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Miopia. Le cause del boom mondiale di un difetto visivo spesso prevenibile

La città cinese di Guangzhou vanta da tempo il primato dell'ospedale oftalmologico più grande al mondo. "Grande" è un aggettivo aleatorio in un paese esteso e, in alcune aree, densamente popolato come la Cina e infatti l'ospedale ha in progetto di ampliare la struttura. Il motivo non è però, come sarebbe lecito attendersi, legato al numero degli abitanti, ma alla ben più preoccupante prevalenza di bambini con problemi alla vista (Ellie Dolgin, Nature, 2015).
Nota. In epidemiologia il termine prevalenza indica il numero di casi rispetto alle persone a rischio (la popolazione). Al contrario con incidenza si intende il numero di nuovi casi, sempre rapportati alla popolazione in esame.
Il temutissimo gaokao
Nello specifico è la miopia il problema visivo che affligge una popolazione che fa dello studio l'arma per il successo e per affrancarsi dalle condizioni sociali dei genitori. Una attitudine e determinazione ad emergere che si scontra con l'enorme competizione per riuscire ad accedere alle migliori università statali (tutte a numero chiuso) e che spinge i giovani fin dalle elementari a veri tour de force di studio. Il gaokao (la prova annuale per l'ingresso all'università) è il passaggio che determina il futuro del giovane cinese. Una prova in cui si determina il suo futuro; e in questo caso non è un modo di dire.
L'ovvia conseguenza di questa totale dedizione allo studio, che inizia prima dei cinque anni, è la miopia. Un problema acuito dalla pervasività dei nuovi strumenti digitali (computer, console, smartphone e tablet) che sempre più spesso inglobano i giovani (e non solo) anche nel loro, poco, tempo libero. Una sola è la caratteristica che accomuna strumenti digitali e i libri: costringono l'occhio a mettere a fuoco da vicino e per tempi prolungati.
Prendete questi comportamenti e moltiplicateli per il numero di studenti di una delle megalopoli cinesi ed otterrete la saturazione dei centri oculistici, soprattutto in occasione delle vacanze estive o invernali quando emerge il problema dello sforzo compiuto dall'occhio nei mesi precedenti.
Il boom della miopia in una immagine
credit: InsideRecent.com
L'ospedale di Guangzhou è talmente sommerso di richieste che per riuscire a gestire la domanda, in attesa dell'ampliamento della struttura, ha pensato bene di ampliare i suoi spazi ... nei centri commerciali, uno dei luoghi "sacri" per il cinese moderno, preda di una fame consumista che dalle nostre parti ci siamo scordati da anni. Nathan Congdon, uno dei medici trasferiti nella succursale ospedaliera di un centro commerciale, commenta così nell'intervista pubblicata su Nature: "È letteralmente impossibile camminare per i corridoi dell'ospedale a causa del numero di bambini in attesa di essere visitati".
Parlare di miopia come fenomeno endemico in alcune aree del mondo non è una esagerazione. Fino a sessantanni fa il numero di miopi in Cina era il 10-20% della popolazione. Oggi i numeri hanno dell'incredibile con circa il 90% di adolescenti che hanno bisogno di occhiali! Un fenomeno che non riguarda solo la Cina ma tutte le nazioni che si fregiano del titolo di "tigri asiatiche", dalla equatoriale Singapore alla Corea del Sud. Ed è proprio a Seul, che si raggiunge il picco, udite-udite, del 96,5% di ragazzi di 19 anni clinicamente classificabili come miopi.
Se in Asia le percentuali della miopia sono a livelli indicibili, in Europa la situazione non è rosea. Secondo uno studio dal King's College di Londra (--> kcl/news) circa un quarto della popolazione europea è miope, con picchi di frequenza quasi due volte superiori nei più giovani. Lo studio, frutto della meta-analisi di 15 lavori pubblicati (per un totale di 60 mila persone analizzate),  evidenzia la forte correlazione tra grado di istruzione e miopia: la percentuale di miopi negli studenti liceali è doppia rispetto a quella nella scuola primaria. Anche in questo caso le cause vanno ricercate nella natura dell'educazione moderna sempre più totalizzante come tempi e modi (computer e altri strumenti digitali).
L'insieme dei dati americani ed europei sull'incidenza del problema nella fascia under-30 della popolazione indica che il numero dei miopi è raddoppiato rispetto a mezzo secolo fa.
Numeri che riflettono una diversa intensità di studio e di attività all'aria aperta tra due "orientamenti culturali" opposti: moderatamente rilassato quello occidentale anche quando competitivo e "affamato di successo e di voglia di emergere" quello orientale.

Le previsioni degli analisti non sono positive. Entro la fine del decennio almeno un terzo della popolazione mondiale - circa 2,5 miliardi di persone - rientrerà nella poco ambita categoria dei miopi. Giova ricordare che sebbene essere miopi sia oggi considerato "normale", questo non è un semplice inconveniente ma rappresenta sia un costo (occhiali, lenti a contatto, chirurgia) che un limite operativo per chi è miope.

La minaccia concreta di una generazione di miopi ha spinto a finanziare studi per trovare modi per contrastare il più precocemente possibile l'insorgenza di questo difetto refrattivo. In realtà un modo c'è già ed è a costo zero, cioè favorire il più possibile le attività all'aria aperta (lontana da tablet, libri e peggio ancora dai cellulari); per i più renitenti al distacco da monitor e libri ci sono esercizi oculari di messa a fuoco da ripetersi almeno ogni mezz'ora.

***

Fino a pochi anni fa quando si parlava clinicamente di miopia si adducevano due cause principali: familiarità; malattia professionale degli studiosi. Certamente il patrimonio genetico gioca un ruolo determinante (direi dominante, geneticamente parlando) sul rischio miopia; avere genitori miopi pone a rischio la prole come ben evidenziato dagli studi sui gemelli, ma non è sufficiente per spiegare i numeri dell'attuale pandemia. Lo screening genico volto alla ricerca degli alleli associati alla miopia è stato certamente utile ma ha poca applicabilità al al di fuori dei casi in cui la miope è familiare.
L'evidenza oramai indiscutibile è che lo stile di vita ha un ruolo determinante sul rischio miopia.
Uno degli esempi più chiari a tal proposito viene da uno studio del 1969 sugli Inuit che abitavano la parte settentrionale dell'Alaska, un periodo in cui il loro stile di vita entrava, più o meno volontariamente, nell'era moderna. Tra tutti gli adulti testati, cresciuti in comunità isolate, solo 2 su 131 erano miopi (una condizione chiaramente non favorevole per chi vive di caccia e che si deve difendere dagli orsi). La frequenza però si ribaltava nei loro figli e nipoti cresciuti "modernamente" (scuola e vita in ambienti chiusi), con percentuali di miopi che raggiungevano punte del 50%. 
L'ambiente, o meglio il "non-ambiente" di aule e uffici ha un impatto sul nostro occhio.

***

La correlazione miopia-studio non è una scoperta della medicina moderna. Già 400 anni fa il grande astronomo e esperto di ottica tedesco Johannes Kepler (perché italianizzare il nome di qualcuno?) attribuì la colpa della sua miopia al tempo passato a studiare. L'ipotesi causale prese poi piede nel XIX secolo, quando alcuni oculisti cominciarono a consigliare l'utilizzo di poggiatesta frontali per i giovani studenti allo scopo di impedire la naturale tendenza di chi legge ad avvicinarsi troppo al libro.
E qui torniamo al caso cinese, paradigmatico della epidemia di miopia.
Secondo stime ufficiali uno studente quindicenne di Shanghai passa circa 14 ore settimanali a fare i compiti a casa contro le 5,5 ore dei ragazzi americani e inglesi. In Italia e Francia i numeri sono superiori a quelli anglosassoni data la preminenza dei compiti a casa rispetto alle attività in classe. 
Discorso a parte, ma in accordo con l'idea kepleriana, per i ragazzi israeliani che frequentano le scuole religiose (yeshiva) dove lo studio intensivo dei testi religiosi è la costante ... così come il tasso di miopia, tra i più elevati al mondo... finora.
Perché studio e miopia vanno di pari passo? Semplificando al massimo, il problema è causato dall'alterazione della crescita del bulbo oculare indotta dal tentativo di accomodamento della messa a fuoco della luce in ingresso nel caso di fonti ravvicinate. Un accomodamento che con il tempo si fissa in una messa a fuoco alterata (frontale rispetto alla retina) delle immagini "lontane".
Ma questa spiegazione (più studi più aumenta il rischio di miopia) è semplicistica, e in effetti alcuni esperimenti condotti una decina di anni fa non sostanziarono in toto tale nesso causale. I ricercatori correlarono il numero di libri letti a settimana (o le ore trascorse ial computer) con la frequenza di miopia. L'indice di correlazione fu invero alquanto basso.
Fu necessario attendere il 2007 quando Donald Mutti della Ohio State University College of Optometry pubblicò i risultati del monitoraggio pluriennale di 500 bambini californiani di otto e nove anni, tutti non-miopi. Dall'analisi comportamentale dei bambini che a distanza di 1-5 anni erano diventati miopi, si scoprì che il fattore di rischio NON era il tempo trascorso a leggere QUANTO il dove i bambini svolgevano le attività quotidiane (vedi LA Jones et al, Invest Ophthalmol Vis Sci. 2007 Aug;48(8):3524-32).
Da qui l'ipotesi che attività all'aria aperta e rischio miopia fossero inversamente correlati.
A conferma del dato la pubblicazione l'anno successivo di un nuovo studio (--> KA Rose et al, Ophthalmology. 2008 Aug;115(8):1279-85) basato sull'analisi di ben quattro mila bambini delle scuole primarie e secondarie monitorati per tre anni. Tra i dati emersi quello indicante che i giovani impegnati in attività fisiche svolte indoor (palestra, etc) non godevano di una uguale protezione dal rischio miopia rispetto a quanto riscontrato in giovani parimenti attivi all'esterno.
Cominciò così a sedimentare tra i medici sempre più l'idea che fosse sufficiente trasferire all'aperto parte delle attività fatte in un ambiente chiuso piuttosto che privilegiare le attività non connesse alla lettura.
Fino a poco tempo fa i risultati di questi studi non avevano convinto del tutto alcuni ricercatori che ritenevano troppo soggettivi e poco controllabili i metodi di indagine del comportamento basati su questionari forniti agli studenti. I dubbi sono andati via via scemando con la pubblicazione quest'anno di uno studio australiano (ma condotto in Cina) sull'effetto "anti-miopico" di attività all'aria aperta (Mingguang He et al, JAMA (2015) 314,11).

Sempre più studiosi oramai concordano che la luce naturale ha un ruolo protettivo contro la miopia. L'attività fisica (se presente) ha un ruolo benefico generale ma assolutamente secondario per la vista (vedi anche un articolo precedente sul benefico effettivo dell'attività fisica in un ambiente "ricco" per topi con difetti visivi indotti --> QUI).
Stare in un ambiente ricco di stimoli visivi posti a distanze  eterogenee fa la differenza. Anche il semplice leggere un libro sulla spiaggia impone di tanto in tanto il sollevare lo sguardo dalla pagina per vedere chi passa accanto o fissare un punto all'orizzonte e questo sembra sufficiente per allentare la tensione sull'occhio.

(continua ---> 2)

Il batterio multiresistente agli antibiotici che dall'Arabia "minaccia" di diffondersi

La sempre maggiore diffusione di batteri contemporaneamente resistenti a più antibiotici è un problema globale che avrà un impatto enorme sulla salute pubblica in un futuro appena dietro l'angolo (articoli precedenti sullo stesso tema --> antibiotici).
Sebbene il problema sia noto da alcuni decenni (nasce sostanzialmente con la disponibilità extra-ospedaliera degli antibiotici) è nel corso dell'ultimo decennio che le problematiche associate sono uscite da un mero dibattito accademico per entrare nell'ambito "reale". Il rischio concreto è infatti quello di trovarci nei prossimi anni senza armi efficaci per contrastare malattie fino a ieri considerate "sorpassate" data la facile curabilità con gli antibiotici (vedi qui).
Un problema aggravato dalla globalizzazione che non riguarda solo persone e merci ma anche i microbi; proprio per questo motivo si osserva con sempre maggiore preoccupazione la comparsa di ceppi multiresistenti in aree come Cina e India ancora indietro nella regolamentazione dell'uso "libero" degli antibiotici. Un problema acuito dalla elevata densità di popolazione, dalla endemicità di malattie da noi scomparse e dalla assenza di misure di trattamento delle acque reflue (vedi qui).
Acinetobacter baumannii (Credit: Janice Carr)
Tra i recenti allarmi, particolarmente importante è quello che proviene dalla penisola arabica riguardo ad un batterio multiresistente, Acinetobacter baumannii, che "minaccia" di valicare i confini del Medio Oriente. Il "superbatterio", noto per avere causato diverse epidemie ospedaliere, è stato rilevato in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein. Una diffusione multi-spot che ha sorpreso molti operatori sanitari.

Osservando il problema in modo positivo, questa scoperta inattesa ha spronato i responsabili dei ministeri e delle organizzazioni internazionali a collaborare fattivamente scambiandosi i dati sui pazienti infetti (e sui loro movimenti)  per monitorare la "rotta" seguita dal batterio. Tra le spiegazioni più probabili circa la diffusione capillare negli ospedali dell'area, vi è lo spostamento delle persone infette e in fase di trattamento antibiotico dal luogo di origine ai luoghi del pellegrinaggio della Mecca, che ha funzionato così da centrale distributiva del batterio.
Data la diffusione raggiunta ed essendo il batterio un patogeno opportunista (non associato cioè ad una malattia specifica, quindi asintomatico finché non si presentano le condizioni adatte) il rischio che diffonda al di fuori dell'area attuale è concreto.


Articolo successivo sul tema --> "Antibiotici nel Piatto".


Fonte
- Molecular Epidemiology of Carbapenem-Resistant Acinetobacter baumannii Isolates in the Gulf Cooperation Council States: Dominance of OXA-23-Type Producers.
Zowawi HM et al, J Clin Microbiol (2015) 53(3):896-903

Oxia Planum è il sito prescelto per la missione ExoMars

Marte (Credit: NASA)
Sono passati quasi due anni da quando avevo raccontato della ricerca da parte dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA) del luogo ideale in cui fare atterrare il rover della missione EXOMARS. La scelta è stata infine fatta con la designazione del sito principale, Oxia Planum, e di quelli "di riserva".
Oxia Planum (nome non ufficiale) è una ampia superficie argillosa sita tra Mawrth Vallis e Ares Vallis (coordinate 18,2 ° N 336 ° E). Due i motivi principali che hanno portato alla sua scelta: essere il fondale di un antico oceano e la sua natura piatta, condizione base per fare muovere agevolmente il rover (credit:NASA)
Nello specifico il rover atterrerà su Marte nella seconda fase della missione, nota come ExoMars-2018, che nel suo insieme rappresenta lo sforzo congiunto tra la ESA e la russa Roscosmos. Nella prima fase, prevista per il 2016, partiranno alla volta del pianeta rosso e all'interno di un unico modulo di lancio, il Trace Gas Orbiter e la sonda Schiapparelli; il primo fungerà da stazione orbitante mentre la seconda si sgancerà dall'Orbiter 3 giorni prima del contatto con l'atmosfera marziana. Una volta atterrato in un'area nota come Meridiani Planum, lo Schiapparelli rimarrà in comunicazione con l'Orbiter, posizionato nel contempo su un'orbita a 400 km di altezza.
Il rover della missione ExoMars-2018 (credit: ESA)
L'Orbiter fungerà da relè di trasmissione sia con la sonda sulla superficie che con la sonda successiva, fornendo informazioni sulle condizioni atmosferiche. Di fatto il modulo Schiapparelli funzionerà da cavia per testare l'affidabilità delle comunicazioni e condurrà alcuni esperimenti base; la sua limitata autonomia energetica e la ridotta strumentazione, permettono una operatività sul pianeta molto limitata, ma sufficiente per identificare i problemi a cui potrebbe andare incontro la molto più complessa (e costosa) sonda che verrà lanciata nella seconda fase della missione. Quest'ultima sarà costituita da un rover e da una piattaforma dotati di strumenti analitici sofisticati e ad alta autonomia energetica; il lancio è previsto per maggio 2018 con arrivo a destinazione nel gennaio 2019.
La ricerca di un sito di atterraggio adatto per EXOMARS-2018 è iniziata nel dicembre 2013, quando è stato chiesto alla comunità scientifica di proporre siti ideali sia per la fattibilità e sicurezza dell'atterraggio che per i dati potenzialmente ottenibili. Ad ottobre 2014 la lista si era ristretta a quattro siti (Aram dorsum, Hypanis Vallis, Mawrth Vallis e Oxia Planum).
I siti candidati per l'atterrraggio della sonda (credit: ESA). Consiglio vivamente di inserire le aree ricercate su Google-Mars o meglio ancora scaricando la app Google Earth e poi visualizzando Marte. Una alternativa  è lo "stradario marziano" della NASA (-->qui) oppure l'estensione Mars-map per Chrome (--> qui). Ricordo che il nome Oxia Planum non è ancora ufficiale quindi usate come riferimento le coodinate o i nomi dei siti "ufficiali" nelle vicinanze.
Lo missione principale che il rover dovrà condurre è la ricerca di indizi di vita marziana, passata o presente, e questo spiega il motivo per cui si sia scelta un'area in cui i dati geochimici indicano che l'acqua era una volta abbondante; la traccia più ovvia è la presenza di perclorato, un sale che si forma dopo una esposizione prolungata dei sali a base cloruro a raggi ultravioletti e alla radiazione "dura" cosmica (vedi anche B. L. Carrier et al, Geophys. Res. Lett. 2015). I dati disponibili indicano che l'oceano primordiale evaporò più di 3 miliardi di anni fa per una serie di concause tra cui la minore forza gravitazionale (incapace di trattenere i gas più leggeri), l'assenza di un campo magnetico rilevante (il nucleo ferroso, e similmente il mantello, del pianeta non si muove e quindi vengono meno le condizioni minime necessarie per l'esistenza di un campo magnetico planetario) e il vento solare che in assenza dello schermo fornito dal campo magnetico ha spazzato via gli strati più esterni dell'atmosfera (oltre a non proteggere la superficie del pianeta da una irradiazione verosimilmente non compatibile con la vita). Evaporata l'acqua, sulla superficie sono rimasti  i sali che hanno avuto tutto il tempo per essere trasformati in perclorati.

Credit: ESA artist's concept (by spacenews.com)
A differenza dei precedenti rover le cui capacità analitiche erano limitate alla esplorazione della superficie del pianeta, il prossimo rover sarà dotato di un trapano in grado di prelevare campioni fino a 2 m sotto la superficie, in corrispondenza del permafrost, e quindi in una zona in cui l'acqua può essersi mantenuta (così come potenzialmente forme microbiche di vita) sostanzialmente inalterata nel corso degli eoni.
Nota. Tra i dati più recenti che confermano la presenza di acqua nel sottosuolo marziano (e le problematiche associate nel rilevare l'acqua che evapora nel momento stesso in cui emerge sulla superficie) vi è lo studio pubblicato dalla NASA su Nature Geoscience (QUI un riassunto), frutto del lavoro certosino di comparazione dati di un dottorando.
Chissà che sorprese ci riserverà il guardare "sotto i sassi" marziani. Di sicuro impareremo qualcosa di più sulla planetogenesi, almeno nell'ambito del sistema solare.

Successivo articolo sul tema --> "La scelta definitiva del sito di attracco su Marte"

Altri articoli tematicamente correlati: Marte, ultima frontiera; Selezionati i candidati a siti di atterraggio su Marte; I problemi dei viaggi spaziali; Quale il futuro delle missioni marziane; Un robot sul suolo lunare?; Missione Rosetta; Missione Ceres; Luna.
Vedi anche i tag "Esopianeti" e "Astronomia" per altri articoli

Fonti
- Landing site recommended for Exomars 2018
ESA, news
- ExoMars Trace Gas Orbiter and Schiaparelli Mission (2016)
ESA, news
- EXOMARS
Agenzia spaziale Italiana
- Geologia marziana
space.com

*** aggiornamento marzo 2016 ***
Partita la missione europea ExoMars. Nella foto il razzo Proton che trasporta la sonda e il modulo di atterraggio lanciato dalla base russa di Baikonur. L'Italia è tra i principali finanziatori della missione insieme ad Esa e alla russa Roscosmos. La durata del viaggio sarà di circa 9 mesi.
image credit: ESA via ansa.it

Prossimo articolo sul tema "Missione Marte" --> "Un elicottero marziano"


L'intestino del panda è poco adatto a digerire il bambù

Il panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) è il simbolo universalmente conosciuto delle specie in via di estinzione.
Credit: J. Patrick Fischer
Molti studiosi lo considerano oramai una causa persa date due peculiarità "che remano contro" il loro futuro: una alimentazione molto specifica che in natura richiede un habitat altamente specifico; una bassissima propensione all'accoppiamento. Quando la popolazione scende al di sotto di un numero critico di individui, il bacino genetico si impoverisce talmente da rendere la sopravvivenza (o meglio la loro capacità di sopravvivere come specie nel lungo periodo) molto difficile (leggi anche QUI).
Tuttavia, nonostante i dubbi legittimi dei genetisti e di chi preferirebbe che gli investimenti sui panda venissero usati in modo più utile per la preservazione dell'ambiente e di altre specie misconosciute, è impossibile non sottolineare come i panda siano simboli ideali per veicolare il messaggio della conservazione e per lanciare gli allarmi sui rischi legati alla continua antropizzazione dell'ambiente. Il loro aspetto "carino", le loro abitudini pacifiche e, cosa non da sottovalutare, il loro non avere mai creato problemi di coesistenza con gli umani (a differenza dei lupi per gli allevatori o di giganti come gli elefanti) spiegano perfettamente gli investimenti fatti per "tenerli in vita", anche se il panda è verosimilmente "già estinto".

Essere al centro dell'attenzione fornisce l'ulteriore vantaggio di poterne studiare in dettaglio il comportamento e la fisiologia. Proprio da questi studi sono emersi dati interessanti circa il loro "incompleto" processo di adattamento alimentare, dipendente dal consumo in larghe quantità della parte più tenera (e solo quella) del bambù.
Come tutti gli animali erbivori, anche i panda hanno dovuto adattarsi nel corso di centinaia di migliaia di anni ad un regime alimentare "innaturale" per la fisiologia di molti vertebrati in quanto privi degli enzimi in grado di digerire (quindi estrarre i nutrienti) molecole come la cellulosa (--> pdf). La soluzione adottata dai mammiferi erbivori è la simbiosi "obbligata" con microbi celluloso-litici ospitati in aree specifiche dello stomaco; la digestione è tuttavia lenta e necessita di continui passaggi bocca-rumine-reticolo prima di essere marcata come "idonea" al transito in direzione intestinale e alla assimilazione dei nutrienti. Simbiosi obbligata in quanto in assenza di questi microbici "lavoratori" l'animale morirebbe letteralmente di fame, indipendentemente dalla quantità di erba ingerita.
Ma mentre erbivori, come i bovini o i cervidi, sono tali lungo tutto il albero filogenetico su scale temporali di milioni di anni, i panda appartengono alla famiglia Ursidae e all'ordine Carnivora, e come tali sono "progettati" su una infrastruttura al più onnivora (come molti orsi) ma di sicuro non prettamente erbivora. Gli antenati dei panda, con il progressivo passaggio ad una dieta unicamente vegetale, hanno intrapreso un arduo percorso adattativo che ha richiesto la simbiosi con microbi specializzati.
L'albero evolutivo del panda che dimostra la sua quintessenza orsina. Sulla separazione di orsi polari e orsi bruni vedi articolo  precedente QUI

Un recente studio pubblicato sulla rivista mBio spiega perché questo adattamento sia ancora oggi "imperfetto" e poco efficiente (e perché i panda siano animali così esposti al rischio estinzione). La sinossi dello studio può essere riassunta in "ecco perché l'intestino del panda non è adatto a digerire il bambù". In estrema sintesi, il microbiota associato ai panda ha un profilo ancora oggi più simile a quello degli ursidi che a quelli di un erbivoro propriamente detto.
I panda giganti "antichi" erano, come anticipato, onnivori. Il bambù è iniziato a comparire nella loro dieta a partire da circa 7 milioni di anni fa per diventare l'alimento quasi esclusivo circa 2,5 milioni di anni fa. In questo percorso di adattamento, i proto-panda hanno evoluto mascelle forti e uno "pseudopollice" per facilitare la presa del cibo. A differenza però di altri erbivori non hanno sviluppato un apparato digestivo specializzato o enzimi digestivi adatti a digerire le componenti più "ostiche" della materia vegetale.
Lo studio dei microbi intestinali effettuato mediante la caratterizzazione del RNA ribosomale presente nelle feci (e la comparazione con quello ottenuto da erbivori appartenenti a diverse famiglie come canguri, cavalli, etc) ha mostrato una scarsa diversità nei microbi intestinali e l'assenza dei batteri che degradano la cellulosa, comuni invece in tutti gli altri erbivori. I panda hanno al contrario una prevalenza di batteri come Escherichia, Shigella e Streptococcus, tipicamente associati ai carnivori.

Riassumendo
Nonostante la dieta vegetale dei panda giganti, il contenuto di proteine ​​e carboidrati ricavato è più simile a quello di un ipercarnivoro cioè di animali che ottengono più del 70% della loro dieta da altri animali.
Circa il 50 percento dell'apporto energetico del panda è basato sulle proteine, il che li pone al livello di animali prettamente carnivori come gatti e lupi. Anche la composizione del latte del panda è simile ad altri carnivori. Quindi si comportano come erbivori ma sono ancora, inconsapevolmente, carnivori.
I panda giganti hanno sviluppato tratti erbivori, tra cui cranio, muscolatura della mascella e denti che sono adattati per diete fibrose, e uno 'pseudo-pollice' usato per maneggiare il bambù. Hanno anche perso la capacità di percepire il gusto umami, che viene spesso associato al consumo di carne. 

Tuttavia i panda giganti hanno anche un tratto digestivo, enzimi digestivi e microbi intestinali che assomigliano a quelli dei carnivori e non degli erbivori. 


Il dato è in un certo senso sorprendente in quanto è noto come, negli esseri umani, cambiare lo stile alimentare sia in grado di influenzare profondamente il microbioma. Questo ovviamente non vuol dire che i microbi simbionti del panda siano incapaci di digerire la cellulosa (dato mangiano solo bambù e sono vivi) ma che i panda si sono dimostrati incapaci di "emanciparsi" dalla infrastruttura urside.
Un elemento che potrebbe spiegare la loro estrema dipendenza da una nicchia ecologica molto limitata.

Articoli di approfondimento sul microbioma --> QUI.

Fonte
- The Bamboo-Eating Giant Panda Harbors a Carnivore-Like Gut Microbiota, with Excessive Seasonal Variations.
Zhengsheng Xue et al, mBio (2015) vol. 6 no. 3 

-  For giant pandas, bamboo is vegetarian 'meat'
University of Sidney / news / maggio 2019



Ultrasuoni e terapia dell'Alzheimer

Ricercatori australiani hanno scoperto che la tecnologia ad ultrasuoni, un approccio assolutamente non invasivo, potrebbe essere un utile strumento terapeutico nel trattare una malattia come l'Alzheimer priva ad oggi di ogni valida terapia. E' bene sottolineare che l'utilità potenziale di questi trattamenti è di solo mantenimento dello status quo, bloccando il più a lungo possibile i processi neurodegenerativi.

La scoperta nasce dall'osservazione che gli ultrasuoni sono in grado di rompere le placche amiloidi, principale causa (anche se non vi è più un consenso unanime in proposito) della perdita di memoria e del declino cognitivo.
In estrema sintesi, gli ultrasuoni sono in grado di aprire temporaneamente (per poche ore) la barriera emato-encefalica, facilitando così prima il processo di eliminazione degli aggregatici proteici neurotossici e poi il ripristino di una funzionalità neurale "meno sofferente". Un effetto rafforzato dalla proprietà di queste onde di attivare l'attività fagocitaria delle cellule microgliali (le uniche cellule immunitarie ammesse in un'area altamente sensibile come il cervello).
I test, condotti su modelli murini dell'Alzheimer, dovranno ora essere confermati in altri modelli animali prima di procedere alla sperimentazione clinica.

Prossimo articolo sul tema --> QUI.
Articolo precedente --> QUI 

Fonte
- Scanning ultrasound efficiently removes amyloid-β and restores memory in an Alzheimer's model.
Gerhard Leinenga e Jürgen Götz. Science Translational Medicine  (2015) Vol.7, 278, pp.278

Nelle fessure delle rocce vulcaniche l'evoluzione del DNA

Dai tempi dell'esperimento noto come Brodo di Miller, i ricercatori stanno cercando di capire in quali condizioni possano essersi innescati i processi chimici di "auto-organizzazione" della materia che nel giro di centinaia di milioni di anni avrebbero portato alla comparsa di strutture organizzate, le cellule, il primo vero esempio di organismo vivente.
Se l'esperimento di Miller voleva riprodurre le condizioni di formazione dei mattoni fondamentali della vita (aminoacidi e molecole organiche complesse) con il passare degli anni i risultati ottenuti in tale esperimento sono stati in parte messi in discussione in quanto "semplicistici".
Le teorie attuali prevedono che uno dei passaggi chiave nella comparsa della "vita" sia stato il cosiddetto mondo a RNA, cioè lo stadio in cui molecole di RNA dotate di attività catalitica divennero in grado di autoreplicarsi.
Sorgenti termali sottomarine. La culla della vita? (wikimedia)
Il passo successivo a questo primo esempio di autopropagazione dell'informazione "genetica" si è basato sull'inglobazione di queste molecole all'interno di un ambiente protetto (micelle con doppio strato lipidico) dove nuove attività catalitiche avrebbero potuto comparire ed essere selezionate. Sul "dove" questo passaggio sia avvenuto, il consensus odierno vede le  sorgenti idrotermali sottomarine, note come camini, come il luogo ideale in una Terra primitiva e totalmente inospitale.
Uno dei problemi principali di questa teoria è che se da una parte i micropori all'interno delle rocce vulcaniche avrebbero potuto fornire le condizioni ideali per la replicazione del RNA, dall'altra le simulazioni fatte al computer e in laboratorio mostrano che i frammenti più corti di RNA sono favoriti in quanto replicano più velocemente dei frammenti più lunghi. Una tendenza che chiaramente favorisce la perdita di informazioni e non la comparsa di catene via via più lunghe (quindi con più informazioni).

Ma Dieter Braun e colleghi dell'università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera la pensano diversamente; all'interno delle crepe nelle rocce vulcaniche sottomarine ci sarebbero state le condizioni per rendere possibili non solo la concentrazione delle molecole "utili" ma anche la selezione di molecole lunghe.
Per simulare le condizioni esistenti nei pori delle roccia i ricercatori hanno immerso dei tubi capillari di vetro contenente DNA di lunghezza variabile in un flusso costante di acqua, creando poi una differenza di temperatura tra una faccia e l'altra del tubo pari a 33 gradi. Dopo pochi minuti di esposizione al gradiente si poteva già osservare l'accumulo di alcune molecole di DNA sul lato fresco. Aggiungendo a quel punto al sistema un mix di "ingredienti" come primers fluorescenti, nucleotidi e DNA polimerasi ed incubando per alcune ore, comparivano i prodotti di replicazione del DNA con particolare predilezione per le sequenze più lunghe, meno soggette ai moti convettivi innescati dal gradiente di temperatura (quindi meno soggetti ad essere "lavati via").
"La selezione delle molecole più lunghe", dice Braun, "è il prerequisito per l'evoluzione delle informazioni genetiche, ed è anche la dimostrazione che i pori della roccia possono avere agito come incubatrici della vita su scale microscopica".

Fonte
- Heat flux across an open pore enables the continuous replication and selection of oligonucleotides towards increasing length
Moritz Kreysing et al,  Nat. Chem. 10.1038/nchem.2155 (2015)

Il pappagallo della Tasmania farà la fine del Dodo?

L'iconico pappagallo della Tasmania (uno degli unici tre pappagalli migratori) è entrato ufficialmente nel poco invidiabile albo delle specie ad imminente rischio di estinzione. 
Credit: Gunjan Pandey

Le previsioni sono chiare: se dovesse continuare il calo attuale entro i prossimi 16 anni non rimarrebbe alcun esemplare (o troppo pochi per rendere la specie geneticamente vitale).
I dati sono stati forniti dalla Australian National University.
Come spesso avviene quando si parla di ecosistema, la scomparsa di una specie può avere conseguenze sull'intero ecosistema. Nel caso specifico questo animale ricopre un ruolo chiave come impollinatore degli alberi della gomma, a loro volta elemento centrale per le industrie locali il che ingenera un circolo vizioso in cui ecosistema e industria risultano entrambi perdenti dal pericolo che incombe su un attore trattato più come una comparsa che come una star.

Il petauro (credit:ilmondodeglianimali)
Tra le cause della riduzione del numero di questi volatili non appare in questo caso caccia o cattura a scopo di vendita. E' il naturale comportamento migratorio del pappagallo che lo spinge ogni anno a spostarsi in ristrette e specifiche aree della Tasmania ad averlo esposto al mutamento di tali territori. La deforestazione a scopi agricoli ha depauperato il territorio, spingendo i pappagalli a concentrarsi in aree più ristrette, divenendo così facili bersagli di predatori come i petauri (una specie tra l'altro non nativa della Tasmania) con un effetto dirompente di un dimezzamento della popolazione ogni 4 anni.
Altre informazioni reperibili su The Conversation

Fonte
- Tasmania's swift parrot set to follow the dodo
Australian's National University, news

Alla ricerca del vaccino contro il diabete giovanile

Un team internazionale di ricercatori ha completato con successo il primo passo nel tortuoso processo di un futuribile vaccino per prevenire il diabete di tipo 1.

Lo studio concluso da qualche mese, noto come pre-POINT, ha infatti mostrato nei bambini a rischio di sviluppare la malattia, e trattati con dosi orali di insulina, una adeguata modulazione immunitaria. I risultati, pubblicati sul Journal of American Medical Association sono preliminari ma indicano che la strada è percorribile e che non sussistono rischi di effetti collaterali come ad esempio la comparsa di iperglicemia.
Il diabete giovanile (o diabete di tipo-1) deriva il suo nome proprio dal precoce esordio se confrontato con il diabete di tipo 2, molto più comune sopra i 50 anni (ed eziologicamente diverso). Se il meccanismo che porta alla comparsa della malattia è ben compreso (una reazione autoimmunitaria che porta alla distruzione delle cellule che producono l'insulina, le cellule beta di Langerhans nel pancreas), meno note sono le cause su cosa inneschi, in alcuni soggetti, questo attacco suicida. Le ipotesi più accettate postulano un insieme di predisposizione genetica e infezioni virali in grado di attivare una risposta immunitaria "fuori fuoco": le cellule produttrici di insulina vengono scambiate come estranee (o infettate) e da qui si attiva il processo distruttivo che porta alla perdita della capacità di produrre l'ormone.
Nota. Il processo di maturazione del sistema immunitario inizia nella vita embrionale e si conclude nell'infanzia. Durante questo periodo le cellule linfocitarie vengono prima selezionate positivamente (solo le cellule in grado di riconoscere il self sopravvivono) e poi negativamente (le cellule che attivano la risposta immunitaria contro elementi self vengono eliminate). Un processo essenziale perché le cellule siano in grado di distinguere ciò che è "se stesso" da ciò che è estraneo (microbi) o anomalo (tumori): se uno dei due processi non avviene correttamente la risposta immunitaria sarà o inefficace oppure diretta contro se stessi (esattamente quanto avviene nelle patologie autoimmuni)  
Risultato della distruzione delle cellule beta del pancreas è che i bambini per sopravvivere dipenderanno per tutta la loro vita dalle iniezioni di insulina.
E' possibile agire prima che la distruzione delle cellule beta abbia superato la soglia del non ritorno? Questa è la domanda che si sono posti i ricercatori quando hanno cercato un modo per indurre lo stato noto come tolleranza immunologica verso l'insulina, vale a dire il normale processo regolativo con cui l'organismo "accetta" come proprio un determinato antigene.
Lo scopo del vaccino è quello di spronare il sistema immunitario ad accettare l'insulina e a non considerarla una proteina estranea (un processo molto simile alla desensitizzazione contro gli allergeni usata con successo contro le allergie).

Nello studio pre-POINT, i bambini idonei (quelli che per motivi diversi erano considerati ad alto rischio di sviluppare il diabete di tipo 1) hanno ricevuto insulina per via orale una volta al giorno per circa un anno e mezzo. Tra questi, il sottogruppo che ha ricevuto il maggior dosaggio (67,5 mg) era quello in cui la quantità di insulina era sufficiente ad innescare la risposta immunitaria desiderata.
Il gruppo di controllo ha ricevuto ovviamente solo un placebo

Dato che il trattamento avveniva in soggetti sani anche se a rischio, uno dei parametri più importanti da verificare era che l'insulina ingerita non fosse in grado di modificare i livelli di glucosio ematico, un effetto che avrebbe indotto effetti collaterali pesanti. L'assunzione orale è stata usata proprio per questo motivo: l'insulina, una volta ingerita, viene parzialmente degradata nello stomaco e i frammenti che raggiungono l'intestino non sono più in grado di legare gli specifici recettori cellulari.

Lo studio pilota ha confermato che il trattamento non induce effetti indesiderati ed è in grado di innescare la produzione di immunoglobuline G e A (nel sangue e nella saliva rispettivamente) nel 83% dei soggetti trattati con la dose massima.
I risultati ottenuti sono la premessa indispensabile per estendere la casistica con uno studio clinico completo e di lunga durata (un follow-up di diversi anni è fondamentale).

E' ancora presto per sperare ma il "mattone della fattibilità" è stato posizionato. 


Articolo successivo sul tema "terapie future del diabete" (--> QUI). Per la raccolta di articoli tematici clicca invece --> qui.

Fonte
- Effects of High-Dose Oral Insulin on Immune Responses in Children at High Risk for Type 1 DiabetesThe Pre-POINT Randomized Clinical Trial 
Ezio Bonifacio et al, JAMA April 21, 2015, Vol 313, No. 15

Può l'ovidotto favorire uno spermatozoo a seconda del cromosoma X o Y?

La battaglia dei sessi inizia nell'ovidotto? O meglio, può l'ovidotto favorire uno spermatozoo a seconda che questo possieda il cromosoma X o Y?
I dati ottenuti sui suini sembrerebbero confermare questa ipotesi: l'apparato riproduttivo femminile è in grado di percepire il "sesso" dello spermatozoo (cioè se porta o meno un cromosoma Y).

La domanda sarebbe oziosa se non partisse dall'osservazione che nei mammiferi il rapporto tra maschi e femmine nella progenie è a favore della femmina. Sebbene questo abbia una chiara logica evolutiva, il problema è sempre stato comprendere come questo sbilanciamento possa avvenire, a parità di vitalità degli zigoti, visto che il rapporto tra gli spermatozoi "maschili" e "femminili" è uguale a 1.
Nota. Il sostantivo di genere è solo una scorciatoia semantica in quanto, ovviamente, gli spermatozoi non hanno alcun sesso. Sono portatori potenziali del "sesso dello zigote" in quanto la madre che contribuisce solo con il cromosoma X è di fatto "irrilevante" nella determinazione del sesso.
Il lavoro pubblicato su BMC Genomics evidenzia nelle cellule dell'ovidotto una netta differenza nel profilo trascrizionale di 500 geni testati, a seconda che gli spermatozoi avessero il cromosoma X o Y (studio effettuato inserendo mediante laparoscopia solo spermatozoi di ciascun "sesso"). Nello specifico, quando il cromosoma Y era presente, 271 geni venivano parzialmente spenti mentre 230 erano maggiormente trascritti.
Non è ancora chiaro l'impatto "ambientale" di tali variazioni ma non è arduo ipotizzare che questo renda l'ambiente più o meno favorevole allo spermatozoo e quindi alle sue probabilità di fecondare l'oocita. Il che a sua volta si tradurrebbe nella variazione del rapporto nella progenie tra maschi e femmine.

Quanto scoperto nei suini potrebbe aiutare a fare luce sul fenomeno rivalutando l'azione materna che diverrebbe così, in modo totalmente "inconscio" di favorire la progenie di un sesso piuttosto dell'altro in base alle condizioni ambientali. Non si tratta di una novità in senso assoluto visto che in molti rettili la determinazione del sesso non dipende dalla presenza di un particolare cromosoma ma dalla temperatura di incubazione delle uova. Le condizioni climatiche, la presenza di cibo e l'eventuale sovraffollamento (tutti induttori di stress) impongono contromisure per massimizzare le probabilità di propagare il proprio DNA; agire sul rapporto maschi/femmine nella popolazione è uno dei modi con cui questo può essere fatto.


Fonte
- The battle of the sexes starts in the oviduct: modulation of oviductal transcriptome by X and Y-bearing spermatozoa
Carmen Almiñana et al, BMC Genomics 2014, 15:293


Alzheimer uno e trino

(Articoli precedenti sullo stesso tema --> QUI)

Il morbo di Alzheimer è stato a lungo considerato (e  lo è tuttora tra i non addetti ai lavori) una malattia omogenea i cui sintomi classici sono perdita della memoria e demenza, ed un ampio processo neurodegenerativo a livello morfologico. Al contrario di tale visione semplicistica, la malattia può presentare decorsi e sintomi anche molto diversi tra loro, fatto che ha portato a postulare l'esistenza di almeno tre distinti sottotipi di morbo di Alzheimer (AD). 
(credit: alzinfo)
Questa è almeno la conclusione che emerge da uno studio condotto da un team della UCLA coordinato da Dale Bredesen, pubblicato sulla rivista Aging. La scoperta non ha un mero valore di catalogazione della malattia ma è un passaggio chiave per sviluppare adeguati test diagnostici prima e terapeutici poi. Per rendere meglio l'idea dell'importanza dell'approccio, l'errore di affrontare una malattia di fatto eterogenea come se fosse eziologicamente omogenea (sebbene alcuni suoi aspetti siano comuni nelle diverse forme) equivarrebbe a trattare un paziente con difficoltà respiratorie senza accertare se se i sintomi siano conseguenza di problemi cardiovascolare o di una allergia stagionale.
Una situazione simile la si ha con l'autismo, la cui complessità sottostante è indicata dal nome ufficiale di Autism Spectrum Disorder (--> QUI).
Allo stato attuale delle conoscenze, i pazienti vengono divisi in due ampie categorie a seconda della eziologia familiare o sporadica della malattia. In presenza di parenti prossimi con una storia di neurodegenerazione ascrivibile al morbo di Alzheimer, il contributo della componente genetica assume connotati di ampia rilevanza; sebbene anche qui la malattia sia geneticamente eterogenea, lo studio genetico delle famiglie coinvolte ha permesso di identificare un certo numero di alleli "a rischio". In tutti gli altri casi, la patologia può essere definita de-novo e al momento non sono noti allelli utilizzabili come predittori della malattia.
Il lavoro di Bredesen si è innestato su questa problematica analizzando metodicamente diverse decine di soggetti (50) nelle fasi precoci della malattia, monitorate per circa due anni. Da qui la proposta dei tre sottotipi di AD:
  • infiammatorio, caratterizzato da alti valori di proteina C-reattiva e del rapporto albumina sierica/globuline. I pazienti sono caratterizzati da una sindrome amnesica e da atrofia ippocampale.
  • Non-infiammatorio. I pazienti in questa categoria mostrano valori normali dei marcatori del punto precedente. Si tratta in genere di soggetti in cui l'esordio della malattia è più tardivo e vi è una maggiore correlazione con l'allele ε4 della apolipoproteina E (APOE4). Anche qui i pazienti presentano una sindrome amnesica e i test di imaging neuronale mostrano una ridotta funzionalità (alias minor consumo di glucosio) nell'area parietale-temporale. In questo gruppo sembrano particolarmente rilevanti le associazioni con altre anomalie metaboliche come insulino-resistenza, ipovitaminosi D, iperomocisteinemia e la riduzione ormonale successiva a ovariectomia.
  • Corticale. In questo gruppo rientrano soggetti relativamente giovani dove il quadro disfunzionale comprende aree cerebrali più estese. A differenza delle altre forme non è la memoria ad essere colpita nelle fasi iniziali della malattia quanto invece le competenze linguistiche. Per tale motivo i pazienti affetti da questo sottotipo sono spesso erroneamente diagnosticati come non-AD. Un tratto abbastanza comune in questi soggetti è la carenza fisiologica di zinco.
E' superfluo ricordare come non esistano, ad oggi, terapie anche solo minimamente efficaci sul lungo periodo per rallentare (di bloccare non se ne parla ancora) la progressione della malattia. Tuttavia, l'eterogeneità stessa delle cause della malattia spiega per quale motivo il decorso possa differire sostanzialmente tra un individuo e le ragioni per cui alcuni trattamenti - ma solo in alcuni pazienti - si siano rivelati inaspettatamente molto utili per il controllo di alcuni sintomi (ovviamente parziale e limitato nel tempo). Tra i trattamenti proposti vale la pena citare quello sviluppato dallo stesso Bredesen che nel 2014 aveva mostrato come implementare un certo stile di vita, fatto di attività fisica e mentale oltre che a modifiche sostanziali della dieta, fosse in grado di bloccare il declino cognitivo in un ristretto gruppo di pazienti (nove su 10) con AD precoce (un mini approfondimento --> QUI). 
Un approccio questo che aveva fatto sollevare il sopracciglio a più di un neuroscienziato (consapevoli dell'entità delle lesioni irreversibili presenti in questi pazienti) ma che deve, alla luce della categorizzazione odierna, essere letto come una possibilità terapeutica specifica per un ristretto sottotipo di pazienti.
La sfida nei prossimi anni è enorme dato l'aumento della popolazione anziana (e quindi del numero di soggetti con decadimento cognitivo grave) non solo nelle aree sviluppate ma perfino in Africa. Se impallidiamo all'idea di un continente di anziani pensiamo all'impatto che questo avrà in aree come Cina o India dove l'aumento di solo l'uno per cento (un valore volutamente inferiore a quello reale) di anziani, tradotto in numeri vuol dire un incremento di decine di milioni di soggetti bisognosi di tutto e (cinicamente) una voragine economica per economie socialmente instabili.

Articolo successivo sul tema --> "Ultrasuoni e terapia AD"

Fonti
- Metabolic profiling distinguishes three subtypes of Alzheimer's disease.
Bredesen DE et al, Aging (2015) 7(8):595-600.
- Alzheimer's disease consists of three distinct subtypes
UCLA, news (settembre 2015)
- Memory loss associated with Alzheimer's reversed for the first time
UCLA, news (ottobre 2014)

Un polimero antiemorragico pensato per i campi di battaglia e nella medicina di emergenza

La maggior parte dei feriti sul campo di battaglia muore prima di riuscire a raggiungere l'ospedale da campo. Tra le ferite che impongono un immediato trattamento quelle caratterizzate da emorragie rappresentano da sempre la principale causa di fatalità, anche nel caso di ferite "facilmente" trattabili in un centro attrezzato. Sebbene le tecniche di primo soccorso (e i kit in dotazione) abbiano raggiunto parametri di efficienza incredibili grazie all'esperienza maturata negli ultmi 50 anni, ci sono casi in cui i trattamenti disponibili sono inefficienti. Una ferita al petto ad esempio non può essere bloccata con un laccio emostatico e i pur importanti emoderivati insieme ai trattamenti coagulanti necessitano di temperature di conservazione particolari, difficilmente disponibili negli ambienti operativi.
Non si tratta di problemi limitati al campo militare dato che gran parte delle tecniche e procedure sviluppate in tutti questi anni ha trovato un vasto impiego anche nella vita civile (incidenti, terremoti, etc).

Ecco perché la University of Washington ha investito tempo e denaro nello sviluppo di un polimero iniettabile (Polystat) capace di rafforzare l'interazione tra i coaguli di sangue. Una singola somministrazione è sufficiente affinché il polimero scovi lesioni invisibili ad una indagine esterna e inizi "a lavorare" immediatamente bloccando l'emorragia.

L'azione del Polystat (credit: University of Washington)
In seguito ad una lesione vascolare le piastrine si raggruppano intorno alla ferita cercando di formare una barriera per dare il tempo a proteine come la fibrina di formare una tessitura stabile intorno al coagulo. Se la pressione del sangue è troppo forte, la fibrina non ha il tempo di agire e il coagulo viene spazzato via.
Il Polystat agisce in modo simile al fattore XIII stabilizzando i coaguli mediante legami crociati con la fibrina. Tra i suoi vantaggi la maggiore resistenza resistente all'azione degli enzimi coinvolti nello smantellamento del coagulo, fondamentali nel processo di guarigione ma controproducenti quando i medici cercano di salvare il paziente dal dissanguamento. Il Polystat inoltre non dipende dalla presenza di una proteina precursore della fibrina, presente nel sangue ma la cui concentrazione cala drasticamente durante emorragie sostenute o recidive. Corollario importante di questa caratteristica è non presenta rischi di aggregazioni spontanee in sedi non volute, cioè in ogni altro punto del corpo (problema invece tipico dei coagulanti) e quindi il rischio di trombosi sistemiche è pressoché nullo.
Altro enorme vantaggio il basso costo di sviluppo e la stabilità a temperatura ambiente.

Lo studio descritto su Science Translational Medicine è stato valutato così importante da meritarsi la copertina del giornale. I test, tutti positivi (100% di sopravvivenza contro il 20% della terapia standard), sono stati condotti su ratti e si spera di passare alla validazione clinica nel giro di pochi anni.

Fonte
- A synthetic fibrin cross-linking polymer for modulating clot properties and inducing hemostasis
Leslie W. Chan et al, Science Translational Medicine  (2015) Vol. 7, 277, pp. 277




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