'effetto di una particolare classe di farmaci antidepressivi, noti come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Questi farmaci, grazie all'abbassamento dei livelli di dopamina, noradrenalina e testosterone, dovrebbero "raffreddare" le pulsioni romantiche (il bisogno di stare vicini alla persona oggetto dei propri pensieri) e l'interesse sessuale. 
Trattandosi di farmaci, è ovviamente necessario un costante monitoraggio medico per evitare o controllare la comparsa di effetti collaterali imprevisti. Potrebbe tuttavia essere un utile rimedio per trattare i troppi casi di amati respinti che degenerano in stalking quando non peggio.

Articoli sul tema --> "La biochimica dell'amore"

Fonti
- 'Just Slip Out the Back, Jack' We're Wired to Get Over Romantic Break Ups
University of Saint Louis, news
- When love dies: Further elucidating the existence of a mate ejection module.
BB Boutwell et al. (2015) Review of General Psychology, 19(1)pp10-38

Diagnosticare l'Alzheimer con un esame del sangue?

In un futuro prossimo sarà possibile fare la diagnosi dell'Alzheimer con un semplice prelievo di sangue.
Questo è quanto emerge dallo studio condotto dai ricercatori della UCLA che mostrano come un semplice esame di laboratorio potrebbe identificare la presenza di proteine beta amiloidi nel cervello, caratteristica chiave della malattia di Alzheimer.
Ad oggi la diagnosi è possibile mediante test cognitivi, di neuroimaging (Risonanza Magnetica ad alta definizione, Tomografia a Emissione di Positroni - PET) o la puntura lombare con dosaggio liquorale di beta amiloide e proteina tau. La certezza assoluta la si ha tuttavia post-mortem dall'analisi del tessuto cerebrale. Limitandoci ai test più utili, quelli fatti in vita, si tratta di test costosi (risonanza e PET), invasivi e con potenziali inconvenienti (prelievo del fluido cerebrospinale) o che espongono i pazienti a radiazioni (PET). Ci sono tutte le premesse quindi affinché un test "più semplice" possa guadagnare consensi tra gli addetti ai lavori.

Lo studio condotto dal gruppo californiano si è basato su campioni di sangue ottenuti da pazienti con decadimento cognitivo lieve, già coinvolti nel programma di ricerca Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative; i risultati preliminari confermano le potenzialità diagnostiche del test ematico. Sottolineo "potenzialità", dato che per raggiungere lo standard di metodo diagnostico (un metodo con elevata potenza analitica) saranno necessari altri miglioramenti.
Il vero punto è però un altro. Che vantaggio si avrebbe nel sapere in anticipo che si ha una malattia neurodegenerativa priva ad oggi di terapie adeguate?
Una domanda non secondaria se immaginiamo le implicazioni che il conoscere il proprio fato può avere sulla qualità della vita. I vantaggi per un paziente sono riassumibili così:
  • risparmiare alle persone affette da demenza e alle loro famiglie l'ansia dell'incertezza;
  • permettere alle persone ancora in pieno possesso delle proprie capacità di sistemare le incombenze.
  • scegliere le strutture e i servizi di cui si vorrà fruire quando entrerà nella fase terminale della malattia.
Non molto in effetti.
Il vero impatto, e la ragione ultima per cui tale approccio è di fondamentale importanza, lo si avrebbe nella ricerca clinico-farmaceutica qualora divenisse disponibile un test di diagnosi precoce. Uno dei principali limiti attuali allo sviluppo di farmaci efficaci è infatti nell'assenza di soggetti idonei su cui testare i prodotti promettenti.
La diagnosi di malattia di Alzheimer, oggi, identifica soggetti le cui condizioni neurologiche sono fortemente compromesse. La plasticità cerebrale è una delle meraviglie del nostro cervello e questo si evidenzia perfettamente nelle malattie neurodegenerative: quando i sintomi compaiono, il danno cellulare è talmente esteso (spesso più del 80% delle cellule chiave sono morte o non funzionali) da rendere molto difficile ipotizzare terapie diverse da quelle di mantenimento. Testare un farmaco in queste condizioni, fosse anche un farmaco miracoloso che rimuove in toto le cause della morte neuronale, darebbe risultati molto scarsi in quanto gran parte delle cellule sono già morte.
Ben diverse le potenzialità se lo stesso farmaco potesse essere testato nelle fasi iniziali ed asintomatiche della malattia, cosa ad oggi impossibile in quanto non è possibile identificare i pazienti in questo stadio. Un farmaco in grado di agire bloccando sul nascere il danno neuronale aprirebbe nuove strade terapeutiche e, questo si, farebbe la differenza anche per un paziente.
Questa è la vera importanza dell'articolo pubblicata, non a caso, sulla prestigiosa rivista Neurology.
(altri articoli sul tema --> "Alzheimer")

Fonte
- Brain amyloidosis ascertainment from cognitive, imaging, and peripheral blood protein measures.
Liana G. Apostolova et al, Neurology (2015) vol. 84 no. 7 729-737



Quando un parassita induce il cannibalismo … nei gamberi

Il cannibalismo in ambito naturale non ha alcun connotato negativo; molti sono gli animali che lo praticano abitualmente, e in alcuni casi anche a discapito della propria progenie che si sia incautamente avvicinata al genitore. Per quanto apparentemente controproducente per la fitness di una specie (mangiare i propri pargoli non aiuta di sicuro a propagare il proprio patrimonio genetico) tale pratica ha impatto nullo, anzi favorisce la sopravvivenza dell'adulto, quando i numeri della progenie sono estremamente elevati. La capacità proliferante tuttavia tende a declinare rapidamente con la complessità dell'animale (ivi comprese la necessità di cure parentali) e questo spiega per quale ragione il cannibalismo diventi via via più raro (in quanto svantaggioso) nei vertebrati superiori.
Un esempio classico è quello del coccodrillo femmina che trasporta con delicatezza i piccoli appena usciti dalle uova nella sua bocca "trattenendosi" dall'ingoiarli; capita tuttavia nelle madri più giovani che questo controllo sia poco calibrato e i primi della nidiata non sfuggano all'istinto di essere ingoiati.

Trovo tuttavia più interessante il caso di quegli animali in cui il tasso di cannibalismo aumenta in presenza di un parassita.
Ricercatori britannici hanno scoperto che quando i gamberi d'acqua dolce irlandesi (Gammarus celticus) ingeriscono il parassita Pleistophora mulleri, il tasso di cannibalismo aumenta sensibilmente; sebbene già presente in natura come fenomeno, il parassita aumenta la voracità dei gamberi e la velocità con cui consumano il  pasto.
Credit: University Leeds
La ricerca, pubblicata nel Royal Society Open Science, quantifica in due volte l'aumento del tasso di cannibalismo dei gamberi infettati (a scapito principalmente dei giovani gamberetti). Il parassita unicellulare, appartenente al regno dei funghi, colonizza il crostaceo, in particolare le sue cellule muscolari, con milioni di cellule; poiché tutti questi funghi dipendono totalmente dalle sostanze nutritive assimilate dal gambero, la fame di quest'ultimo cresce di pari passo. Dato che l'infezione è parecchio invasiva e debilitante i gamberi diventano meno efficienti nel catturare le loro prede tradizionali e i piccoli della loro specie diventano dei pasti gratis a portata di zampe. I gamberi non infetti, pur se dediti occasionalmente al cannibalismo, sembrano disdegnare i gamberi infetti (evitando così di venire a loro volta infettati) cosa di cui non sembrano curarsi gli affamati gamberi già infetti.

Nei topi è stata descritta una situazione parzialmente simile con il toxoplasma che rende i roditori "vogliosi" di essere mangiati dai gatti (ne ho parlato QUI).
Domanda ovvia? Dobbiamo preoccuparci di situazioni simili negli esseri umani che rendano gli individui simili a zombie, affamati ma vivi, come quelli descritti nel film "28 giorni dopo"?
Fortunatamente non esistono evidenze di infezioni anche solo lontanamente simili; il virus della rabbia è l'unico che induce un comportamento solo apparentemente simile, in realtà per nulla paragonabile.

(sul tema parassiti e comportamenti anomali, potrebbe interessarvi l'articolo -->"Funghi e formiche zombie")

Fonte
-Eaten alive: cannibalism is enhanced by parasites
Mandy Bunke et al, Soc Open Sci. 2015 Mar; 2(3): 140369. 


Bere alcol al momento del concepimento aumenta il rischio di diabete nella progenie

Che non sia una buona idea bere durante un appuntamento galante è cosa ovvia se si vuole mantenere il controllo della situazione. Per tutti quelli che invece contano sull'alcol per perdere parte dei propri freni inibitori, allora suggerisco di prendere in considerazione lo studio condotto su topi in cui si evidenziano gli effetti a lungo termine dell'alcol sulla progenie concepita dopo una bevuta.
L'articolo pubblicato dal team di Karen Moriz su The Journal of the Federation of American Societies for Experimental Biology analizza l'effetto di dosi medie di alcol (paragonabili in umano a cinque bicchieri) assunte prima o dopo l'accoppiamento. Il risultato è un aumento del rischio cumulativo (per la progenie) di sviluppare diabete di tipo 2 e obesità durante la vita adulta.
Il dato è particolarmente utile soprattutto per le coppie che, come avviene oramai nella maggior parte dei casi, pianifica la gravidanza. Smettere di bere dopo aver scoperto di essere gravide potrebbe non essere sufficiente per garantire la migliore salute possibile al bambino in età adulta.

Fonte
- Maternal alcohol intake around the time of conception causes glucose intolerance and insulin insensitivity in rat offspring, which is exacerbated by a postnatal high-fat diet.
EM Gårdebjer et al, FASEB Journal (2015) 29(7):2690-701

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