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13 millisecondi è il tempo minimo perché il cervello "catturi" l'immagine

Immaginiamo di partecipare ad un test percettivo mirante ad analizzare la correlazione tra tempo di esposizione ad una serie di immagini mostrate in rapida successione e per frazioni di secondo, e la "percezione" di quanto visto.
Riusciremmo alla fine del test a percepire come "già viste" le immagini che l'esaminatore ci farà (nuovamente) vedere? Il risultato ovviamente dipenderà, oltre che dalla nostra memoria, dal tempo a cui siamo stati esposti al primo flusso di immagini.
E' importante sottolineare che ricordare consapevolmente una determinata immagine non è un prerequisito per il riconoscimento della stessa durante il test. Un conto infatti è vedere e un altro è percepire; molto di quello che vediamo non è "visto" a livello corticale (ad esempio l'albero che aggiriamo in modo automatico mentre camminiamo nel parco) eppure è stato percepito. La domanda è quindi quale è il tempo minimo "di esposizione" perché il nostro cervello acquisisca informazioni sufficienti per catturare l'immagine?
Di una cosa possiamo essere sicuri a priori: l'immagine (da intendersi come i fotoni riflessi dall'oggetto che arrivano a noi) "colpisce" la retina anche se il tempo di esposizione fosse molto basso, vale dire inferiore a quello generalmente considerato come tempo minimo per poter dire "lo abbiamo visto" .
Dal momento in cui i fotoni colpiscono la retina si attiva una serie di eventi a cascata che culminano nella ricostruzione cerebrale di ciò che si è "visto".
Dall'oggetto reale alla rappresentazione cerebrale dell'oggetto: fotoni: epitelio retinico: nervo ottico e infine nella corteccia visiva primaria.

INTRODUZIONE
In estrema sintesi, questi sono i passaggi alla base del processo visivo:
  • i fotoni, dopo essere passati attraverso la lente e l'umor vitreo, raggiungono la camera posteriore dell'occhio in cui si trova l'epitelio retinico. Qui attraversano una serie di strati cellulari trasparenti fino a colpire i fotorecettori presenti in cellule specializzate, i coni e i bastoncelli. Il risultato è la depolarizzazione della membrana cellulare, la "scintilla" che fa partire il segnale elettrico.
  • Il segnale elettrico si trasforma in potenziale d'azione quando arriva nelle adiacenti cellule gangliari i cui assoni formano il nervo ottico. In pratica il segnale fa un percorso inverso a quello della luce, nella figura raffigurato (ma è solo uno schema) dal basso verso l'alto. Volendo essere precisi è errato dire che la luce attiva il segnale nervoso dato che in realtà "disattiva il segnale inibitore presente di default"; il risultato è una attivazione ma come effetto dell'inibizione di un inibitore.
    Epitelio retinico (QUI una immagine al microscopio elettronico)
  • Il segnale nervoso attraversa tutto il cervello passando da "stazioni" di smistamento come il chiasma ottico, il nucleo genicolato laterale (parte del talamo) per arrivare infine alla corteccia visiva primaria (V1). 
    Schema di una sezione trasversale del cervello vista "dal basso"
  • Dall'area V1 si dipartono due vie essenziali per la decodifica dell'immagine, la "via dorsale-parietale" (in rosso nella figura) che contestualizza ciò che vediamo e la "via ventrale-temporale" (in verde nella figura) che dice "cosa" vediamo. In quest'ultima area avviene la scomposizione del contenuto dell'informazione nei suoi elementi costituenti come forma, colore e orientamento (vedi anche articolo precedente QUI).
  • Schema del percorso del segnale visivo
  • Il processo si conclude nei centri superiori con l'elaborazione dell'informazione "complessiva" e il confronto con le informazioni preesistenti che ci permette di identificare ciò che vediamo prima ancora di esserne consapevoli.  Quando il segnale giunge nella corteccia prefrontale (nella figura indicate come VLPFC e DLPFC) sede dei processi decisionali e della "consapevolezza", il senso dell'immagine è già stato catturato a livello inconscio.
Una elaborazione certamente complessa ma molto veloce, come è evidente dalla nostra capacità di evitare ostacoli improvvisi o semplicemente non percepiti consciamente


LO STUDIO
Torniamo ora al test descritto inizialmente e chiediamoci quale sia il tempo minimo di visualizzazione di una immagine per avere informazioni sufficienti affinché il processo percettivo sia possibile.
Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto sottolineare che l'occhio, a differenza di una videocamera, funziona "in continuo"; la qualità visiva NON è quindi definita da parametri come fotogrammi per secondo (fps).
L'occhio non funziona nello stesso modo dell'otturatore! L'elemento centrale nella visione è il connubio tra processo percettivo e l'elaborazione di quanto visto.

L'articolo pubblicato sulla rivista "Attention, Perception and Psychophysics" da un gruppo di ricerca del MIT di Boston ci dà la risposta: al cervello umano basta vedere una immagine per soli 13 millesimi di secondo per poterla elaborare. Un tempo nettamente inferiore rispetto al limite finora ipotizzato di 100 millisecondi.
Notate la differenza tra il tempo sufficiente per catturare una immagine (13 msec) e quello necessario per prendere una decisione (100-140 msec). Una differenza spiegata dal diverso percorso neurale. A questo proposito è utile ricordare che il passaggio del segnale tra un neurone e il successivo (passaggio che avviene nelle sinapsi) avviene in meno di un millesecondo.
Nel test i ricercatori hanno mostrato ad un certo numero di volontari una serie di immagini classiche, tipo "picnic" o "coppia sorridente", per tempi variabili tra 13 e 80 millisecondi.
In questo intervallo di tempo le aree del cervello preposte all'analisi identificano gli elementi caratterizzanti l'immagine basandosi sulla esperienza. L'associazione tra quanto già visto e quanto ora visualizzato permette di richiamare concetti (tipo "mi ricorda un cane") che velocizza il processo di identificazione di un oggetto
Nota. Un cercatore di funghi è molto più bravo di qualcuno senza esperienza in quanto riesce a isolare la forma fungo dal flusso di informazioni che colpiscono ininterrottamente l'occhio. Un processo che dipende dal rafforzamento delle connessioni neuronali, legato all'apprendimento, tra talamo e V1.
E' proprio grazie alla capacità del cervello di richiamare concetti noti come "picnic" o "sorriso" che si basa la velocità percettiva testata.
Mary Potter, l'autrice senior del lavoro, ci aiuta a comprendere il concetto: "il lavoro degli occhi non è solo raccogliere le informazioni, ma anche permettere al cervello di avere dati sufficienti per identificare l'oggetto e poi passare a qualcosa d'altro. In un certo senso i nostri occhi si muovono in continuazione per carpire più dettagli possibili affinché [il cervello] possa "indovinare" senza dovere processare ogni singolo input visivo". In altre parole "questo oggetto assomiglia all'idea di albero e quindi so che è un albero". Se si dovesse verificare una distonia tra informazione prevista e informazione reale (sento una voce che proviene da "idea" di albero "il che è assurdo dato che l'albero non parla") l'attenzione verrà spostata sull'oggetto per catturare più informazioni multisensoriali (e conscie) e processarle corticalmente. Questo ci permette ad esempio di scoprire che seduto ai piedi di un albero c'è una persona che parla al cellulare. In questo brevissimo lasso di tempo si è passati quindi da una visione passiva ad una attiva.
Anche nella visione passiva l'occhio cerca di catturare quante più informazioni possibili cambiando posizione circa tre volte al secondo, in modo da mettere a fuoco nella macula (o meglio sulla fovea, l'area a maggior densità di fotorecettori) più elementi possibili. Il fenomeno è noto come saccade.
E' bene precisare che sotto i 50 millisecondi vi è un calo delle prestazioni complessive della capacità di identificare un oggetto mostrato, pur rimanendo ancora significativamente rilevanti fino alla soglia minima di circa 13 millisecondi. Un limite non definitivo dato che il computer usato non permetteva una proiezione di immagini a velocità maggiore.

credit: Mcgill University
I test dovranno ora essere ripetuti in modo da escludere eventuali effetti cumulativi legati alla pratica o al ridotto numero dei temi mostrati. Una cautela ovvia ma minimizzata da Simon Thorpe, direttore del Centre de Recherche Cerveau & Cognition dell'università di Tolosa; i risultati infatti sono uguali anche quando l'immagine è inserita all'interno di una sequenza di 6-12 immagini non correlate tra loro mostrate in 13 millisecondi. Una sequenza pari a 75 fps, superiore anche a quella dei film proiettati al cinema (48 fps).
Lo studio offre la prova che "l'elaborazione feed-forward" - il flusso di informazioni in una sola direzione, dalla retina attraverso i centri di elaborazione visiva del cervello - è sufficiente per l'identificazione degli elementi tematici chiave senza che sia necessario riprocessare l'informazione.
Suggerisce anche che la percezione dell'immagine rimane più a lungo dei 13 millisecondi di esposizione: se le immagini venissero "cestinate" subito dopo essere state viste, di esse non rimarrebbe traccia nella memoria; il fatto che i volontari, dietro specifica domanda, siano stati in grado di reperire l'informazione, indica che è avvenuta la transizione tra la cosiddetta memoria sensoriale (pochi millisecondi) a quella di breve termine (durata inferiore ai 30", utile per fare il numero di telefono che ci hanno appena detto) e a quella a lungo termine.

La capacità di identificare le immagini viste per così poco tempo è importante in quanto aiuta il cervello a focalizzare lo sguardo, se necessario, quando viene percepita una "forma" pericolosa.
Ad esempio salto indietro da un serpente prima ancora di capire che quello che sta attraversando la mia strada e' veramente un serpente.
Un lavoro svolto in automatico senza il coinvolgimento, e quindi senza il carico di lavoro e la perdita di efficienza per altre mansioni, della corteccia.
Nota. I dati ottenuti nel lavoro americano sono in accordo con uno studio precedente (a cui aveva partecipato anche un gruppo dell'università di Parma) condotto su animali, in cui si dimostrò che i neuroni dei macachi erano in grado di rispondere a immagini mostrate per soli 14 millisecondi in rapida sequenza.
Due le domande a cui bisognerà ora dare una risposta:
  • per quanto  tempo le informazioni visive catturate durante un tempo così poco tempo possono essere conservate.
  • quali le regioni coinvolte nel processo di identificazione.

Fonte
- Detecting meaning in RSVP at 13 ms per picture , 
Mary C. Potter et al, (2014) Attention, Perception, & Psychophysics

- In the blink of an eye
 MIT, news

Altri articoli sul tema
 

***
Ad integrazione di quanto scritto, vi mostro una visualizzazione empirica delle attività che il nostro cervello compie per "ricostruire" ciò che stiamo vedendo. Le immagini vengono dal EXPLORATORIUM, il bellissimo museo interattivo interamente dedicato alla scienza, sito a San Francisco.
Lo sperimentatore di fronte alla telecamera che scompone l'immagine "vista consciamente" nella somma delle componenti elaborate singolarmente dal cervello

Una parte della corteccia visiva si occupa di elaborare le informazioni cromatiche che derivano dall'attivazione differenziale dei tre tipi di coni (cellule con fotorecettori sensibili a diverse lunghezze d'onda della luce). La bassa risoluzione NON è un artefatto della telecamera ma è proprio la caratteristica del nostro occhio che NON è una fotocamera ad alta risoluzione. Il fatto che noi percepiamo una visione in HD è il risultato del post-processamento cerebrale. Il cervello è ben più efficiente della Lucas Ltd.

Un'altra parte della corteccia si occupa della "cattura" delle linee e del loro orientamento. Senza questa funzione non saremmo capaci di distinguere un oggetto dall'altro anche vedendolo perfettamente (ne sono prova alcuni pazienti con lesioni corticali, post-traumatiche o patologiche, ben definite) Vedi anche su questo blog -->"identificata la regione cerebrale che rileva i bordi"

Questa attività è più difficile da mostrare con immagini statiche. Fate conto che questa parte del cervello risponde solo ai movimenti. A sinistra lo sperimentatore nel momento in cui inizia a muovere il corpo e a destra quando è in piena "oscillazione". Anche in questo caso esistono delle corrispondenze nelle lesioni cerebrali come quello dei pazienti che soffrono di achinetopsia vale a dire cecità più o meno totale al movimento (mentre non hanno alcun problema a vedere ad esempio panorami o altre persone mentre sono ferme); uno di questi casi è stato citato da Oliver Sacks in "Un antropologo su Marte".

Esiste un'area della corteccia la cui funzione è quella di "scoprire" i volti che verranno poi confrontati (ma questo è un passaggio ulteriore indipendente dalla visione) con il "database" di volti già incontrati in modo da effettuare il riconoscimento (anche solo parziale).

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