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Stella zombie o la stella morta due volte ma ancora attiva

Il caso curioso che potrebbe modificare le nostre conoscenze del campo è quello di una stella che non solo ha originato una supernova anni dopo essere "morta" (cioè essere passata attraverso la fase distruttiva della supernova) ma che continua ancora ad emanare luce.

 ***

Che le stelle non siano eterne lo si sa da poche decine di anni, da quando l'accoppiata strumenti di rilevazione della volta celeste e la conoscenza della termodinamica delle reazioni di fusione nucleare ha permesso di capire (e predire) il ciclo "vitale" stellare.
Se per millenni esse sono apparse come immutabili fiaccole nel cielo, con il tempo si comprese che, a volte e in modo imprevedibile, qualcosa cambiava in tale omogeneità, come ad esempio un aumento improvviso della luminosità di un "punto", una variazione che poteva durare al più qualche mese. La più antica testimonianza in tal senso va ascritta ad astronomi (una "qualifica" che all'epoca indicava funzioni affatto diverse da  quelle degli astrologi) cinesi che nel 185 D.C. documentarono la comparsa di una "stella temporanea" rimasta visibile per 8 mesi.
Sappiamo oggi che si trattò della prima supernova osservata, sita oltre alfa-centauri ad una distanza di circa 9 mila anni luce.
Quello che rimane di SN 185, la prima supernova documentata
(credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA - WISE)
Nel corso degli anni si è imparato a distinguere e, cosa ancora più interessante, a predire il destino di una stella in base alla sua massa, che in soldoni vuol dire alla quantità di "combustibile" disponibile (idrogeno nella quasi totalità). Senza dilungarci troppo su argomenti di nucleosintesi stellare, ampiamente noti e di cui sono disponibili ottimi compendi divulgativi, potremmo riassumere il tutto con alcuni punti fermi:
  1. maggiore la dimensione iniziale della stella, più rapido (e catastrofico nel finale) sarà il suo "ciclo vitale".
  2. Fintanto che ci sarà idrogeno da "bruciare" (leggasi da usare come combustibile per le reazioni di fusione nucleare) la stella manterrà un aspetto sostanzialmente costante. L'energia liberata dalla fusione sarà sufficiente a sostenere la massa soprastante; tanto maggiore la massa da sostenere, tanto maggiore l'energia che dovrà essere emessa e tanto più veloce il consumo di idrogeno. 
  3. Le stelle massicce termineranno la loro vita sempre con un "grande botto", la supernova, dalle cui ceneri originerà un buco nero, una stella a neutroni o una nube di gas e detriti, a seconda della massa iniziale e di altre variabili come la presenza di stelle "gemelle" (tipico in un sistema binario).
  4. Una aspettativa di vita molto diversa invece quella delle nane brune (articolo precedente --> Nane brune), superiore a quella dell'attuale età dell'universo. 
  5. Le stelle di classe solare si trovano nel mezzo con una vita stimata di almeno 13 miliardi di anni, suddivisa però in diverse fasi, di cui la principale per durata è quella attuale (circa 8 miliardi, pur con variazioni di luminosità) a cui seguirà la fase di gigante rossa e infine una veloce transizione a nana bianca, una sorta di spegnimento inesorabile ma molto lento (per approfondimenti--> Life of the sun; --> Life cycle of the Sun) che potrebbe originare una nana nera (completamente spenta). Le stelle più piccole (intorno a 0,1 masse solari) passeranno invece attraverso la fase di nane rosse prima di divenire nane bianche. In quest'ultimo caso si tratta di inferenze basate su calcoli dato che stelle di queste dimensioni hanno una vita media superiore a quella dell'attuale universo, quindi nessuna nana bianca può essere "vissuta" tanto a lungo (anche se fosse nata poco dopo il Big Bang) da essersi "spenta".
Punto comune per tutte è che per "accendersi" una stella deve avere massa sufficiente da innescare (e mantenere) le reazioni di fusione nucleare. I calcoli teorici indicano tale massa minima in almeno 0,07 masse solari ed è in effetti in questo ambito che troviamo J0523, la più piccola tra le stelle propriamente dette. Al di sotto abbiamo le nane brune e ancora sotto pianeti di composizione quasi stellare come Giove.
Non si deve confondere una nana bruna con la sopra menzionata (e teorica) nana nera. La prima è una stella mancata (per massa insufficiente ad accenderla), la seconda è la probabile fine ultima di una stella che si è spenta dopo avere consumato tutto il carburante ma la cui massa è insufficiente perché il collasso gravitazionale la "trasformi" in  altro.
In questo quadro ben delineato, pur con tutte le varianti del caso, ecco ora irrompere un fenomeno completamente inatteso, cioè l'osservazione di una stella che da luogo a due supernova distinte a 60 anni di distanza. Qualcosa che potremmo definire "supernova recidiva" se non fosse che tale evento è (in base alle conoscenze attuali) un controsenso dato che dopo l'esplosione di una supernova rimane un buco nero, una stella di neutroni (se la massa di partenza è insufficiente) oppure nel caso di supernova di tipo Ia (tipicamente stelle binarie, una delle quali nana bianca), nulla se non enormi "residui" di gas.  
Tutto faceva quindi prevedere che una supernova fosse un evento definitivo. La scoperta di una stella "morta ma non-morta" (capace di riesplodere) spiega quindi il neologismo di "stella zombie".

Tutto nasce nel settembre 2014 quando gli astronomi dell'Osservatorio Las Cumbres in California osservarono la supernova iPTF14hls, catalogandola come evento "classico". Durante le analisi routinarie della materia ed energia espulse, scoprirono però che c'era qualcosa di strano. In genere, una supernova rimane luminosa per 100 giorni emettendo energie equivalenti (in media) a quella di 100 milioni di soli; questa invece continuò ad alternare aumenti e cali di luminosità per i successivi 600 giorni.
La luminosità persistente di iPTF14hls vs quella di una classica supernova
(Credit: Las Cumbres Obs. via sciencealert.com)
La spiegazione più ovvia era che vi fosse una stella nelle vicinanze responsabile di questa emissione inattesa di energia; lo studio dello spettro dimostrò invece che si trattava proprio di una supernova localizzata a 500 milioni di anni luce da noi. Stabilita la fonte di energia rimaneva da capire perché dal momento della prima osservazione avesse attraversato 5 cicli di luminosità. Ma le sorprese non erano finite. Quando gli astronomi consultarono i dati in archivio scoprirono che la stessa stella era già esplosa come supernova nel lontano 1954; in assenza di altri candidati nelle immediate vicinanze (come avviene in un sistema binario) l'unica spiegazione fu che, in qualche modo, la stella era sopravvissuta alla fase di supernova, per poi esplodere di nuovo a 60 anni di distanza e, cosa ancora più stupefacente, continuare a "vivere".
Nulla lasciava presagire una nuova supernova. In base all'energia emessa la stella originaria doveva avere una massa pari a circa 50 volte quella solare; ad oggi questa è la supernova più lunga e potente osservata.
(credit: Palomar Observatory Sky Survey via researchgate.net / ®Poss/Dss/Lco/S. ​Wilkinson

I dati vanno oltre la mera curiosità in quanto mettono in dubbio la validità "universale" del modello di supernova finora accettato.
Una prima ipotesi per spiegare il fenomeno si rifà alla teoria della "pulsational pair instability supernova" per la quale il nucleo di una stella massiccia può raggiungere temperature così elevate da permette la conversione di energia in materia e antimateria (processo inverso a quello classicamente studiato). Quando ciò accade, la stella diventa instabile e può parzialmente esplodere, spazzando via le sue parti esterne, ma lasciando intatto il nucleo. La stella quindi si stabilizza per un certo periodo di tempo finché la temperatura raggiunge valori simili; il processo si ripete quindi più volte ogni decina di anni, almeno finché la massa è sufficiente a garantire il raggiungimento delle temperature critiche finché raggiungerà una fase in cui l'esplosione sarà definitiva.
Questo in teoria dato che ad oggi eventi simili non sono mai stati osservati.
Ci sono tuttavia un paio di elementi della teoria che non si accordano perfettamente con ciò che gli astronomi hanno visto su iPTF14hls. In primis, eventi del genere sono stati ipotizzati come possibili solo nell'universo primordiale quando esistevano stelle supermassicce oggi scomparse (proprio perché a vita "breve); una stella posta a "solo" 500 milioni di anni luce da noi non può ovviamente provenire da distanze temporali adeguate. Uno degli autori ha usato come termine di paragone "se trovassimo oggi un dinosauro ancora vivo, la prima domanda che uno si porrebbe è se è veramente un dinosauro".
Altri due punti critici sono che l'energia liberata dall'ultima supernova è maggiore di quella che la teoria ipotizza e il fatto che gran parte dell'idrogeno avrebbe dovuto essersi perso con l'esplosione del 1954, mentre questo risulta presente in notevoli quantità anche dopo l'esplosione del 2014.
Se i dati non sono in accordo con la teoria della "Supernova a instabilità di coppia", allora si tratta di qualcosa di completamente nuovo.
Ad oggi la supernova è ancora in fase di studio e con l'affievolirsi della luce e l'espansione del gas (quindi maggiore trasparenza) gli astronomi sperano di riuscire a catturare informazioni sulla massa e su come possa essersi sviluppata (e mantenuta) energia così a lungo.
Lo studio, pubblicato su Nature, è stato possibile grazie alla disponibilità sia di telescopi robotici nell'osservatorio che della  SED Machine, una macchina progettata come una "semplice" fotocamera che inquadra e scatta ogni volta che un nuovo oggetto appare sul cielo, fornendo informazioni spettrali in pochi minuti.
La disponibilità di questi strumenti è verosimilmente la ragione per cui solo ora è stato possibile catalogare la nuova classe di stelle zombie.

Aggiornamento Supernova o stella massiccia ipervariabile?
IPTF14hls may be a variable hyper-wind from a very massive star, study suggests 

Fonti
- Energetic eruptions leading to a peculiar hydrogen-rich explosion of a massive star
Iair Arcavi et al, Nature 551, 210–213 (09 November 2017)


Come pesare una cellula su una asticella

Ad oggi per stimare il peso di una singola cellula bisognava metterla in sospensione, sottraendo dal peso complessivo quello del liquido. Una procedura poco naturale dato che la stragrande parte delle cellule vive in adesione con altre cellule e le variazioni associate al cambio di stato inducono sia alterazioni funzionali che, cosa più importante nel caso in esame, variazioni del volume e quindi del peso. Un dettaglio non da poco quando lo scopo è misurare in dettaglio la variazione di alcuni parametri cellulari come quelli successivi ad infezioni o a disfunzioni metaboliche.

Una soluzione al problema viene dai ricercatori del University College London che hanno sviluppato una mini asta su cui poggiare le singole cellule per "pesarle". Lo studio, coordinato da Daniel J. Müller, è stato pubblicato poche settimane fa sulla prestigiosa rivista Nature.
La cellula su una mini asticella (credit: Martínez-Martín / Nature)
Il vantaggio di questa tecnica è nella sua potenzialità di rilevare cambiamenti di massa dell'ordine dei picogrammi (vale a dire "0" seguito dopo la virgola da altri 11 zeri, grammi) su cellule isolate e in tempi brevissimi (millisecondi). Il che ha anche l'indubbio doppio pregio di minimizzare lo stress cellulare e di aumentare la sensibilità della misurazione.
Semplificando al massimo il funzionamento del rilevatore, la massa della cellula modifica la risonanza della astina (cantilever in inglese) misurata usando un laser.

Come anticipato, i risultati ottenuti vanno al di là della mera quantificazione della massa cellulare. Le misurazioni effettuate sulle cellule campione hanno permesso di evidenziare l'esistenza di microfluttuazioni continue e regolari nella massa, riconducibili a eventi come l'assorbimento/espulsione di acqua, la produzione di energia (catabolismo o utilizzo di massa per generare "energia") e l'utilizzo dei singoli "mattoni" biologici (aminoacidi, zuccheri, nucleotidi, lipidi) per generare massa (anabolismo). 
Poiché la tecnica permette un monitoraggio in continuo, è stato possibile misurare le microfluttuazioni lungo il corso delle molte ore necessarie per il completamento di più cicli cellulari e persino durante la crescita dei tessuti; informazioni fondamentali per l'analisi della deregolazione di questi processi, tipica di cancro e delle patologie che si riflettono nella viarazione della massa cellulare (e a cascata, tissutale).

Particolarmente interessante il risultato ottenuto misurando le variazioni di massa successive all'infezione con il vaccinia virus.
Il vaccinia virus appartiene ai gruppo dei poxvirus ed è stata l'arma chiave nella campagna per la vaccinazione contro il vaiolo, malattia eradicata ufficialmente nel 1980. 
Le misurazioni hanno mostrato che mentre le cellule non infette continuavano a crescere e ad aumentare di massa, quelle infettate smettevano di crescere in quanto tutte le risorse metaboliche venivano dirottate dal virus per la replicazione del proprio DNA e sintesi proteica.

Lo studio è un esempio dei risultati ottenibili con la collaborazione interdisciplinare tra ricercatori provenienti da ambiti diversi come fisica, biologia e ingegneria dei materiali

Fonte
- Inertial picobalance reveals fast mass fluctuations in mammalian cells
 David Martínez-Martín et al, (2017) Nature 550, pp500–50



Il blob che impara

Il "blob" può imparare e perfino insegnare
Physarum polycephalum (image credit: Audrey Dussutour
Il Physarum polycephalum è un protista, una muffa unicellulare (leggasi mixomiceto) da alcuni detta anche melma policefala, il che converrete non è un nome accattivante. Molto meglio l'evocativo, e ben poco scientifico, nome cinematografico "blob" anche se a differenza di quest'ultimo, è un organismo completamente terrestre, bruttino certamente da vedersi con il suo colore giallo-melmoso ma almeno dotato di abitudini alimentari meno pericolose (per noi) basato su spore fungine, batteri e altri microbi.

Questi funghi mucillaginosi sono classificati tra i protisti a causa della loro somiglianza con le amebe. 
Nota. I protisti sono un gruppo polifiletico di organismi, che comprende tutti gli eucarioti non classificabili come animali, piante o funghi.
Nonostante la loro natura unicellulare, possono raggiungere dimensioni ragguardevoli (nel senso di visibili ad occhio nudo) grazie ad un "trucchetto cooperativo". Quando le riserve alimentari a loro disposizione si riducono, i mixomiceti si aggregano in un'unica massa citoplasmatica (plasmodio) eliminando le membrane cellulari divisorie. Ne consegue che la cellula risultante è di fatto una cellula "di fusione" che può arrivare a contenere più di 100 mila nuclei.
La loro dimensione e facilità di crescita in una piastra di Petri li ha resi quasi subito tra i migliori soggetti di studio da laboratorio. Con risultati sorprendenti per un organismo "senza cervello" (nel senso più generico del termine essendo "solo" cellule, quindi prive di ogni differenziazione tissutale) come evidenziato dalla loro capacità di imparare dall'esperienza.
In un recente articolo pubblicato sulla rivista "Proceedings of the Royal Society B", i biologi del Centro di Ricerca sulle Capacità Cognitive dell'università di Tolosa, hanno ampliato quanto precedentemente scoperto sulla capacità di apprendimento del "blob", con l'osservazione che questi organismi sono in grado di trasmettere ai consimili l'informazione appresa dopo la fusione cellulare. 

Il disegno sperimentale è concettualmente semplice e può essere suddiviso in due fasi. Nella prima parte i ricercatori "addestrano" i blob a superare un ostacolo che si frappone tra loro e il cibo; ostacolo costituito da un ponte ricoperto di sostanze innocue ma per loro repellenti come sale, chinino o caffè. Nel giro di alcuni giorni il protista prima in modo cauto e poi senza indugi, passa sopra l'ostacolo per dirigersi verso il cibo.
Nella seconda parte dell'esperimento, si ripete il test dividendo i protisti in tre gruppi: "addestrati" (leggasi, quelli che avevano superato il test); non addestrati; misti.
Nota. I "misti" sono il risultato dell'avere lasciato a contatto per un certo periodo di tempo un protista addestrato con uno non addestrato. Durante questa fase i due organismi si fondono e poi all'occorrenza si separano.
Il risultato del test di attraversamento dell'ostacolo con i primi due gruppi di mixomiceti non destò sorprese; il primo gruppo iniziava "speditamente" l'attraversamento del ponte divisorio mentre il secondo rimaneva esitante sul bordo. La parte interessante venne dall'osservazione del terzo gruppo (misto) che si comportò come se avesse acquisito l'informazione di "non pericolosità" dell'ostacolo dall'essere rimasto in contatto con il primo gruppo. Test successivi dimostrarono che il "passaggio di informazioni" funzionava anche su "blob" costituiti da 4 organismi, di cui solo 1 appartenente al gruppo "addestrato".
L'ingrandimento tra N e H mostra il punto in cui avviene lo scambio di informazioni tra un mixomiceto addestrato (H) e uno naive (N).  (All credits to  David Vogel / articolo su Proc. Biol. Sci)
Dimostrata la capacità di trasferire le informazioni "esperienziali", rimaneva da capire le modalità con cui questo avvenisse.
Come primo passaggio bisognava misurare il tempo minimo di contatto tra i blob perché avvenisse il passaggio dell'informazione. Esperimento semplice eseguito rimuovendo gli organismi a tempi successivi,  che permise di stimare in 3 ore il tempo minimo. L'analisi al microscopio evidenziò che in questo lasso temporale si formava un canale tra le due "cellule" entro cui, verosimilmente, scorreva l'informazione.
Di seguito il video riassuntivo dell'esperimento

Ad oggi è (a mia conoscenza) ancora ignota la natura del messaggio trasferito. L'esperienza mi fa propendere per un regolatore epigenetico del tipo micro-RNA, ben noti per la loro capacità di modificare in modo rapido e reversibile la funzionalità di uno o più geni, e a cascata il comportamento cellulare; nel caso specifico si potrebbe pensare ad un processo di de-inibizione del movimento in seguito al contatto con la sostanza X. 
Un'altra domanda che l'esperimento solleva e che sicuramente verrà affrontata dai ricercatori è cosa succederebbe mettendo in contatto due mixomiceti, "addestrati" separatamente per sostanze diverse. In teoria dovrebbe emergere un "blob" con doppia capacità discriminatoria


Altro esempio
"Slime mold form a map of the Tokyo-area railway system" (credit: Harvard Magazine)

Posizionando pezzi di avena su una mappa a nodi che ricrea il sistema di metropolitane di Tokyo, il blob cresce coprendo tutta l'area creando linee di collegamento preferenziali con i nodi sovrapponibile al percorso della metro (minor distanza per andare da un nodo all'altro)

Di sicuro da oggi guarderò alle muffe unicellulari con maggior rispetto.

Fonti
- Direct transfer of learned behaviour via cell fusion in non-neural organisms
David Vogel & Audrey Dussutour, Proc Biol Sci. 2016 Dec 28;283(1845)

- Brainless Slime Can Share 'Learned' Knowledge
CNRS, news

- A single-celled organism capable of learning
CNRS, Press release 2016

- The blob can learn - and teach !

- La memoria spaziale della muffa senza cervello
Le Scienze (2012)

Idrorepellenti come trattamento antighiaccio per i vetri

Siamo in inverno (finalmente) e immancabile si presenta il problema mattutino di rimuovere la brina ghiacciata dai vetri dell'auto o dalla sella della moto. Un problema non limitato a coloro che risiedono nelle campagne del nord ma che si palesa la mattina presto anche nelle vie di Milano con assonnati guidatori intenti a grattare via lo strato di ghiaccio quel tanto che basta per vedere attraverso il vetro.
Certo il problema era più sentito quando vivevo in Scandinavia ma lì lo si viveva con vichinga rassegnazione all'ineluttabile.

Il fenomeno non è nulla di trascendentale ed è causato dal congelamento delle gocce d'acqua. Quando queste si trovano a fluttuare nell'aria, a densità e temperature adatte, si organizzeranno in strutture regolari a simmetria diedrica (cioè dotate di 6 assi di simmetria) generando fiocchi di neve.
Snow flakes by Wilson Bentley via wikipedia
Quando invece queste goccioline si adageranno su una superficie solida, la risultante morfologia sarà diversa.
Il motivo è che la tipologia del cristallo "in crescita" è influenzato dalle caratteristiche della superficie; ad esempio una superficie idrofobica favorisce la crescita del cristallo verso l'esterno, formando strutture "ad angolo" simili ad un "trifoglio con 6 foglie". Questo particolare effetto è stato monitorato grazie all'utilizzo di una fotocamera ad alta velocità collegata ad un microscopio che "osservava" la formazione di ghiaccio su un foglio di alluminio reso idrorepellente.
La crescita di cristalli di ghiaccio su superfici idrofile (sotto) e idrofobe (sopra).
Image credit: Jie Liu et al / PNAS

Nella prima fase le gocce d'acqua spruzzate sulla superficie normale si sono appiattite prima di "evolvere" il cristallo, mentre quelle sulla superficie idrofoba hanno mantenuto una sforma sferica. Il passo successivo è stato quello di favorire la formazione di ghiaccio usando il classico trucchetto dello spruzzare sulla superficie nanoparticelle di ioduro d'argento, ben note per la loro capacità di fungere da "inneschi" per la formazione dei cristalli di ghiaccio. I cristalli cresciuti sulla superficie idrofoba formano strutture dirette verso l'esterno e verso l'alto formando, come detto prima, una specie di trifoglio simmetrico a sei foglie ancora sulla superficie in un solo punto. La differenza sostanziale rispetto ai cristalli "classici" è che questi ultimi formano una struttura "a girasole" pienamente a contatto con la superficie e sono quindi (come ben sappiamo) molto più resistenti all'azione del raschietto. I cristalli cresciuti sulla superficie idrofoba sono invece più labili, "estirpabili" anche solo dal vento.

Video dell'esperimento. Se non lo vedete, cliccate --> youtube

Quando i ricercatori hanno provato a vedere cosa succedeva usando superfici ibride, con aree idrofobe intervallate da zone idrofile, la  propagazione del ghiaccio si arrestava al confine con l'area idrofoba.

Lo studio è interessante per lo sviluppo di trattamenti in grado di conferire ai vetri capacità di ultra-resistenza al ghiaccio

Fonte
- Distinct ice patterns on solid surfaces with various wettabilities
  Liu, J. et al, PNAS (2017), 114 (43) pp11285–11290

- Water-repellent coatings could make de-icing a breeze
Nature, ottobre 2017


Un esame del sangue per predire il rischio suicidio

In alcuni paesi il tasso di suicidi è tale da uscire dal novero della freddezza statistica per entrare tra i principali argomenti di salute pubblica. 
I paesi afflitti da questo problema hanno proprie peculiarità ma il comune denominatore di essere nazioni sviluppate sia sotto il profilo economico che socio-culturale; le variabili chiamate in causa sono molte e possono andare dal lavoro, convenzioni sociali e isolamento "affettivo" (Giappone) fino alle lunghe notti invernali (Scandinavia e Russia). Qualunque sia la specifica locale non esistono ad oggi soluzioni semplici o interventi preventivi (tipo diagnosi del rischio individuale) sufficientemente affidabili.

Forse però qualcosa si sta muovendo in ambito clinico.
L'attuazione del proposito suicida non è quasi mai una scelta estemporanea; viene covata anche in modo inconscio per lungo tempo e come tale, biologicamente, ha un impatto sugli indici metabolici. Il pensiero  è il prodotto dell'attività cerebrale di reti neurali complesse la cui disfunzione è notoriamente causa di varie patologie comportamentali, dalle fobie ai disturbi ossessivo-compulsivi. Per troppo tempo queste anomalie sono state percepite come qualcosa d'altro (di superiore) rispetto alle malattie che affliggono altri distretti corporei e questo ha remato contro l'accettazione che si tratta in grandissima parte di disturbi a base metabolica e come tali (sia come terapia che come prevenzione) possono essere trattati.
Negli ultimi anni i progressi delle neuroscienze sono stati lenti ma costanti e hanno permesso di ricondurre le anomalie del pensiero o dello stato emotivo ad alterazioni della produzione (locale o sistemica) di uno o più neurotrasmettitori. 
Lo stress, uno stato utile per la nostra sopravvivenza in quanto "preparatore" ad affrontare condizioni avverse, ha qui una valenza centrale sia per l'effetto sistemico (comportamentale, intestinale, immunitario, etc) che per la "preparazione" del pensiero suicida. Capiamoci bene,  lo stress non induce al suicidio ma può essere considerato una cartina di tornasole utile per diagnosticare il rischio in soggetti predisposti.

Monitorare lo stato di stress con marcatori "univoci" (vale a dire non basati su sensazioni ma su parametri metabolici misurabili) è quindi un campo di ricerca particolarmente importante.
E' in questo solco che rientra lo studio condotto da ricercatori svedesi delle università di Lund e di Malmö imperniato sulla ricerca di parametri biologici (biomarkers) riconducibili ad uno stress cronico e facilmente misurabili (ad esempio con un semplice prelievo di sangue).
Tra i potenziali candidati quello che sembra avere sufficienza forza statistica per correlare il superamento di certi valori ad un rischio concreto è la presenza di DNA mitocondriale libero nel sangue; una presenza che è indice di stress (mitocondriale) metabolico.
Oltre al DNA nucleare, ne abbiamo un altro di pari importanza, quello mitocondriale. Le
cellule eucariote sono il risultato di una relazionesimbiontica iniziata circa 1,5 miliardi di anni
fa tra un batterio e una proto-cellula eucariote (image: NHGRI)


Se confermato da più estesi studi clinici, questo parametro diventerebbe uno strumento fondamentale nella valutazione di rischio oggettivo in psichiatria.
I ricercatori sottolineano tuttavia che, data la complessità dei comportamenti individuali, il marcatore non avrà una valenza previsionale nel senso comune (e deterministico) del termine ma di un indicatore biologico che indica uno stato di stress critico nelle persone vulnerabili, come chi soffre di ansia e depressione cronica. E' in questi soggetti che il  parametro potrebbe rivelarsi particolarmente utile anche come misuratore dell'efficacia degli interventi farmacologici e psicoterapeutici adottati; un problema particolarmente importante se si pensa che oggi l'efficacia della terapia preventiva è fortemente sbilanciata su marcatori PRO (patient-reported outcome), cioè sulla valutazione "soggettiva" del paziente; autovalutazioni errate (o fuorvianti) inquinano l'affidabilità statistica e questo spiega la discrepanza tra apparente efficacia della terapia e valori ex-post di persone suicidatesi.

Riassumendo in poche righe lo studio svedese, i ricercatori si sono concentrati sull'analisi dei parametri fisiologici di 37 pazienti ricoverati in una clinica psichiatrica dopo che avevano tentato il suicidio. I dati sono stati confrontati con un ugual numero di controlli (persone senza storia di tendenze suicide) pesate per età e sesso (70 per cento di sesso femminile ed età media intorno ai 40 anni). Rispetto ai controlli, i pazienti "suicidi" mostravano livelli sorprendentemente alti di DNA mitocondriale libero nel plasma (vale a dire quello presente nella frazione acellulare del sangue), un dato che si correlava con la presenza di elevati livelli di cortisolo (l'ormone dello stress).
Il dato era non è completamente inatteso essendo già noto che le cellule immunitarie degli individui depressi possiedono un maggior numero di copie di DNA mitocondriale. Il numero di mitocondri varia nelle cellule a seconda del fabbisogno energetico, a sua volta direttamente correlato al metabolismo e allo stress. 
La correlazione tra livello di stress, cortisolo e "titolo" di DNA mitocondriale, confermato da studi su animali di laboratorio, mancava però di conferme univoche sugli esseri umani, quindi non era un marcatore utilizzabile in clinica.

Ma se il livello del cortisolo è indicativo di stress per quale motivo non misurare direttamente il cortisolo invece di cercare il DNA mitocondriale (mtDNA)?
La ragione è che il primo ha una minore valenza indicativa e predittiva di stress grave. Il cortisolo viene rilasciato nel sangue ogni mattina prima di svegliarsi (fondamentale per prepararci al risveglio) e in genere in qualunque situazione in cui sia necessario "prepararsi a reagire" ad eventi esterni; condizioni assolutamente normali che non sono quindi rapportabili ad un aumentato rischio di suicidio. Per stress grave si intende invece uno stato persistente nel tempo, che si attiva e mantiene in assenza di inneschi esterni.
L'aumento del mtDNA nel plasma è verosimilmente un riflesso di uno stato di stress cronico che induce una maggior attività mitocondriale (che ci prepara ad affrontare un evento che ... di fatto non esiste) ed ha quindi una maggiore affidabilità rispetto alla misurazione del solo cortisolo.
La tecnologia odierna (ad esempio qPCR) ci permette di misurare il numero di copie di mtDNA diluite nel plasma in modo semplice, veloce ed automatizzabile. I risultati sono inoltre più facilmente interpretabili rispetto al semplice monitoraggio del livello di cortisolo (che dovrebbe essere fatto lungo l'arco della giornata e per più giorni).
I prossimi studi, oltre alla necessità di trovare conferme mediante un campione più ampio (e vario anche in senso patologico) di pazienti, dovranno focalizzarsi sia sul monitoraggio del titolo di mtDNA nel tempo per valutare l'utilità predittiva della efficacia terapeutica (ben diversa da quella "percepita") che della quantificazione del fattore di rischio, come richiesto ad ogni marcatore usato in clinica.

Fonte
- Increased plasma levels of circulating cell-free mitochondrial DNA in suicide attempters: associations with HPA-axis hyperactivity
D. Lindqvist et al, Translational Psychiatry (2016) 6, e97





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