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Indurre il sonno REM con un fascio di luce laser

Un ipnotizzatore può farti addormentare ma un fascio di luce laser ben diretto riesce a mandare nel mondo dei sogni i topi.

Tra le tecniche utilizzate da illusionisti e prestigiatori l'ipnosi è quella che in passato ha riscosso maggior successo in quanto non basata su un trucco scenico.
La capacità di indurre nel volontario di turno la "spinta" a fare cose al di fuori della propria volontà (ma fino ad un certo limite), e senza serbarne ricordo, è stata usata anche come elemento narrativo portante in molti film (ad esempio La maledizione dello scorpione di giada di Woody Allen), sebbene sviluppato in modo altamente fantasioso.
Al netto della non partecipazione di complici a queste scenette da palcoscenico, il trucco non è ... un trucco, ma un metodo usato dagli psicologi per fare emergere ricordi traumatici dalle profondità del subconscio di un individuo "preparato" all'uopo attraverso l'induzione di uno stato di trance.
Nota. A differenza di quanto  si crede, le persone sotto ipnosi non sono "spente" ma, al contrario, "iper-concentrate" su una data immagine, auto-creata o suggerita dall'ipnotizzatore, senza esserne cognitivamente consapevoli. Tra le aree cerebrali particolarmente attive durante lo stato ipnotico vi è il precuneo, sito nel lobo parietale superiore e coinvolto nei processi di elaborazione visual-spaziale. Per approfondimenti suggerisco due articoli, uno in italiano (--> su Focus) e uno in inglese (--> What Hypnosis Really Does to Your Brain).
Il miraggio della disponibilità di un interruttore "magico" in grado di attivare o spegnere un dato circuito neuronale legato a ricordi, emozioni o comportamenti ha guidato per anni il lavoro di molti neuroscienziati spinti dalla consapevolezza sperimentale che il modo migliore per valutare la funzione di una data area cerebrale fosse quello di testarne il rapporto causa-effetto, qualunque fosse l'effetto: dal semplice muovere un dito all'induzione di una emozione.
Fino a non molto tempo fa l'unica modalità per esplorare nel dettaglio "chi facesse cosa" nel cervello dipendeva da due approcci, uno clinico (basato sulla correlazione tra lesioni cerebrali e funzionalità alterate) e l'altro sperimentale (basato sull'attivazione/repressione di particolari aree). L'inserimento di microelettrodi nella calotta cranica è un tipico esempio di approccio sperimentale multi-funzionale, utile sia per identificare l'attivazione di una data area (in modalità "sensore") che per indurre una risposta nel soggetto (in modalità "stimolatore"); l'importanza del metodo è tale da essere ampiamente usato dai neurochirurghi sul paziente in sedazione vigile per monitorare la localizzazione di aree funzionali ed evitare così di lesionarle durante l'intervento.
Con gli anni le tecniche si sono affinate (complementandosi più che soppiantandosi) fino a rendere possibile modificare temporaneamente la funzionalità di una area specifica dall'esterno del cranio, come avviene con la stimolazione magnetica transcranica. Un metodo utile, in quanto totalmente non invasivo, ma grossolano quando lo scopo è caratterizzare nel dettaglio la funzionalità di poche decine di neuroni. 
optogenetica
 Ed è qui che entra in gioco una tecnica estremamente potente chiamata optogenetica grazie alla quale è possibile, mediante un fascio di luce coerente portato da microfibre ottiche, modificare l'attività elettrica di neuroni in cui è stato introdotto il gene per un recettore esogeno sensibile alla luce (che funziona sulla falsariga di un fotorecettore retinico); il nome della tecnica riassume il suo modus operandi essendo il risultato di Optical-control e Genetica. Il gene per il fotorecettore può essere inserito in due modi: 1) creando animali transgenici, caratterizzati dal fatto che tutte le cellule possiedono il gene "alieno" ma solo un ristretto numero lo esprime; 2) sfruttando il più moderno e meno costoso trasferimento mediato da virus, che funziona qui come una nave cargo per trasferire (senza mai replicarsi) il gene solo in cellule specifiche (Per informazioni più dettagliate rimando ai siti --> Neuroscience Fundamentals e --> optogenetics.weebly.com).
Pur di fondamentale importanza e incredibile potenza conoscitiva tale metodo ha il grosso limite di essere utilizzabile esclusivamente sui topi, dato che è imprescindibile dall'utilizzo di alterazioni genetiche create ad hoc. L'animale deve infatti possedere neuroni che producono il fotorecettore; una modifica che in condizioni normali non ha alcun effetto sull'animale per il semplice motivo che dentro la calotta cranica non vi è luce e quindi il fotorecettore è costantemente inattivo. Una volta però introdotto un micro-cavo in fibra ottica in grado di illuminare una piccolissima area del cervello, si potrà studiare in modo estremamente dettagliato l'effetto che l'attivazione (o inibizione a seconda del tipo di fotorecettore usato) di uno o pochi neuroni specifici ha su una data funzionalità.
Nota. La variazione di attività del neurone successiva alla illuminazione si basa sulla variazione del potenziale di membrana della cellula conseguente all'attivazione/repressione del fotorecettore. Il gene introdotto codifica in genere per una proteina con funzioni di canale ione-specifico, in grado di aprirsi/chiudersi una volta illuminato. L'apertura del canale permette il rapido transito di un certo numero di ioni sufficiente a depolarizzare (attivare) o iperpolarizzare (inibire) il neurone, inducendo così l'effetto sulla rete neurale a valle.
La procedura in sé è allo stato attuale delle tecnologie di "facile" implementazione con un enorme ritorno da un punto di vista informativo sulla conoscenza del funzionamento del cervello.
Per comprenderne la portata pensate alla quantità (e qualità) delle informazioni ottenibili avendo la possibilità di attivare uno o pochi neuroni tra i miliardi presenti associando poi l'effetto indotto da tale attivazione con anomalie neurologiche umane associate a malattia ad eziologia sconosciuta.

Raggio laser e sonno REM
Se associamo la potenza di questa tecnica allo studio del sonno, un argomento da sempre centro gravitazionale dell'interesse di molti neuroscienziati, arriviamo al tema dell'articolo odierno.

Nella nostra società il numero di persone che soffre di disturbi del sonno è tale che le ricadute socioeconomiche sono rilevanti e non un argomento di mero dibattito accademico. Un problema aggravato dalla sostanziale sottostima del problema sia per le abitudini di vita odierne che per la conoscenza superficiale dei meccanismi neurologici.
L'optogenetica ha permesso ai neuroscienziati dell'università di Berkeley di fare un passo in avanti nel comprendere i meccanismi del sonno trasformandoli in ... tecno-ipnotizzatori. Come?
I ricercatori sono riusciti a mettere a nanna un topo semplicemente usando un fascio di luce laser. O meglio non lo hanno fatto semplicemente addormentare ma hanno indotto la fase del sonno nota come REM.
Nota. REM, acronimo inglese per "rapidi movimenti oculari", è una fase intermittente del sonno la cui durata aumenta mano a mano che ci si avvicina al momento del risveglio. Circa l'80 % del nostro dormire avviene nella fase nota come non-REM caratterizzata da disconnessione sensoriale e bassa attività corticale. I neuroni in questa fase hanno attività intermittente (on/off) che si traduce in ampie onde lente facilmente registrabili con elettrodi posizionati sulla cute del cranio. E' noto che questa attività on/off interferisce con la trasmissione di informazioni tra diverse aree del cervello; da qui la sostanziale disconnessione con l'esterno e il non sognare.
Durante la fase REM, il cervello è invece "quasi sveglio", come evidenziato dall'attivazione della corteccia, sebbene anche qui sconnesso dal mondo circostante mediante una messa in sicurezza grazie alla paralisi totale dei muscoli scheletrici (per evitare di muoversi durante il sogno). In un precedente articolo si era già parlato di come la perdita di tale "messa in sicurezza" sia uno dei tratti predittivi di anomalie neurologiche in fieri (clicca --> "Disturbi del sono come predittori di malattie neurologiche"). Nella fase REM l'attività on/off dei neuroni è concentrata in alcune aree corticali chiave (sensoriali e motorie) e questo spiega perché si sogni pur rimanendo sconnessi e "paralizzati".
L'esperimento
Il punto di partenza è stato creare topi modificati che esprimessero l'interruttore optogenetico nei neuroni GABAergici situati nel midollo allungato, la parte più antica del cervello. Una volta "creato" il sensore è stato sufficiente illuminarlo con una fibra ottica ultra-sottile per indurne (a seconda dell'esperimento e del sensore montato) l'attivazione o la repressione del segnale.
L'attivazione mediata dalla luce induce il sonno REM
Credit: Franz Weberd
Dopo l'attivazione sono bastati pochi secondi per far piombare un topo già addormentato direttamente nella fase REM. La conferma inequivocabile di avere identificato esattamente i neuroni "interruttore" la si è avuta eliminandoli: il sonno REM non compariva più nemmeno durante il sonno naturale.
Particolarmente interessante il fatto che non era solo la capacità di sognare ad essere persa durante il sonno ma anche la paralisi muscolare e l'attività corticale. Per il resto il topo era normale.
Curiosamente se questo interruttore veniva attivato durante la fase di veglia, ad essere stimolato era il senso di fame nel topo; una possibile spiegazione è che tali neuroni siano importanti in attività "piacevoli" come la toelettatura e il mangiare e che essi agiscano in opposizione ad altre cellule di tipo noradrenergiche.

Questi neuroni rappresentano una piccola rete nei circa 70 milioni di neuroni che compongono il cervello di un topo (Suzana Herculano-Houzel et al, PNAS, 2006) e i circa 20 miliardi nell'Homo sapiens (Steven M. Platek et al, 2009), ma sufficienti per prendere la decisione di indirizzare la regolare la comparsa del sonno REM.

E' certo che le informazioni ricavabili da questi studi permetteranno di capire più in dettaglio le problematiche legate al sonno negli esseri umani, identificando dove possibile le cellule su cui agire in modo selettivo con nuove terapie mirate.



Fonte
- Control of REM sleep by ventral medulla GABAergic neurons.
Franz Weber et al, Nature (2015) 526, pp. 435–438
- Researchers find neural switch that turns dreams on and off
UC Berkeley/news


Farfalle e inquinamento. Identificato il gene responsabile della variante cromatica adatta ai luoghi pieni di fuliggine

Spesso i toponimi geografici derivano da peculiarità ambientali e lo stesso dicasi per come i nomi dei luoghi si sedimentano nel linguaggio comune al di là dei nomi ufficiali. 
Non è infatti un caso se la regione delle Midlands inglesi a nord di Birmingham fosse conosciuta alla fine del XIX secolo come il Black Country. In una epoca in cui Dickens raccontava il degrado delle città immerse in una perenne fuliggine, una guida ferroviaria del 1851 così descriveva all'allora viaggiatore la regione attraverso cui il treno transitava
"Il piacevole verde dei pascoli è qui quasi sconosciuto e i corsi d'acqua, dove i pesci sono una casualità, sono neri e malsani. La piattezza naturale dell'area è spesso interrotta da alte colline di cenere riversata dalle vicine miniere. I pochi alberi sono rachitici e dispersi [nell'area]. Non ci sono molti uccelli da osservare ad eccezione di sparuti passeri dall'aspetto affumicato. Per miglia e miglia un alone grigio si dilata da forni che fumano perenni, da motori a vapore che sibilano e stridono e dal sibilare di lunghe catene, intervallato solo dallo scalpiccio dei cavalli".
Sicuramente non un incentivo a fermarsi o a visitare l'area anche per il più avventuroso tra gli inglesi che pure avevano "nel sangue" lo spirito di esplorazione.

(image @Ilik Saccheri)
Eppure in questo ambiente malsano e ben poco invitante, la natura stava mostrando la sua capacità di adattarsi; un "esperimento" che non sarebbe sfuggito ai naturalisti dell'epoca che osservarono la comparsa di una variante nero-cenere di farfalla a partire dal ceppo originario chiaro. Non una mutazione indotta dall'ambiente ma una variante (sempre esistita) della farfalla che però in tempi pre-industriali era rara in quanto sfavorita; il colorito scuro (sul fondo chiaro) l'avrebbe resa facile preda degli uccelli. 

In un ambiente in cui tutto era ricoperto dalla fuliggine, il colore bianco trasformava un animale in un bersaglio e il colore scuro diveniva invece la miglior arma di sopravvivenza. Ed è così che per una pura e semplice selezione del "più adatto", la variante rara descritta a Manchester nel 1848 divenne mezzo secolo dopo la sola (o quasi) farfalla presente nell'area.
Un processo che si è ripetuto all'inverso un secolo dopo in seguito al miglioramento delle condizioni ambientali. Negli ultimi decenni la farfalla bianca è tornata ad essere la forma con migliore fitness.
La farfalla in questione è la Biston betularia ed è da anni il paradigma di come anche in tempi brevi l'ambiente possa favorire un dato fenotipo rispetto ad un altro. 
Mancava tuttavia un tassello per la completa descrizione del fenomeno, cioè l'identificazione del gene responsabile del mimetismo ambientale; l'unica certezza era che la variante dovesse essere a carico di una proteina simile alla melanina (responsabile della pigmentazione della cute). Gli studi genetici condotti negli ultimi anni hanno permesso prima di restringere l'area nel genoma a circa 400 mila nucleotidi in cui erano presenti 13 geni; nessuno di questi tuttavia aveva un qualche ruolo (prevedibile) nella pigmentazione.
Imperterriti i ricercatori hanno continuato la caccia al gene, coronata da successo nel 2016 con l'identificazione di un gene battezzato cortex, ortologo ad un noto gene del moscerino della frutta (Drosophila melanogaster), coinvolto nella regolazione del ciclo cellulare. Dato ancora più interessante, almeno per noi genetisti, è l'origine della variante, riconducibile all'inserimento di uno dei tanti elementi trasponibili (trasposoni) presenti nel nostro genoma, nel primo introne del gene. Sebbene gli introni siano per definizione aree non codificanti la sequenza della proteina, il trasposone può, grazie a sequenze particolari, alterare quantitativamente la trascrizione del gene; risultato netto è che pur essendo la proteina "non mutata" viene prodotta a livelli maggiori del normale.
Problema risolto dunque?
In realtà no in quanto il gene cortex viene espresso nel lepidottero principalmente durante lo sviluppo embrionale e in particolare nelle aree che daranno origine alle ali, il che rende difficile trovare una correlazione tra la sua espressione e l'effetto cromatico prima descritto. 
Il dilemma è stato risolto grazie ai risultati ottenuti da altri ricercatori che lavoravano con lepidotteri del genere Heliconius, molto studiati da chi si occupa di mimetismo nelle farfalle. In questi insetti il gene cortex è il membro in rapida evoluzione di una famiglia di geni molto ben conservati (indice di un ruolo regolatorio chiave) nota come fizzy, la cui attività regola la dimensione delle scaglie delle ali delle farfalle.
Proprio la dimensione delle scaglie è la chiave per comprendere la variazione cromatica; in assenza di un vero e proprio cromoforo il diverso colore è causato da un effetto ottico. Il colore vivido delle farfalle è infatti conseguenza della diffrazione della luce sulle scaglie, a loro volta ricoperte da strut­ture nanometriche, dis­poste sec­ondo un ordine rego­lare (per approfondimenti --> QUI).
Nei moscerini l'effetto cromatico di questo gene non poteva essere visto in quanto privi di tali nanostrutture.

Una qualunque variazione che alteri dimensioni, densità e superficie delle scaglie ha un effetto sulla colorazione "vista" ed è questo il legame mancante tra il gene cortex e il cambiamento cromatico della betularia.


Fonte
- The gene cortex controls mimicry and crypsis in butterflies and moths
 Nicola J. Nadeau et al, (2016) Nature, 534, pp. 106–110

- The industrial melanism mutation in British peppered moths is a transposable element
Arjen E. van’t Hof et al(2016) Nature, 534, pp. 102–105



Abbiamo la vista agli infrarossi e non lo sappiamo?

E' indubbio che noi umani siamo, a differenza di Superman, alquanto limitati essendo privi della vista a raggi X.
Tuttavia si è recentemente scoperto che possediamo senza saperlo, una sorta di visione agli infrarossi, che invece manca al supereroe.
Ovviamente nulla di paragonabile alla visione possibile con i visori notturni, siano essi termocamere o strumenti in grado di captare la radiazione infrarossa residua (capacità tipica di molti animali notturni).

Più modestamente si tratta invece di una visione indiretta dovuta alla simultanea interazione di coppie di fotoni "infrarossi" con la stessa proteina presente nei fotorecettori delle cellule della retina. Se l'energia complessiva trasmessa supera la soglia di attivazione, allora inizierà la catena di eventi culminante con i segnale elettrico attraverso il nervo ottico.
La scoperta viene da test condotti con la luce laser, che mostravano come soggetti esposti ad una luce invisibile ai nostri occhi (l'infrarosso) dichiaravano non solo di avere percepito una luce, ma cosa ancora più il colore percepito variava tra un test e l'altro. Il che è doppiamente strano in quanto prima di tutto non ci dovrebbe essere alcun colore percepito essendo l'infrarosso al di fuori dello spettro cromatico (il visibile e infine la percezione variabile è difficile da spiegare (ad esempio se io osservo un giallo all'interno dello stesso contesto questo mi apparirà giallo adesso, tra cinque minuti o tra un anno).
Prima di proseguire nell'analisi del fenomeno facciamo un ripasso veloce della percezione dei colori.
Il concetto standard di luce visibile usa come assunto implicito, lo spettro "percepito" da un occhio (e cervello) "sani".  Percezione, appunto, di colori (che in quanto tali non esistono) la cui "attribuzione" è conseguenza in primis della integrità dei sensori e a cascata dei circuiti neurali di elaborazione: mentre il deficit cromatico nei daltonici è in genere parziale (entità e caratteristiche dipendono da quale tra i 58 geni coinvolti è mutato), nelle persone affette da acromatopsia il deficit cromatico è totale (vedono in "bianco e nero").
Nota. Una buona lettura a riguardo è "L'isola dei senza colore" del compianto Oliver Sacks.
Questo è quanto il nostro occhio è attrezzato per vedere (© wikipedia) Se volete avere maggiori dettagli sulla fisiologia base della visione, questo pdf fa per voi
La distribuzione sull'epitelio retinico delle cellule note come bastoncelli (rod, necessari per condizioni di scarsa luminosità) e coni (cone, tre tipi diversi - L, M, S - responsabili della percezione del colore) non è uniforme. I coni sono concentrati nell'area della macula/fovea, dove peraltro sono assenti i bastoncelli. I bastoncelli sono invece preponderanti nelle zone esterne alla fovea, il che vuol dire sulla quasi totalità dell'epitelio retinico. Gli animali notturni sono dotati di un numero molto maggiore di bastoncelli e pochi coni. Il motivo per cui i primati (quindi anche noi) vediamo "a colori " su base tricromatica è una conseguenza della pressione selettiva sugli animali la cui dieta era principalmente basata sulla frutta; la gamma cromatica resa possibile dai tre tipi di coni consentì ai proto-primati di distinguere i frutti maturi da quelli acerbi. Non stupirà quindi scoprire che la stessa pressione selettiva ha fatto si che alcuni tipi di uccelli possiedano 4 tipi di coni, il che fornisce loro una gamma cromatica ben superiore alla nostra.
La ricchezza visiva della realtà da noi percepita (colori, sfumature, profondità e dettagli) deriva dalla cattura prima e dalla elaborazione cerebrale poi di una banda molto limitata dello spettro elettromagnetico. Lo spettro del "visibile" comprende solo 300 nanometri di banda (dai 400 nanometri - blu - ai 720 nanometri - rosso), lasciando fuori non solo ultravioletti e infrarossi ma anche onde radio e sul lato opposto, le onde ad alta energia. Il mondo che vediamo è un riflesso di come i fotoni "visibili" (dotati di lunghezza d'onda del visibile) interagiscono con la materia, della capacità del nostro occhio di intercettare i fotoni riflessi e, ovviamente, della elaborazione fatta dal nostro cervello. 
A proposito degli "scherzi" legati alla percezione vi rimando a --> "C'è chi vede Gesù in un toast".
Se in qualche modo ci fosse data la possibilità di vedere "altro" oltre alla radiazione visibile, il mondo circostante ci apparirebbe ben al di là dell'immaginario più spinto. Pensate alla possibilità di vedere un telefonino non solo attraverso la luce visibile ma mediante le onde a 2,4 GHz, che da questo entrano ed escono.
Se siete curiosi di scoprire come vedono gli altri animali e la teoria alla base dei visori notturni, questi due siti fanno per voi ---> "Visione in animali" e "Visore a infrarossi".

Fatta questo ripasso teorico possiamo tornare ai test condotti dai ricercatori americani. Gli esperimenti con la luce laser (luce coerente e monocromatica) evidenziarono un fatto inatteso, cioè che le persone non solo vedevano luce "invisibile" (superiore a 1000 nm) ma che questa veniva percepita diversamente (come bianco, verde o altri colori) sia da individui diversi che dopo la ripetizione del test sullo stesso soggetto.
Nota. Gli esperimenti sono stati fatti solo con luce di lunghezze d'onda maggiore dello spettro del visibile per ovvi motivi legati alla dannosità dei fotoni più energetici (vedi in proposito l'effetto dei raggi ultravioletti).
Il primo a sottoporsi al test fu Krzysztof Palczewski, uno dei ricercatori della Case Western Reserve University di Cleveland, che oltre a quanto sopra detto si accorse che mentre riusciva a percepire una luce quando usava il laser a 1050 nm, non percepiva più nulla quando il laser era tarato per lunghezze d'onda tra l'infrarosso vicino e i 1050 nm del test.
Un risultato riassumibile nel fatto che l'infrarosso era visibile ... purché non troppo vicino allo spettro del visibile.

Il dato fu confermato mediante test condotti su 30 volontari sani, le cui retine vennero illuminate con un fascio di luce a bassa energia e a varia lunghezza d'onda partendo dagli infrarossi.
Due le ipotesi "in gara" che Palczewski decise di testare:
  • nella prima si ipotizzò che quando la luce con lunghezza d'onda maggiore rispetto al visibile colpisce il collagene nel tessuto connettivo nell'occhio, una piccola quantità di questa energia produceva fotoni di lunghezza d'onda pari a circa la metà della luce incidente (fenomeno noto come second-harmonic generation - SHG). Questo spiegherebbe come mai la retina sia in grado di percepire un infrarosso con specifica lunghezza d'onda e perché il colore percepito non sia univoco. Una sorta di inganno della retina che fa credere al cervello di avere visto una luce quando in realtà questa è secondaria e nasce al suo interno.
  • L'altra ipotesi era che la visione all'infrarosso fosse il risultato di un fenomeno noto come isomerizzazione a due fotoni. Per farla semplice, i fotorecettori posti su apposite cellule della retina sono in grado di catturare l'energia associata a fotoni con particolare lunghezza d'onda. Una volta assorbita, i fotorecettori cambiano forma e si innesca una serie di eventi che culminano nella generazione di un segnale elettrico nel nervo ottico. L'elaborazione e la "comprensione" del segnale avviene successivamente quando il segnale arriva in specifiche aree cerebrali (non di interesse per il fenomeno qui descritto).
    I fotoni "infrarosso" hanno di loro troppo poca energia (per la fisiologia dell'occhio umano) per attivare un segnale. Tuttavia, teoricamente, se due fotoni ciascuno dotato della metà dell'energia necessaria (quindi con lunghezza d'onda doppia) colpissero lo stesso fotorecettore insieme, la somma della loro insufficiente energia potrebbe essere tale da innescare la isomerizzazione del recettore come farebbe un singolo fotone "visibile".
La prima ipotesi venne testata rimuovendo il collagene dalla retina di un topo, e testando la loro risposta a luce visibile e infrarossa. Dato che i topi continuavano a vedere oltre la luce normale (e questo era atteso) anche la luce infrarossa a 1000 nm, ne derivò che la prima ipotesi poteva essere eliminata. A supporto di questa esclusione, il dato che i cristalli della rodopsina (il fotorecettore) se illuminati con infrarosso cambiano colore (in modo variabile) a indicare parziale assorbimento della luce. Quindi la SHG non è alla base della visione degli infrarossi.

Riguardo alla seconda ipotesi, mancano veri dati sperimentali e ci si deve al momento basare su una logica ad esclusione e alle simulazioni fatte al computer. Le elaborazioni indicano non solo che la rodopsina può in effetti assorbire due fotoni a bassa energia ed esserne eccitata ma che il picco di tale eccitazione nell'infrarosso lo si ottiene usando lunghezze d'onda tra 1000 e 1100 nm, un dato che spiega perfettamente perché l'infrarosso tra 800 e 1000 nm fosse solo debolmente percepito nei test.
La spiegazione è ancora indiziaria e, a onor del vero, alcuni ricercatori non sono totalmente convinti che l'ipotesi SHG debba essere scartata almeno fino a che si otterranno risposte da retine di primati, che come si sa hanno un campo visivo diverso da quello dei roditori.
Nei serpenti (ad esempio i viperidi) la visione ad infrarossi, o meglio la eccellente capacità di vedere al buio animali a sangue caldo, è legata al connubio tra alta densità bastoncellare nell'occhio e le fossette termosensoriali (pit organs) poste tra narice e occhi dotate di membrane termosensibili. Il meccanismo è quindi ben diverso da quello sopra descritto.

(Articoli precedente sul tema --> "visione")

Fonte
- Human infrared vision is triggered by two-photon chromophore isomerization
Palczewska, K. et al. Proc. Natl. Acad. Sci. USA,


Un microscopio senza lenti come alternativa low cost per test veloci

Scienza, smartphone e portabilità. Nuovi strumenti e software innovativi per migliorare la qualità delle immagini
Una immagine tissutale ottenuta con il microscopio senza lenti (credit e immagine: Aydogan Ozcan / UCLA)
Aydogan Ozcan dirige uno dei laboratori alla UCLA da cui ogni tanto escono chicche tecnologiche di pronto utilizzo in varie aree della scienza applicata. Sia che si tratti di "appendici" fisiche o software, i prodotti qui sviluppati si dimostrano capaci di trasformare un semplice smartphone in uno rilevatore capace di individuare la presenza di allergeni nei cibi o di contaminanti (ad esempio batteri e metalli pesanti) nelle acque.

Tra gli ultimi prodotti realizzati vi è un dispositivo in grado di funzionare da microscopio con una risoluzione sufficiente per una analisi rapida di sezioni istologiche; strumento questo particolarmente utile quando il fine sia una rapida valutazione di anomalie tissutali come ad esempio le neoplasie.
La particolarità dello strumento? Non ha lenti.
Un "dettaglio" che lo rende de facto una alternativa low cost rispetto a strumenti da laboratorio il cui costo oscilla intorno al migliaio di euro. Chiariamo subito che non si tratta di un sostituto ma di una alternativa a basso costo quando il fine sia una analisi rapida implementabile in situazioni dove il microscopio professionale non sia disponibile.

Il dispositivo funziona utilizzando la luce, emessa da un laser o da un diodo, diretta su vetrino su cui è posta la classica sezione di tessuto (o striscio di sangue). Grazie ad una serie di sensori posti su un chip (dello stesso tipo di quelli presenti in uno smartphone) è possibile registrare le ombre che la luce incidente produce sul campione. I dati raccolti vengono poi rielaborati dal chip e riprodotti come una serie di ologrammi, in pratica immagini 3-D del campione, con il pregio (oltre alla tridimensionalità) di avere un elevato contrasto grazie ad un algoritmo dedicato al colore.
Maggiore contrasto uguale maggiore facilità di identificare anomalie strutturali a cui si associa, cosa non secondaria, la possibilità di avere immagini di grandi dimensioni.

La prova sul campo è stata fatta in cieco da patologi esperti che hanno effettuato diagnosi su strisce simili a quelle usate nel Pap test contenenti campioni di varia natura come tessuti cancerosi e campioni ematici presi da soggetti affetti da anemia falciforme. L'accuratezza diagnostica è stata del 99 per cento.
Non un sostituto quindi di strumenti sofisticati e dimensionalmente cospicui ma un valido (e molto più economico) sostituto per analisi rapide.

I dati sono stati pubblicati su Science Translational Medicine.

***

Rimaniamo nel laboratorio di Ozcan per parlare dello sviluppo di un altro progetto, centrato su come migliorare la qualità delle immagini ottenute al microscopio ottico.
credit: Ozcan Lab / UCLA
La nuova tecnica, chiamata wavelength scanning pixel super-resolution, si basa sulla scansione di un dato campione con luce a diversa lunghezza d'onda. Le immagini "monocromatiche" così ottenute vengono analizzate attraverso un algoritmo dedicato che divide i pixel di ciascuna immagine in pixel più piccoli, con conseguente aumento della risoluzione dell'immagine.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Light: Science and Applications, contiene l'analisi comparativa fatta usando microscopi convenzionali a lenti e senza lenti on-chip come quelli sopra descritti.
Il miglioramento della qualità dell'immagine dopo l'utilizzo dell'algoritmo (credit: Ozcan Lab / UCLA)

 I vantaggi sono molteplici e non solo in campo clinico. In questo ambito l'esempio migliore è la rapida valutazione di un gran numero di immagini direttamente in sala operatoria.

Per approfondimenti sul tema rimando alla esaustiva pagina sul sul sito della UCLA dove ognuno degli articoli pubblicati dal team è accompagnato da immagini riassuntive --> http://innovate.ee.ucla.edu/refereed-journal-publications.html

Fonti
- Laboratorio di Aydogan Ozcan
- Wide-field Computational Imaging of Pathology Slides using Lensfree On-Chip Microscopy 
   Science Translational Medicine (2014) --> PDF
-  Pixel super-resolution using wavelength scanning
   Wei Luo et al, Light: Science & Applications (2016) --> PDF


 Per chi volesse approfondire l'argomento microscopia con un testo completo

Ulteriori info --> Amazon


Un trapianto difficile reso possibile da "Guerre Stellari" (e da un ospedale coraggioso)

Una ragazza texana di 24 anni ha ricevuto il trapianto salva-vita grazie al coraggio dell'ospedale universitario della UCLA e alla mobilitazione di attori e fans di "Guerre Stellari".

Il tutto nasce quando le condizioni di salute di Kathlyn Chassey, affetta da fibrosi cistica e fan di lunga data della saga cinematografica, peggiorano sensibilmente rendendo necessaria l'intubazione e in prospettiva il trapianto dei polmoni come unica soluzione.
La fibrosi cistica è una malattia genetica causata dalla mutazione del gene CFTR codificante per la proteina che funziona da canale di membrana dello ione cloruro. Tra le funzioni associate al canale vi è la regolazione del trasporto di fluidi nelle mucose, fondamentale per  mantenere, tra le altre cose, una densità dinamica del muco, la prima barriera a difesa da agenti esterni. Il "corto circuito" funzionale causato dalle mutazioni provoca un drastico calo dei liquidi "movimentati" con il conseguente aumento della densità del muco superficiale; il muco nelle vie respiratorie svolge un ruolo chiave per catturare i microorganismi che vengono poi "trasportati" grazie al movimento ciliare nei tratti superiori dell'apparato respiratorio e quindi espulsi. Se il muco diventa troppo denso, non solo il trasporto è ridotto (con conseguente proliferazione dei batteri) ma anche la funzionalità respiratoria (basata sulla diffusione del gas tra cavità alveolare e cellule) viene fortemente compromessa. Sebbene abbia citato solo l'apparato respiratorio, la patologia si manifesta anche in altri organi.
La fibrosi cistica è una malattia genetica autosomica recessiva, per cui entrambe le copie del gene nell'individuo devono essere mutate perché si manifesti. Nella maggior parte dei casi la mutazione è ereditata da entrambi genitori (portatori sani, avendo una copia del gene normale, ma con rischio di generare figli malati pari a 1 su 4), e una minoranza in cui uno solo dei genitori è portatore con l'altra mutazione di tipo ex-novo. Tra le curiosità evolutive che spiegano la ragione della diffusione nella popolazione umana di un allele dannoso, quindi teoricamente contro-selezionato, vi è l'ipotesi che i soggetti eterozigoti siano più resistenti a patogeni come il colera (fenomeno simile alla resistenza conferita dall'allele talassemico per la malaria).
Ricoverata al Brooke Army Medical Center di San Antonio in Texas (suo padre è un sergente dell'aeronautica) il suo nome venne inserito nel database dei trapianti, in attesa non solo di un donatore compatibile ma che un ospedale sufficientemente attrezzato offrisse la disponibilità ad eseguire l'intervento. Purtroppo uno dopo l'altro gli ospedali si tirarono indietro a causa dell'estremo rischio dell'intervento che si sommava alla criticità dello stato di salute della paziente. Con il tempo a disposizione che si assottigliava, la famiglia iniziò una capillare campagna sui social per cercare al di fuori del Texas (che pur vanta centri di assoluta eccellenza) un ospedale disposto ad eseguire l'intervento.

Come detto in apertura la ragazza è una fan della saga di Guerre Stellari, solita partecipare alle varie convention tematiche da quando aveva 7 anni (--> vedi fenomeno fandom) e fu proprio in una di queste occasioni che conobbe Peter Mayhew, l'attore che interpreta Chewbacca.
Peter Mayhew alias Chewbacca ci ha lasciato nel 2019 
Il suo appello sui social, amplificato a cascata dai fan e da altri attori, giunse infine alle orecchie di un team della UCLA che, dopo avere consultato i medici della ragazza, accettò il rischio di un intervento che nessuna assicurazione avrebbe coperto. 
A. Ardehali (UCLA)
Una scelta dipesa da fattori come "...la sua giovinezza, la sua determinazione e il fatto che abbiamo le risorse e l'esperienza presso la UCLA di offrire questa terapia salva-vita, abbiamo pensato che fosse nostro obbligo e dovere, dare una possibilità e la disponibilità per il trapianto", per citare le parole del primario di chirurgia e direttore del programma di trapianti della UCLA.
Ottenuto il placet del medici, un C-130 della USAF portò Kathlyn da San Antonio a Los Angeles, un velivolo grande a sufficienza per accogliere le attrezzature mediche necessarie ed un team di 20 persone, tra medici, personale di volo e familiari.
Il trapianto è avvenuto il 16 dicembre e lo scorso 11 gennaio la ragazza è uscita scortata da alcuni dei suoi "eroi", sebbene oggi, come lei afferma, un nuovo (e reale) eroe è entrato a far parte del suo Pantheon: il chirurgo che ha accettato il rischio elevato di fallire avendo visto una ragionevole probabilità di successo.
Kathlyn esce dall'ospedale "scortata"dalla guardia imperiale
Aggiornamento 2019
A distanza di 2 anni la nostra Kathlyn è, se possibile, una fan ancora più sfegatata.
Credit: UCLA


Fonte
UCLA - news

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Mi sembra l'occasione giusta per ricordare il post con gli auguri di Natale di Chewbacca

Nei passeri il maschio che sospetta tradimenti ... taglia gli alimenti

Secondo quanto emerge da un articolo pubblicato sulla rivista The American Naturalist, i passeri maschi sono in grado di valutare se la partner è incline a "scappatelle" e nel caso reagire tagliando gli alimenti, vale a dire diminuendo le missioni alla ricerca di cibo per compagna e nidiacei.
I passeri dello studio
(Credit: A. Sanchez-Tojar)
Come molte specie di uccelli (il 92% per essere precisi), i passeri praticano la monogamia sessuale, che fornendo una esclusività nell’accoppiamento, in molti casi per tutta la durata della vita, ha il vantaggio di fornire la “certezza” della parentela e quindi di giustificare, evolutivamente, gli sforzi compiuti nella crescita dei nidiacei.
Tuttavia, come ben insegna la teoria dei giochi di John Nash, esiste sempre la possibilità che una delle controparti "imbrogli" in modo da ottenere il massimo vantaggio. In questo caso il vantaggio riproduttivo per la femmina che "imbroglia" è quello di aumentare la possibilità di scelta del miglior "genoma" in circolazione scegliendo maschi diversi (ma usandone sempre uno per fare crescere i piccoli), mentre per il maschio è quello di massimizzare la diffusione del proprio DNA pagando il prezzo minimo, quello di accudire una sola nidiata indipendentemente dal numero di "conquiste".
L'equilibrio si mantiene, come insegna Nash, fintanto che "il gioco non viene ripetuto" visto che "una volta scoperti, tutte le controparti iniziano ad imbrogliare al gioco e il vantaggio dei singoli giocatori diminuisce". 
Barare al gioco ha sempre un costo ma anche prendere contromisure drastiche come abbandonare il nido, in quanto verosimilmente solo una parte delle uova saranno "illegittime" e quindi tagliando gli alimenti si correrebbe il rischio di colpire la propria discendenza. In medium veritas dicevano gli antichi, ed è così che il maschio "dubbioso" reagisce, cioè diminuendo il proprio investimento di energie per una nidiata (forse) non sua.
Vale la pena sottolineare che questi comportamenti sono totalmente sensati da un punto di evolutivo e fortemente selezionati. Giusto per semplificare il concetto e omettendo i calcoli, qualunque maschio con forte "sentimento paterno", disinteressato alla provenienza della propria progenie genererebbe un numero di discendenti inferiore rispetto ai maschi "attenti" e questo nel giro di poche generazioni (meno di un battito di ciglia evolutivamente parlando) porterebbe alla scomparsa del genotipo "tollerante" (ricordo che il comportamento è dettato dalla genetica). D'altra parte il maschio "poco responsabile", totalmente disinteressato alla cura dei nidiacei abbasserebbe in primo luogo le probabilità di sopravvivenza della propria discendenza, quindi stesso discorso di cui sopra.
Si tratta, beninteso, di un equilibrio e come tale si oscilla attorno ad un comportamento che massimizza il vantaggio per entrambi. Tra le possibili variazioni al gioco vi è la formazione di coppie composte da una femmina "libertina" e da un maschio poco incline a sprecare energie con altre femmine.
L'articolo nasce da uno studio internazionale (anglo-tedesco-australiano) in cui i ricercatori hanno seguito per 12 anni l'intera popolazione dei passeri che vive nella bella isoletta di Lundy, sita nel canale di Bristol, tra Galles e Cornovaglia. In termini numerici parliamo di 200 maschi e 194 femmine a formare 313 coppie monogame, per un totale di 863 nidiate.
Lo studio ha mostrato chiaramente che i maschi variavano il loro comportamento a seconda del partner; quando per qualunque ragione c'era un cambio di partner, se la nuova partner si mostrava più incline al corteggiamento di altri maschi, la sua efficienza nel procacciare il cibo comune subiva un drastico calo. Un fenomeno simile si verifica nelle femmine dove la propensione "a barare" varia a seconda del grado di attenzione (e di rappresaglia alimentare) del partner.

La modifica del comportamento maschile, modulare invece che "tutto o nulla" (come avviene per altri uccelli in cui si ha l'abbandono del nido), ha senso in quanto i maschi non sono in grado di identificare se e quali i pulcini nel nido siano loro. Possono tuttavia "prendere una decisione operativa" basandosi sul comportamento della partner durante il periodo fertile, come ad esempio valutando il tempo che la femmina passa lontano dal nido comune.

Nonostante, o forse proprio grazie a questo equilibrio dinamico nel comportamento, il numero di "divorzi" nei passeri è quasi irrilevante, con la formazione di nuove coppie quasi sempre successiva alla morte di un membro della coppia.


Fonte
- Predictably Philandering Females Prompt Poor Paternal Provisioning
Julia Schroeder et al, The American Naturalist 188, no. 2 (August 2016): 219-230.

- Sparrows with unfaithful 'wives' care less for their young
Imperial College London / news



Il Google Map dell'evoluzione

Tutti conoscono Google Maps e la fantastica (per  chi come me è nato prima dell'era digitale e sognava sugli atlanti) possibilità di zoomare con risoluzione nell'ordine di pochi metri una qualsiasi area del pianeta.
Se questo strumento vi piace, allora pensate a qualcosa di simile ma in biologia evoluzionista, come uno strumento che permetta con il semplice rollio del mouse di partire da un dato phylum o ordine fino ad arrivare "alla fogliolina del ramo evolutivo" (la specie) così da visualizzare il grado di parentela tra diversi organismi.
Uno strumento utile non solo per il biologo ma per qualunque appassionato di scienze.
Rimango sempre basito quando parlo con qualcuno che si professa amante della tecnologia e della innovazione e che poi ignora in toto le nozioni base della evoluzione, un campo in cui c'è da "divertirsi" a ripercorrere il l'evoluzione di "forma"/"funzione" che caratterizza ogni tappa/ramificazione della evoluzione.

Dettaglio di OneZoom
Ecco allora OneZoom uno strumento sviluppato congiuntamente da ricercatori della UCL (University College of London) e della University of Idaho. Il sito è in divenire nel senso che continua a raccogliere i contributi dai ricercatori sparsi nel mondo, con l'obiettivo di giungere a coprire tutti e sette i regni in cui si divide la vita sul nostro pianeta. Regni che ricordo sono: Archea; Bacteria; Protista; Chromista; Fungi; Plantae; Animalia.

L'albero della vita con la scala temporale

Di seguito il video tutorial sull'utilizzo, in verità molto semplice, dello strumento.

(se non vedete il video cliccate QUI)

Se dopo avere visto la presentazione volete "giocare" un poco con lo strumento, questa è la pagina del sito --> qui.
Se invece avete già le idee chiare e volete scegliere un regno in particolare ecco alcune delle possibilità a disposizione (cliccate sul nome):
--> Batteri (Regno)
--> Tetrapodi (Superclasse)
--> Mammiferi      --> Uccelli        --> Anfibi (Classi)
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Molto utile per uno sguardo temporale ai passaggi chiave dell'evoluzione il seguente pannello a scorrimento orizzontale.
---> http://interactive-learning-objects.onlea.org/geologic-timescale/#/time-scale

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Altro albero evolutivo interattivo di elevata fattura è quello fornito dalla ONLEA. Tra le tante attività interattive presenti sul sito, l'albero filogenetico è una chicca data la facilità di navigazione (sempre basata su zoom e mouse) e, soprattutto, la presenza di tutti i rami estinti, ivi compreso l'ampio gruppo dei dinosauri.
--> Albero filogenetico generale
e se siete appassionati di dinosauri (quelli veri) ecco due esempi per seguirne l'evoluzione
--> dinosauri marini
--> gli uccelli come diretti eredi dei dinosauri

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Un altro lavoro, più specifico ma anche molto dettagliato e ambizioso, è quello che mappa il grado di parentela degli uccelli nella loro attuale diversificazione. Vengono qui considerati sia i dati genetici derivanti dalle sequenze genomiche disponibili che i dati di distribuzione geografica.
Un approccio chiaramente più tecnico (e per questo meno facilmente comprensibile dai non addetti ai lavori) ma di sicuro interessante.
Di seguito una delle immagini presentate nell'articolo tematico apparso su Nature

®Nature.com
Attinente al progetto di mappatura degli uccelli, da menzionare la ---> Map Of Life, una risorsa interattiva per l'analisi della biodiversità

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