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Cibo biologico. Imparare a leggere dentro una parola

Cibo organico. Quando la parola è vuota dentro

Se andate a fare shopping in qualsiasi grande supermercato in un paese occidentale oppure mentre guardate la televisione o ancora se cercate di godervi un "happy hour" il rischio che correrete sarà quello di essere bombardati da messaggi più o meno diretti sui benefici di salute legati all'acquisto dei cosiddetti prodotti "biologici", magari aggettivizzati come "etici". Un messaggio che arriva invariabilmente dall'ospite di turno in trasmissione (ma non lavorano mai?) come dalla "supergiovane e trendy sciuretta" che vi scavalca mentre si avventa sugli stuzzichini posti sul bancone del bar.
Grano (©wikipedia)
Del resto come non essere sedotti dalla possibilità di dare un contributo personale alla salute del nostro caro pianeta e in più fare del bene a 360 gradi. Il concetto base è che pagare un prezzo leggermente più elevato è un'opera intelligente per un prodotto non trattato con agenti nocivi. Se poi arriva da una filiera etica dove ad essere ricompensati sono in primis i produttori locali invece delle famigerate multinazionali, allora ci sentiamo ancora meglio.
Ma qui cominciano i problemi di interpretazione in quanto troppo spesso i termini biologico, etico e a chilometro zero si sovrappongono senza una vera ragione. Un prodotto etico non è praticamente mai a chilometro zero e quindi non arriva magicamente sui nostri scaffali, teletrasportato qui dall'altra parte del globo. Un prodotto biologico poi potrebbe essere paradossalmente più dannoso di uno commerciale in quanto il secondo è regolamentato e controllato mentre il primo è "naturale" (ivi compresi i microorganismi). E inoltre cosa ci sarebbe di non biologico in una porzione di fish&chips comprata in una rosticceria inglese? Nulla, semmai avrei qualche dubbio sul numero di volte che anche un perfetto olio di semi è stato usato per la frittura...
 La definizione stessa di chilometro zero è poi alquanto curiosa in quanto limiterebbe il consumo di cibo per un cittadino a quello prodotto sull'orto del terrazzo o al più in periferia (mangeremmo veramente verdure prodotte di fianco alla tangenziale?). Scordiamoci poi caffè e frutta.
E che dire della legittima sensazione di benessere che ci da l'idea di preferire un vegetale coltivato anche solo in modo standard (quindi nemmeno biologico) rispetto alla semplice menzione di OGM: un termine di cui curiosamente parlano tutti, salvo poi scoprire che ignorano la differenza tra un acido nucleico e una proteina.
Certo un prodotto biologico è bello concettualmente anche se di aspetto poco invitante. Giustamente non ci interessa che una carota abbia per forza la forma di una carota (guardate i prodotti sui banchi del biologico) se è genuina; ci contentiamo di carote bitorzolute che nemmeno campi posti nei pressi di Chernobyl sarebbero riusciti a produrre.
Ma questa è la Natura e accettiamo l'imperfezione per la salute.
Chi è la persona che del resto farebbe obiezioni ad allevamenti di galline libere di sgranchirsi le zampe razzolando in un campo o di erbette cresciute in un orto biologico (certo sperabilmente non nei pressi di una discarica abusiva)? Stesso discorso per il latte preso da mucche mai trattate con antibiotici, anche se le donne dovrebbero ricordarsi dei dolori legati alle mastiti, una affezione di cui questi animali soffrono frequentemente; ma qui arriverebbero altri attivisti che sotto il grido "no al latte animale ma solo al latte di soia". Peccato che questo non solo implicherebbe una immediata eliminazione di bovini (consumatori di risorse e inquinatori in quanto vivi) ma a estesi campi di soia a scapito di altre coltivazioni (e al fatto che la soia non è OGM per puro caso ma perché altrimenti le coltivazioni su larga scala sarebbero insostenibili). Tralasciamo poi gli effetti a cascata sull'industria casearia ... ma questo non è un punto su cui molti attivisti si soffermano troppo.

Il punto cruciale è in realtà un altro. E' proprio vero che il cibo biologico sia un concentrato di vitamine naturali e di valori etici, oltre ad essere privo di ogni tossina?
La risposta è meno semplice di quanto possa sembrare date le leggi che governano l'uso del termine "organico".
Il termine in sé è, per sua natura, estremamente fuorviante. La chimica ci insegna che una ipotetica lattuga completamente organica non potrebbe essere verde, mentre una mela totalmente inorganica non sarebbe altro che un insieme di pochi grammi di sali. Non parliamo poi di quello che avviene quando si cerca di trasferire la parola nel contesto di lingue diverse. In finlandese una patata che non è "luomu" (cioè secondo natura) significa che viene direttamente dal mondo della mitologia (sic!). Una patata di Thor? Ottimo spunto di marketing per i prossimi film ispirati alla saga della Marvel.
E a meno che non siano siglate specificamente come "biologiche" le salcicce presenti sui bancali dei mercati francesi sarebbero per definizione prive di proteine, grassi, zuccheri e acidi nucleici!
Tornando seri bisogna ricordare i risultati sconfortanti di alcune inchieste che hanno provato come il vino fatto da uva "biologica" sia in Europa che in USA contenesse tracce evidenti di solfato di rame, un fungicida completamente inorganico, non biologico per definizione. Gli agricoltori che si avvalgono del bollino "biologico" possono infatti utilizzare quantità a loro discrezione di questa sostanza chimica, purché adottino misure tali da ridurre al minimo l'accumulo nel suolo.
Oltre al solfato di rame, vi è un lungo elenco di prodotti chimici "naturali" consentiti nella agricoltura biologica. Un elenco che varia a seconda della legislazione nazionale. Tra questi l'ipoclorito di sodio (cioè la candeggina), il solfuro di calcio (una miscela corrosiva di polisolfuri di calcio) e il solfato di nicotina (un composto altamente tossico derivato dal tabacco e probabile responsabile della moria delle api, per questo bandito in Europa da due anni).
Il rotenone, usato nei laboratori di ricerca in tutto il mondo come potente inibitore del complesso 1 della catena respiratoria, è stato associato in laboratorio all'insorgenza di malattie parkinsoniane nei roditori. Tuttavia in molti paesi può ancora essere spruzzato liberamente sulle vostre fragole, rigorosamente biologiche.
Fortunatamente prodotti come arsenico, stricnina e sali di piombo sono oramai proibiti così come lo sono antibiotici come tetraciclina e streptomicina, fino a poco fa usati per proteggere pere e mele biologiche. Questo grazie ad una legge di meno di due anni fa (Reg. UE n. 126/2012, allegato III) che impone ai prodotti in arrivo nella EU che siano accompagnati da un certificato emesso dall'Organismo di Certificazione o dall'Autorità di controllo, attestante il mancato utilizzo di tali sostanze in ogni fase del processo produttivo. Ripeto. E' richiesto un certificato per l'importazione. Purtroppo non siamo gli USA o l'Australia dove vige un rigoroso controllo nelle importazioni di materiale biologico.
Questo non vuol dire che gli antibiotici siano banditi. Un veterinario può autorizzare il trattamento di un animale da allevamento se questo è ritenuto necessario per il benessere dell'animale, purché con posologie annuali massime definite da tabelle specifiche. Bandire in toto gli antibiotici implicherebbe il proliferare di malattie tra i capi di allevamento con conseguenze devastanti (vedi i problemi legati alle frequenti epidemie di afta, una malattia virale e quindi non sensibile agli antibiotici, in UK).


Allo stesso modo la "contaminazione" di prodotti originati da materiali certificati come biologici può avvenire grazie all'utilizzo di sostanze legali ma notoriamente tossiche come il perossido di idrogeno (acqua ossigenata), il biossido di zolfo, una vasta gamma di coloranti (purchè di origine vegetale) e la carragenina. Quest'ultimo è un carboidrato naturale estratto dalle alghe marine usato come gelificante, addensante e stabilizzante (si può trovare nei dessert, nelle salse e nella carne lavorata) su cui però ci sono dubbi sul suo legame con disturbi da lievi (gonfiori intestinali) all'essere un potenziale cancerogeno. Nel dubbio, non c'è un chiaro consensus a riguardo, le normative vigenti escludono il suo utilizzo unicamente per prodotti alimentari per l'infanzia.

Attenzione, tutta quanto sopra scritto non vuol dire puntare il dito contro il settore alimentare biologico, anche se alcune delle affermazioni che troverete sulle confezioni o che sentirete in televisione sanno più di marketing che di reali benefici. Promuovere pratiche sostenibili e salutari è una mossa lodevole. Ma lo sarebbe ancora di più se ogni affermazione a riguardo fosse basata su parametri scientifici, cioè su dati e non su sensazioni.
Rifiutare in toto le tecniche di modificazione genetica, anche quando su di esse non è mai stata trovata una singola, non dico prova, ma evidenza di tossicità e non curarsi delle comunissime infestazioni da aflatossine fungine nei grano (queste si cancerogene) è quantomeno curioso. Ricordo ad esempio che il grano usato in Italia deve essere in buona parte importato (da Argentina e altri paesi) per evitare il superamento della soglia minima di aflatossina presente nel prodotto coltivato in Italia.
Dicevo, è curioso che puntare il dito contro gli OGM quando il motivo principale per cui tali prodotti sono creati è per minimizzare il ricorso a diserbanti e antiparassitari senza i quali la resa nei campi (e quindi i prodotti disponibili) sarebbero circa il 15-20% dell'attuale. Senza contare l'importanza di piante modificate appositamente per potere crescere in ambienti aridi.

Bisogna sforzarsi di giudicare ogni caso nel merito e ad evitare semplificazioni assolute del tipo "buon organico - cattivo OGM".
Essere consumatori intelligenti vuol dire indirizzare le associazioni che ci rappresentano a prendere in considerazione tutti i fatti pertinenti per prendere decisioni razionali. Tra questi, consapevole di ripetermi, il diritto di giudicare se ad una particolare tecnologia genetica sia preferibile l'uso indiscriminato di tossine, conservanti e fertilizzanti.

***
Chiudo con una curiosità che è poi indice del potere pervasivo del marketing innestata sulla moda alimentare. In una nota catena di supermercati ho trovato esposto un cioccolato il cui nome è tutto un programma
Un "claim" ovvio che però nasconde sorprese se leggete sul retro negli ingredienti ... "può contenere tracce di latte".

Dove è l'artificio del marketing? Semplicemente OGNI cioccolato fondente potrebbe fregiarsi del titolo di vegan-friendly dato che è privo (a differenza del cioccolato al latte) di latte o di qualsivoglia derivato animale: cacao; burro di cacao; zucchero; lecitina; aromi vari. Gli altri produttori non lo indicano in quanto è ovvio.
Sarebbe come se un produttore di arance per differenziarsi dagli altri decidesse di mettere l'etichetta "cibo adatto a vegani"



Sull'errore di definire aprioristicamente che naturale=salutare consiglio la lettura dell'articolo "Naturale: meno male?" presente sull'ottimo sito chemicare.
(Articoli precedenti su argomenti simili in questo blog: Ragionare sugli OGM; pesticidi e Parkinson; OGM si e no).

Fonti
- Poison running through my veins
Howy Jacobs EMBO reports,  Volume 15, Issue 2 (2014), 123-198

- Biological Hazards in Food 
Richard Lawley & Laurie Curtis,  (2012)  Publisher: Food Safety Info


Houston abbiamo un problema! I viaggi spaziali "gonfiano" la testa

Houston abbiamo un problema! 
Volare nello spazio "gonfia" la testa
Sottotitolo: La nostra fisiologia non è fatta per i viaggi spaziali e molto rimane da capire prima di intraprendere missioni pluriennali.
©NASA


Viaggiare nello spazio comporta molteplici problemi, anche solo limitandosi a quelli riferiti alla salute degli astronauti.
L'essere umano è composto per circa il 60 per cento di acqua. In assenza di gravità i fluidi si ridistribuiscono in modo uniforme nei vari distretti corporei; la testa e il torace sono le aree che sembrano riesentirne maggiormente a causa del maggior afflusso di liquidi rispetto alla condizione di normale gravità.
Riassumendo in una riga, i problemi principali della assenza di gravità prolungata riguardano l'atrofia degli arti, viso gonfio e una aumentata pressione intracranica. Mark Kelly, un veterano che ha preso parte a quattro missioni dello Space Shuttle conferma "hai una sensazione costante di gonfiore alla testa. La stessa provata sulla Terra quando si rimane appesi a testa in giù per un paio di minuti. Solo che qui dura per tutto il tempo di permanenza a gravità ridotta".
E parliamo di missioni in orbita terrestre, non di viaggi interplanetari!
Fare jogging nello spazio (©link)
Comprendere nel dettaglio tutti i cambiamenti a cui va incontro il corpo di un astronauta è necessario ma tutt'altro che semplice. Ancora più difficile sarà progettare contromisure per minimizzare gli effetti associati a viaggi della durata di mesi se non di anni.
Tra i problemi noti vi è la fragilità ossea e l'atrofia muscolare. Problemi ora "risolti" grazie all'ausilio di tapis-roulant specifici e a farmaci contro l'osteoporosi. Altri, come la difficoltà di alimentarsi e il dormire a sufficienza sono tra le priorità attuali della ricerca medica finanziata dalla NASA.

Un grosso problema è ovviamente rappresentato dalle radiazioni. In assenza dello scudo fornito dal campo magnetico terrestre (che deflette i raggi solari e cosmici) le radiazioni assorbite diventano consistenti e il rischio di cancro aumenta in parallelo. La domanda è: quale è il rischio aggiuntivo "accettabile" di cancro, per un astronauta che abbia partecipato ad una missione spaziale? Una domanda non banale in vista delle future missioni su Marte ipotizzate per il 2030. Missioni della durata stimata di 2,5 anni, cioè 6 volte superiori ai turni attuali degli astronauti sulla stazione spaziale. Il recordman della permanenza dello spazio è oggi Valery Polyakov, con una permanenza di 438 giorni sulla stazione spaziale russa Mir nel 1994.
L'occhio di un astronauta prima (sin) e
dopo (dx) il volo. Le frecce indicano
la pressione su bulbo e nervo
(©NYT / Rad. Soc. of N.America)
Ci sono poi altri problemi "sfuggenti" di cui ci accorge solo oggi a distanza di 50 anni dal primo volo. Solo 5 anni fa si scoprì infatti la presenza di alterazioni nella morfologia (schiacciamento) dei bulbi oculari in alcuni astronauti. Nel 2009, Michael R. Barratt, un astronauta medico impegnato nella missione di sei mesi sulla ISS (Stazione Spaziale Internazionale) notò di avere difficoltà nel mettere a fuoco gli oggetti da vicino. Stesso problema per un altro membro dell'equipaggio, Robert Thirsk, anche lui un medico. Dopo avere condotto in modo incrociato gli esami oculistici del caso, si pervenne alla conferma che il problema era oggettivo e chiaramente non casuale avendo colpito due membri dell'equipaggio. Dopo avere comunicato il problema, la NASA caricò sulla navetta di rifornimento delle fotocamere ad alta risoluzione in modo da ottenere immagini chiare dell'occhio. Immagini che associate all'analisi ad ultrasuoni hanno confermato lo schiacciamento del bulbo oculare. Oltre allo "schiacciamento", si notò un rigonfiamento nei nervi ottici e la comparsa di macchie sulla retina.

"Meno male che è avvenuto ora e non durante la missione su Marte" chiosano i responsabili medici della NASA.
Un problema, si è scoperto poi, già descritto durante l'era Shuttle, ma passato inosservato. "Si tratta di un classico caso di rischio occupazionale" affermano alla NASA. "Abbiamo scoperto qualche cosa che abbiamo avuto sotto il naso ma che … non abbiamo visto". L'averlo infine rilevato è probabilmente una combinazione della presenza di due astronauti medici nella stessa missione, in grado di riportare accuratamente sintomi da altri descritti in modo troppo generico, e della disponibilità di strumenti tecnologici adeguati.
Fortunatamente non si tratta di danni di entita tale da avere alterato l'operatività (e la sicurezza) degli astronauti. La preoccupazione però è che questo fenomeno sia soltanto la punta dell'iceberg di alterazioni fisiologiche che esploderebbero durante missioni prolungate e in un ambiente meno "riparato" da quello offerto dalla prossimità al pianeta.
Ne è ben consapevole la NASA che ha predisposto un monitoraggio accurato della salute di Scott J. Kelly, che passerà un anno sulla ISS a partire dalla primavera 2015: il doppio del tempo dei suoi precedenti soggiorni nel 2010 e 2011 e  la più lunga sperimentata da un astronauta americano. John Charles, a capo della ricerca medico-scientifica della NASA, sta pianificando gli esperimenti da condurre in orbita sull'astronauta, finalizzati al rilevare le differenze fisiologiche tra una permanenza di 6 e 12 mesi in orbita. "Teoricamente dovrebbero esserci differenze ma non è detto" ha affermato il dottor Charles." Il corpo potrebbe subire un processo di acclimatamento alla diversa gravità e dopo pochi mesi andare incontro ad una stabilizzazione degli epifenomeni (visione e ossea) ora noti". Un esperimento che ha un vantaggio intrinseco considerevole dato che Kelly ha un fratello gemello, Mark, che fungerà da controllo a terra.

Mentre le cause della decalcificazione e dell'atrofia sono note, sulle cause dei problemi alla vista gli scienziati hanno più domande che risposte. Si sospetta che gli effetti negativi derivino principalmente dallo "spostamento" di fluidi corporei e in particolare dalla maggiore pressione del liquido cerebrospinale che "spinge" dall'interno sul retro dei bulbi oculari. Una ipotesi che non riesce a spiegare per quale motivo l'occhio destro sia maggiormente colpito di quello sinistro e perchè gli uomini siano più a rischio delle donne. Come se non bastasse si è scoperto che gli astronauti con un problema di visione hanno anche livelli di omocisteina (un marcatore di rischio cardiovascolare) più elevati. Potenzialmente questi problemi potrebbero essere risolti attraverso la gravità artificiale, ottenibile facendo ruotare la navicella come una giostra. Ma questa procedura aumenterebbe la complessità di missioni già complesse di loro, aumentano il rischio di malfunzionamenti e quindi di catastrofi.

Un altro aspetto da considerare è l'effetto della gravità sull'apparato vestibolare, in pratica l'area dell'orecchio interno che ci permette di distinguere l'alto verso il basso (e di stare in equilibrio), e il cui non "funzionamento" è ben noto ad ogni sommozzatore che deve seguire le bolle d'aria per capire dove è il "sopra". Il problema nasce durante il passaggio da assenza a presenza di gravità (durante il rientro quindi) quando gli astronauti possono provare una sensazione di vertigine. Immaginiamo l'effetto di questa "minor lucidità" nelle fasi di atterraggio su Marte dopo mesi di viaggio in assenza di gravità. Fortunatamente i sistemi automatici che hanno permesso di fare atterrare i vari Mars Explorer su Marte, hanno dimostrato di essere in grado di ovviare al controllo manuale.

Tornando alle radiazioni cosmiche, i ricercatori del Brookhaven National Laboratory hanno cercato di riprodurre gli effetti sul corpo, espondendo dei topi a quantità di radiazioni paragonabili a quelle ricevute da un astronauta su una navicella standard e per un tempo di diversi mesi. Risultato, i topi hanno mostrato una diminuità capacità di affrontare i test di orientamento nel labirinto, un indice di danno cerebrale. Ma gli organi a rischio radiazioni sono anche cuore, sistema nervoso e apparato digerente. Anche in questo caso i test continuano.

Non dimentichiamoci infine delle condizioni psicologiche degli astronauti, un aspetto ampiamente sottolineato in molta fiction fantascientifica ma che rende bene l'idea delle preoccupazioni che un "malfunzionamento" psichico avrebbe sulla sopravvivenza dell'equipaggio. Gary Beven, uno psichiatra della NASA, se ne sta occupando e conta molto sui dati che emergeranno dalla missione del 2015 quando verranno confrontate le caratteristiche psicologiche dei primi sei mesi con quelle nella parte finale della missione. Particolare attenzione verrà posta su variazioni significative dell'umore, sonno, irritabilità e capacità cognitive. Aspetti questi fondamentali una volta che gli astronauti avranno lasciato l'orbita terrestre e si troveranno isolati dal resto dell'umanità. Durante le missioni Apollo, il ritardo nelle comunicazioni era di 1,3 secondi. Su Marte, i ritardi sono dell'ordine di minuti (vedi blog dell'ESA) e quindi la conversazione in tempo reale diventa impossibile (al netto di eventuali disturbi legati a tempeste solari). L'equipaggio (4-6 persone) dovrà essere autosufficiente e in grado di affrontare e risolvere ogni conflitto di personalità. La tecnologia fornirà un importante ausilio. Beven ipotizza che verranno usati sistemi informatici in  grado di rilevare sottili cambiamenti nell'espressione del viso o nel tono della voce, che rilevati sul nascere permetterebbo di disarmare i conflitti latenti tra i membri dell'equipaggio prima che "esplodano". Il rischio è più che reale come evidenziato dai risultati di un esperimento russo che utilizzò sei volontari per simulare un viaggio su Marte: dei 6 uomini che presero parte alla "missione" chiusi in una finta navicella per 17 mesi, ben 4 ebbero problemi comportamentali e nel complesso l'equipaggio divenne meno attivo con il proseguimento dell'esperimento
L'obiettivo che si pone John Charles è quello di sviluppare contromisure tali da permettere di fare atterrare persone su Marte in buona condizione psico-fisica.

I tanti problemi potenziali ora descritti non hanno scoraggiato gli aspiranti astronauti (ovviamente tutte persone qualificate) che hanno accolto l'annuncio del reclutamento di personale indetto da due agenzie spaziali private, Inspiration Mars e Mars One (articolo QUI). L'obiettivo è quello di realizzare voli marziani in anticipo rispetto al progetto ufficiale (i link associati sono molto interessanti).
La NASA dal canto suo ha annunciato che non intende affrettare i tempi e continuerà ad utilizzare la stazione spaziale almeno fino al 2024 in modo da integrare le conoscenze mediche attuali con dati ottenuti da nuove sperimentazioni. Il mantra della NASA è che esistono "variabili sconosciute", problematiche non prevedibili e quindi difficilmente prevenibili. Aumentare al massimo i test pre-lancio dovrebbe servire a diminuire il rischio di sorprese fatali.

Articolo precedente sull'argomento --> "immobilità prolungata nello spazio".
Articolo sul rientro di Marco Parmitano

Articolo successivo: "acqua sulla luna di Saturno"

Fonte
- Beings Not Made for Space
 New York Times, 27 gennaio 2014

Un analisi del sangue ci dirà se ci ammaleremo di Alzheimer?

Da un semplice esame del sangue la possibilità di scoprire se una persona sana svilupperà i sintomi del morbo di Alzheimer nei successivi due o tre anni.
Queste le prospettive concrete una volta che i dati, appena pubblicati sulla rivista Nature Medicine, verranno riprodotti su un campione molto più ampio di soggetti. Un risultato che potrebbe imprimere una svolta decisiva nella lotta, finora infruttuosa, alla malattia.
Meglio sottolineare da subito che i dati pubblicati hanno valore puramente diagnostico e non sono una cura.
Fatta questa precisazione, sorge spontanea la domanda: vorremmo sapere se ci ammaleremo nel prossimo triennio sapendo che non esiste alcuna cura? Una domanda senza dubbio importante, e senza risposta in quanto totalmente personale. Alcuni potrebbero decidere di organizzarsi per tempo altri magari cadrebbero nello sconforto rovinandosi così ulteriormente la vita.
Per capire l'importanza della notizia bisogna allora cambiare prospettiva e guardare ad essa non sul breve termine e da un punto di vista "personale" ma per i vantaggi che potrà fornire in ambito scientifico (e quindi alla comunità tutta) nel medio periodo.
In altre parole, l'articolo ha meritato la pubblicazione su una rivista prestigiosa non perché descrive una cura ma perché di fatto fornisce uno strumento finora assente, cioè i paramatri metabolici da monitorare durante lo sviluppo dei farmaci sperimentali.
Il morbo di Alzheimer colpisce 35 milioni di persone in tutto il mondo, un numero destinato ad aumentare con l'aumentare dell'età media della popolazione mondiale. L'OMS prevede che questo numero raddoppierà ogni 20 anni , salendo a 115 milioni entro il 2050.
Una vera e propria tragedia sociale dato che alla sventura di assistere impotenti al declino inesorabile della personalità e dell'autonomia della persona amata si associano i costi a carico della famiglia e della società.
Combattere l'Alzheimer è una sfida improba dato che quando i sintomi si manifestano il danno cerebrale ha già superato il livello di guardia. Recuperare la funzionalità partendo dalle, mi si perdoni il termine, macerie cerebrali è quasi senza speranza ed infatti i trattamenti attuali sono volti a rallentare la progressione della malattia, non a revertirla.
Per essere risolutiva la terapia dovrebbe intercettare i primi segni sub-clinici, bloccando la degenerazione prima che i danni diventino irreparabili. Ma per sviluppare farmaci del genere è necessario disporre di marcatori che finora erano o inaffidabili o validi per un numero limitato di pazienti. Come capire altrimenti se un farmaco sta funzionando in assenza di evidenze cliniche?

Lo studio
I dati pubblicati dal gruppo di Howard Federoff della Georgetown University sono il risultato di uno studio osservazionale che ha coinvolto 525 persone di età superiore ai 70 anni e che ha portato alla identificazione di dieci metaboliti lipidici nel plasma sanguigno; marcatori questi in grado di predire con il 90 % di precisione chi tra essi avrebbe mostrato segni di deterioramento cognitivo (sia moderato che Alzheimer conclamato) nel successivo triennio
Ricordo per inciso che uno studio osservazionale non prevede alcun tipo di intervento sperimentale. Nel dettaglio i soggetti reclutati sono stati monitorati nei cinque anni dello studio per eventuali variazioni delle capacità cognitive e della memoria, incrociando poi i dati con quelli ricavati dai prelievi di sangue annuali. Tecniche come la spettrometria di massa hanno avuto un ruolo centrale per identificare variazioni dei marcatori ematici. I dieci biomarcatori identificati, tutti fosfolipidi probabilmente originati dalle membrane cellulari, erano presenti a livelli più bassi nei soggetti andati incontro ad un peggioramento cognitivo.
L'incredibile potere identificativo del test (90%) ha un punto debole consistente nel basso numero di persone ammalatesi, ventotto. Chiariamoci, non voglio dire che sarebbe stato meglio che più persone si fossero ammalate, ma che il numero (28 su 525) ha una intrinseca debolezza statistica. Una debolezza superabile solo coinvolgendo diverse migliaia di persone, un numero in grado di fare emergere più facilmente i malati mettendosi al riparo dalle deviazioni (e limitazioni) legate al campionamento, come ad esempio l'area geografica, l'etnia, il background genetico, etc.
Inoltre, il tasso di precisione del 90 % ha per definizione un margine del 10 % di errore. Errore che non riguarda i "falsi negativi" (non emersi nello studio) ma i falsi positivi. In termini semplici i risultati del test non evidenziano malati risultati negativi al test (falsi negativi) ma al contrario l'essere risultati positivi al test non implica ammalarsi dato che il 10% dei soggetti positivi non ha mostrano segnali clinici (almeno per il triennio preso in esame).

Il vantaggio del test è che è minimamente invasivo (solo un prelievo di sangue) e poco costoso. Una vera manna se l'idea è quella di estendere il test su tutta la popolazione a rischio. Di sicuro, meglio rispetto ai test basati sul prelievo del liquido cerebrospinale o tecniche di scansione, non invasive ma chiaramente più costose (TAC, PET, etc).
Il confronto, visto attraverso la PET, tra il cervello di un soggetto sano,
uno con medio deficit cognitivo e uno con morbo di Alzheimer
(Credit: Cindee Madison e Susan Landau, UC Berkeley)

Da quanto detto, risulta chiaro l'importanza dello studio americano. Finalmente sarà possibile valutare l'efficacia di terapie sperimentali sui soggetti a rischio (ad esempio i casi con manifesta familiarità della malattia) osservando la variazione dei parametri sub-clinici, diminuendo così drasticamente i tempi della sperimentazione.

(articolo precedente sul tema Alzheimer, qui)

Fonti
- Plasma phospholipids identify antecedent memory impairment in older adults
 M. Mapstone et al, Nat Med. 2014 Mar 9

- Biomarkers could predict Alzheimer's before it starts
 Nature, news

- Blood test can predict Alzheimer's, say researchers
 bbc.com/news (9 marzo 2014)

Dai ghiacciai in ritirata emergono piante tardomedievali

Il ritiro dei ghiacciai e il risveglio di piante vecchie di 400 anni. Dopo il precedente articolo sui virus "giganti" vecchi di 40 mila trovati in Siberia (e ancora attivi) ecco una nuova puntata sull'ecosistema artico "nascosto".


Catherine La Farge, una ricercatrice canadese della università di Alberta ha scoperto che alcune delle piante della famiglia delle briofite (ad esempio i muschi) che compaiono sui terreni lasciati liberi dai ghiacciai in fase di ritiro non sono originate dalla colonizzazione di piante contemporanee (come finora creduto) ma sono il prodotto di un "letargo" incredibilmente lungo.
Dal ghiacciaio in ritiro emergono le briofite (scure)
(©C.La Farge/Le Scienze)

La scoperta, possibile grazie alla datazione con il carbonio radioattivo, ha permesso di osservare che le piante avevano una età tra i 400 e i 600 anni; una età non casuale dato che posiziona il momento della "ibernazione" alla cosiddetta Piccola Era Glaciale, avvenuta tra il 1550 e il 1850.
Dei 24 campioni prelevati sotto il ghiacciaio, e datati "vecchi" al radiocarbonio, sette hanno generato piante vitali una volta coltivati in laboratorio.

Era noto che le briofite erano piante resistenti, in grado di rimanere dormienti per molti anni in ambienti estremi come i deserti. Quello che nessuno si aspettava era che riuscissero a mantenersi "attivabili" per 400 anni sotto un ghiacciaio.
Non è un caso allora se queste piante abbiano saputo superare innumerevoli avversità ambientali (glaciazioni, molteplici estinzioni globali, meteoriti, ...) dal momento della loro comparsa 400 milioni di anni fa. Il motore interno in grado di farle superare ogni avversità è associato alla enorme flessibilità delle loro cellule, in grado di riprogrammarsi, se necessario, ed avviare lo sviluppo di una nuova pianta. Come se da un nostro dito potesse in caso di amputazione rigenerarsi l'intero corpo. Una capacità che altro non è che la staminalità applicata al regno vegetale.
Se le briofite sono così resistenti, dovrà essere ripensato il contributo di queste piante all'intero ecosistema delle zone polari. Lo scongelamento del permafrost che procede inesorabile anno dopo anno rende questa scoperta di estrema

Articoli di interesse su argomenti correlati: virus gigante isolato dalle nevi siberiane (qui), estinzione della megafauna australiana (qui), il Sahara lussureggiante di 5 mila anni fa (qui), cammelli giganti in Alaska (qui)

Fonti
- Regeneration of Little Ice Age bryophytes emerging from a polar glacier with implications of totipotency in extreme environments
Proc Natl Acad Sci U S A. 2013 Jun 11;110(24):9839-44

-  400-year-old plants reawaken as glaciers recede
University of Alberta, news

- Essi vivono: "resuscitano" muschi di oltre 400 anni fa
National Geographic, 2013

Quando troppa igiene fa male. L'impennata degli allergici ne è la prova

Eccessiva igiene e allergie. Una certezza più che una ipotesi
L'incremento esponenziale negli ultimi anni di persone con allergie alimentari e/o ambientali è impressionante. Dopo esserci lasciati alle spalle, almeno nei paesi evoluti, le problematiche associate alle malattie legate a doppio filo alle carenze igieniche (scabbia, colera, etc) ci troviamo a dovere affrontare una casistica di "malanni" non causati dalla presenza di agenti microbici quanto da una loro assenza.
 Perchè oramai è chiaro che non va cercato solo nell'inquinamento la spiegazione del fenomeno. Se fosse vero le terribili condizioni ambientali della Londra dalla metà '800 fino ai primi anni '50 (per non parlare delle città industriali come Liverpool e Manchester) avrebbero dovuto indurre una vera e propria epidemia di allergie. E' invece storicamente noto che la minaccia più seria per gli abitanti del tempo erano le epidemie di colera legate alla contaminazione delle acque da prodotti fecali.
In modo simile ai giorni nostri le allergie sono pressoché sconosciute nelle popolazioni che vivono in aree a rischio sia da un punto di vista igienico che per lo stato di inquinamento ambientale. Tra queste possiamo citare la Cina, l'India e alcune aree del Sudamerica e dell'Africa.

Queste considerazioni hanno spinto diversi gruppi di ricerca ad indagare le cause dell'incremento delle allergie nella società occidentale. Una delle ipotesi da valutare era se tra le cause possibili vi fosse la progressiva sanitizzazione ambientale (intesa in senso stretto come dell'area in cui dormiamo e lavoriamo). Una ipotesi strettamente legata all'idea che gli agenti microbici "standard" svolgono un ruolo fondamentale sia nel rafforzare il sistema immunitario che nel rimodularlo; una azione che avrebbe il merito di evitare la eccessiva (e spesso impropria) risposta contro allergeni del tutto naturali come il polline e il glutine.
©MOISES VELASQUEZ-MANOFF -
NYTimes
Perché l'allergia è proprio questo: risposta immunitaria ad un allergene, eccessiva e non prontamente rimodulata.
I nostri ricordi ci possono aiutare ad inquadrare il fenomeno dato che tutti noi abbiamo conosciuto bambini (sia che fossero nostri compagni di classe che figli di conoscenti) immancabilmente addobbati in stile "omino Michelin" in presenza di una semplice brezza primaverile e redarguiti per il solo avere giocato in un prato. Bambini tra l'altro maggiormente predisposti sia alle malattie stagionali che ad episodi asmatici, rispetto a chi cresceva allo stato "brado". Un fenomeno, quello della maggiore cagionevolezza che si autoamplificava dato che la madre vedendo il figlio/a sempre ammalato tendeva a proteggerlo ulteriormente.
Non si tratta di coincidenze ed ora la scienza ne è convinta.
I microorganismi con cui noi veniamo in contatto esercitano su di noi un continuo stimolo che alla lunga ci protegge, dietro il pagamento di un dazio iniziale legato al contatto con elementi patogeni. Per approfondire questo aspetto vi consiglio l'articolo "Il Microbioma e noi: un ecosistema".
Su questo argomento, sanitizzazione e allergie,  è tornato il New York Times qualche settimana fa con un articolo dal titolo emblematico "Le conseguenze di un ambiente iper-pulito". Un articolo di attualità data la tendenza sempre più marcata delle scuole americane di vietare il vecchio pranzo da asporto a base di panini con burro di arachidi e gelatina a causa delle reazioni serie (leggasi "che richiedono ospedalizzazione") a cui possono andare incontro gli studenti allergici. Studenti il cui numero è quasi triplicato nel decennio 1997-2007 rispetto alla frequenza di altre affezioni, ivi compresa l'asma.
Gli scienziati ritengono che l'esposizione dei bambini ai germi in età precoce è essenziale per il corretto sviluppo del loro sistema immunitario
Ecco alcuni degli studi in proposito
  • Uno studio svedese raccomanda ai genitori di leccare i ciucci puliti dei loro bambini. I bambini così esposti, affermano i ricercatori, sviluppano meno allergie rispetto a quelli i cui genitori procedono ad una sterilizzazione accurata dei ciucci. Joel Berg, il presidente della American Academy of Pediatric Dentistry, ha detto che i risultati recenti rinforzano semplicemente quello che lui da sempre consiglia ai suoi pazienti: " la saliva è tua amica". Del resto chi non si ricorda di come le nostre madri curavano le abrasioni in assenza di liquidi disinfettanti; un po' di saliva su un fazzoletto pulito perr per rimuovere la terra dalle ferite. Un comportamento comune negli animali e assolutamente motivato. La saliva contiene infatti enzimi, proteine, elettroliti e altre sostanze benefiche, che possono in alcuni casi essere passate direttamente dall'adulto al bambino.
  • L'esempio degli Amish. Gli Amish sono una comunità religiosa nata in Svizzera nel cinquecento e stabilitasi negli USA intorno al settecento, mantenutasi fedele alle modalità di vita pre-industriali, con attività totalmente indirizzate all'agricoltura e all'allevamento. Il loro stile di vita rustico li ha preservati dalle malattie di tipo allergico imperanti invece nelle comunità agricole adiacenti ma maggiormente "sanitizzate". Mark Holbreich, un allergologo dello stato dell'Indiana (insieme a Pennsylvania e Ohio gli stati con le principali comunità Amish) ha scoperto che solo il 7,2 per cento dei 138 bambini Amish testati sono sensibili ai pollini di alberi e ad altri allergeni; un numero che sale al 50 per cento nei bambini americani non Amish. Andrew Mast, un agricoltore Amish, rircorda come la sua infanzia sia stata da subito associata ai lavori agricoli. "Il mio primo ricordo, intorno ai 5 anni, è quello della mungitura". Sua moglie Laura, ha lavorato nella stalla quando era incinta, e le loro due bambine sono state portate nella stalla fin dal terzo mese di vita. Una esperienza assolutamente normale per i nostri nonni.
L'effetto fattoria
La teoria, proposta nella metà degli anni '90, è che i microbi presenti nell'ambiente rurale (ad esempio nelle stalle), i prodotti vegetali ed il latte crudo stimolano il sistema immunitario dei bambini proteggendoli dalle allergie. Ma dal momento che la maggior parte di noi passa circa il 90 per cento del tempo all'interno di "grotte di cartongesso" (eufemismo per definire gli uffici) alcuni studiosi di ecologia hanno cominciato a studiare come "contaminare" i nostri spazi abitabili. L'idea è quella di rimuovere gli organismi dannosi, favorendo la presenza di specie benefiche per la nostra salute.
A tal proposito uno studio finlandese pubblicato nel 2012 è interessante in quanto ha osservato come la biodiversità vegetale nell'ambiente di prossimità a quello in cui si vive si riflette direttamente in una maggiore varietà di batteri sia all'interno delle abitazioni che sulla pelle umana. Gli adolescenti esposti a tale biodiversità sono anche a basso rischio per le allergie.

Dobbiamo attenderci nel prossimo futuro, edifici progettati per massimizzare questa biodiversità? Probabile se non vogliamo diventare un popolo incapace di stare all'aria aperta. Per il momento potrebbe bastare il mutuare alcune caratteristiche proprie dei nord-europei come minimizzare l'abbigliamento eccessivamente protettivo, favorire il più possibile le attività all'aria aperta dei bambini già da piccoli (tanto le affezioni intestinali sono da noi facilmente controllabili farmacologicamente) e soprattutto non pretendere di considerare gli appartamenti come delle capsule di vetro asettiche in cui isolarci dall'ambiente a cui noi naturalmente apparteniamo.

Articoli su questo blog sul tema qui trattato:
  •  Mens sana in corpo con flora intestinale ottimale (qui)
  • Il Microbioma e noi: un ecosistema (qui)
  • Allergie endemiche in Svezia (qui)

Un virus "gigante" vecchio di 30 mila anni trovato nel permafrost siberiano

Quanto è grande un virus?
Non è una domanda ovvia se non si conoscono le scale dimensionali in biologia. La figura sotto allegata può aiutarvi

®micro.magnet.edu
Forse adesso è un poco più chiaro quale è la scala dimensionale in cui collocare i micro-organismi. Cosa emerge?
  • i virus sono almeno 10 volte (in media 100 volte) più piccoli di un batterio medio.
  • il limite di risoluzione del microscopio ottico è (per motivi fisici) di 0,2 micrometri (µm). L'occhio umano può invece distinguere due puntini ad una distanza di almeno 0,1 mm.
  • date le dimensioni medie di un virus (20-300 nanometri) la microscopia ottica non è utile per potere osservare un virus; bisogna ricorrere al microscopio elettronico, la cui "acutezza" nelle diverse varianti in cui tale strumento esiste, permette di visualizzare agevolmente sia una particella di polline che un filamento di DNA.
  • Procarioti (cioè i batteri) ed eucarioti hanno dimensioni varie, circa 0,5-5 e 10-100 µm, rispettivamente.
Le particelle virali sono quindi certamente piccole ma grandi a sufficienza per espletare la loro funzione. Del resto un virus di cosa ha bisogno? Di un involucro in cui racchiudere un codice (DNA o RNA), spesso di alcuni strumenti (proteine attive nelle fasi iniziali dell'infezione) e delle protuberanze proteiche con cui identificare, e agganciare, le cellule bersaglio.
Niente di più.
Cosa altro servirebbe a queste entità (termine volutamente vago) assolutamente incapaci di fare alcunchè se non all'interno di una cellula? Nulla, dato che probabilmente non sono nemmeno da considerarsi organismi viventi. Esiste nel mondo scientifico una corrente di pensiero non minoritaria che esclude che un virus possa essere definito "vivente". La definizione di "vita" non è banale ma possiamo riassumere i principali elementi in comune tra i diversi organismi viventi:
  • struttura complessa ed organizzata con molecole organiche finalizzate a svolgere compiti specifici
  • capacità di evolversi (evoluzione)
  • capacità di adattamento all'ambiente esterno
  • capacità di riprodurre (riproduzione) e di trasmissione nel tempo del proprio patrimonio genetico
  • capacità di interagire con l'ambiente esterno e di reagire agli stimoli
  • capacità di assumere energia dall'esterno per il mantenimento della propria struttura
  • capacità di omeostasi
Un virus possiede alcune di queste caratteristiche ma non tutte. In assenza di una cellula ospite non ha alcuna attività ne capacità. Non è così strano allora pensare ad un virus come ad un non-organismo. In fondo nessuno penserebbe di comparare anche il virus informatico più efficiente ad un processore. 

Ma non è di questa annosa questione che voglio occuparmi oggi, quanto della scoperta nel permafrost siberiano di un virus non solo ancora attivo sebbene vecchio di migliaia di anni ma anche appartenente alla curiosa "classe" dei virus giganti, il cui primo membro venne identificato nel 1992. L'aggettivo "gigante" è quanto mai appropriato date le dimensioni intorno al µm, ben superiori non solo alla media dei virus ma anche a quelle di un batterio; un aggettivo che rispecchia in parte anche le notevoli dimensioni del DNA, sebbene non le più grosse in assoluto tra i virus.
Immagini al microscopio elettronico del virus (® Matthieu Legendre et al.)
Ovviamente i virus giganti non sono virus batterici (come potrebbero infettare qualcosa di più piccolo di loro?) ma parassiti delle amebe, protozoi apparententi alla classe dei rizopodi. Virus di cellule eucariote quindi.
Il virus appena scoperto, chiamato Pithovirus sibericum, è stato isolato dal materiale proveniente dal carotaggio del permafrost siberiano, in strati vecchi di circa 30 mila anni; non solo è il virus più antico mai isolato (difficile pensare d'altronde ad un virus fossile) ma è la dimostrazione che, in opportune condizioni, i virus possono mantenere la infettività per lunghi periodi di tempo; il test di infettività condotto su colture di Acanthamoeba ne è la prova.
Beninteso la collocazione del Pithovirus tra i virus giganti è solamente descrittiva, non esiste infatti una famiglia filogenetica di virus giganti. La somiglianza tra Pithovirus e Pandoravirus, oltre all'avere un identico ospite, è limitata all'aspetto dimensionale e morfologico, non deve fare pensare quindi siano virus affini. La sequenza del DNA rivela scarse somiglianze, una chiara indicazione di non-parentela. Al più i Pithovirus sono simili a membri delle famiglie virali come i Marseillviridae, Megaviridae e gli Iridoviridae.

Un virus che arriva dal Pleistocene
30 mila anni fa si era nel tardo Pleistocene, il periodo immediatamente precedente alla migrazione dell'essere umano nel continente americano. Parliamo di un periodo coincidente con l'ultima glaciazione in cui l'uomo non era un attore rilevante nell'ecosistema naturale. Date le suggestioni della cinematografia di fantascienza, la scoperta di questo virus (e di altri ignoti) potrebbe fare temere di avere risvegliato con il virus un pericolo per il genere umano, pericolo da millenni dimenticato nei ghiacci. Fortunatamente questi virus sono, come tutti i virus, estremamente selettivi per l'organismo da parassitare; una scelta non strana dato che sono "programmati" per sfruttare un ben specifico macchinario cellulare. Per intenderci lo stesso virus HIV può infettare solo pochi tipi di cellule in un umano e non funziona bene nelle scimmie, i nostri parenti più prossimi. Altro punto importante è che, come detto, in quel periodo non solo la Terra era nel mezzo dell'ultima glaciazione ma la densità umana era meno che scarsa, a maggior ragione in Siberia. E un virus ha come unica possibilità di mantenersi quella di avere un numero sufficiente di ospiti. La possibilità che nella "carota" siberiana siano presenti altri virus "umani" è di conseguenza meno che irrilevante.

Mimivirus
Pandoravirus
Gli altri virus giganti finora identificati sono i Mimivirus, i Megavirus e i Pandoravirus (che, poverello, non è portatore dei mali del mondo). Curiosamente tutti virus delle amebe.

 I Pithovirus sono al momento i campioni tra questi giganti, date le dimensioni leggermente più grandi dei Pandoravirus, pari a 1,5 x 0,5 µm. Dimensioni quasi batteriche. Hanno una forma ad "anfora" e l'involucro esterno è delimitato da una membrana. Se guardate l'estremità della particella virale potrete vedere che appare come chiusa da un "tappo" molecolare (probabile zona di entrata/uscita del DNA); da qui il nome Pithovirus, da pithos parola greca che si riferisce alle anfore e che era stato usato anche per il Pandoravirus. Il nome si riferisce quindi sia alla morfologia della particella virale che alla sua somiglianza con i Pandoravirus.

Anche il genoma è grande, 610 mila basi (kbp) e sebbene più piccolo di quello dei Pandoravirus (2.8 Mbp) è simile dimensionalmente a quello batterico (di poco superiore a 1 Mbp). Una dimensione, quella virale, incredibile se si pensa alla netta maggiore complessità funzionale di un batterio rispetto ad un virus. Perché il Pithovirus abbia bisogno di 467 geni non è ancora chiaro dato che la maggior parte dei virus codifica solo per proteine strutturali (capside, etc) e poche proteine funzionali; per tutto il resto usa il macchinario gentilmente fornito dalla cellula.
Altra domanda ancora senza risposta è per quale motivo la particella virale abbia tali dimensioni quando altri virus con genoma paragonabile a quello del pithovirus sono capaci di inserire il DNA in capsidi ben più piccoli. Una delle spiegazioni proposte è che il Pithovirus sia nella fase iniziale del percorso "evolutivo" che porta al minimo ingombro per la massima resa. Il virus migliore è quello che con pochissime "istruzioni" date alla cellula è in grado di riprogrammarla per la propria proliferazione. Inoltre più il virus è grosso, minore è il numero di particelle virali che una cellula riuscirà a produrre.
Il Pithovirus sembrerebbe quindi avere iniziato a ridurre il proprio corredo genetico senza la concomitante riduzione delle dimensioni della particella originaria. 
Un ipotesi quest'ultima che deve essere inquadrata in una delle teorie circa l'origine dei virus, quella che propone il virus come l'involuzione di una cellula ridottasi talmente da essere diventata un parassita obbligato: una stringa di informazioni in grado di riprogrammare cellule compatibili. Una ipotesi in contrasto con quella che afferma che virus e cellule si siano originate in modo del tutto indipendente dalle strutture pre-biotiche presenti nel cosiddetto "mondo a RNA".

Se da un punto di vista scientifico quello che emerge è l'enorme varietà di virus ancora da scoprire (e le strategie adattative selezionate) da un punto di vista pratico qualche dubbio affiora circa quello che potrà emergere dai ghiacci in seguito al fenomeno del riscaldamento globale; sia naturalmente per la riduzione delle calotte che per il più facile accesso industriale ad aree prima precluse (l'artico ne è un esempio).
L'analisi dettagliata dei microorganismi presenti in queste aree è fondamentale per valutare se costituiscono potenziale per l'ecosistema, con conseguenze a cascata sull'uomo anche senza dovere ipotizzare la ricomparsa di un patogeno agente direttamente sull'uomo.

*** aggiornamento ***

Un altro virus gigante che ha mantenuto, una volta riemerso dopo 30 mila anni dalle tundre ghiacciate della Siberia, la capacità di infettare le amebe è il Mollivirus sibericum. Visibile al microscopio ottico grazie ai suoi 0,6 micrometri di diametro, possiede un genoma di 560 kbp codificante per un gran numero di proteine senza omologie significative tra gli organismi noti. Un nuovo (e indesiderato regalo) del riscaldamento globale.
Il mollivirus al microscopio ottico (Image credit: Matthieu Legendre)



Potrebbero interessarvi anche "organismi sopravvissuti alla glaciazione" (--> qui) e "il lago dimenticato dal tempo sotto il Canada" (--> qui)

Fonte
- Thirty-thousand-year-old distant relative of giant icosahedral DNA viruses with a pandoravirus morphology 
  Matthieu Legendre et al, Proc Natl Acad Sci U S A. 2014 Mar 3

"Se sei mio figlio identificati con la password che ti ho dato quando eri nell'uovo", sembrano dire alcuni passeri

"Se sei mio figlio dammi la password che ti ho cantato quando eri nell'uovo". Questo il metodo identificativo di alcuni passeriformi.
Di solito le madri, siano esse mammiferi oppure uccelli, cominciano ad impartire gli insegnamenti alla prole solo dopo la nascita. E' noto tuttavia che alcuni studi hanno mostrato che l'embrione (sia esso nella placenta o nell'uovo) è in grado di sentire i suoni provenienti dall'esterno. Sarà per questo motivo, sarà che la madre non vuole perdere tempo sta di fatto esiste un uccello che canta alle proprie uova insegnando al nidiaceo una volta nato l'ABC della comunicazione con la propria madre.
L'uccello in questione, Malurus cyaneus, è un passeriforme australiano che ha evoluto questo comportamento per uno scopo preciso: evitare di allevare nidiacei altrui inopinatamente depositati nel proprio nido. 
Malurus cyaneus (®Nevil Lazarus/CC-BY)
Come si tutela da questo rischio di spreco di tempo ed energie? Cantando trasmette una sorta di password (una nota specifica) che i nidiacei dovranno poi usare nei loro vocalizzi per chiedere il cibo alla madre. Niente password-niente cibo. Uno strategemma evolutosi per contrastare la abbondante presenza di cuculi nell'area.
Non sia mai poi che la severità materna venga annullata dal padre disattento! La password viene infatti insegnata anche al compagno, che quindi in assenza del segnale specifico si esimerà dall'alimentare i piccoli.
Come è nata questa scoperta? Si sapeva da tempo che questi passeriformi erano molto più bravi nello scoprire la presenza di intrusi nel nido, ma non si capiva come facessero. Il mistero è stato ora risolto dal gruppo di Sonia Kleindorfer della Flinders University di Adelaide, il cui lavoro è stato recentemente pubblicato su Current Biology.
Dallo studio condotto su un certo numero di nidi si è scoperto che ogni nidiata emetteva dei vocalizzi non del tutto omogenei. Esisteva una sorta di firma che distingueva gli uni dagli altri. Trasmettendo la registrazione sonora captata in un nido in un altro nido i genitori del primo nido accorrevano ad alimentare la prole. Tutte le altre coppie non mostravano invece alcun interesse alla sorte dei nidiacei, in quanto non loro.
Se mi dai la password ti do il cibo ®NHPA/Photoshot

Obiezione ovvia. Se questo metodo si è evoluto per difendersi dal cuculo che deposita le sue uova nei nidi altrui, anche i nidiacei invasori dovrebbero imparare i vocalizzi. L'elemento discriminante è il tempo che intercorre fra la deposizione e la schiusa del cuculo (nasce prima e butta fuori dal nido le altre uova). Le "lezioni" materne infatti iniziano circa 10 giorni dopo la deposizione delle uova legittime e durano circa 5 giorni: il tempo necessario affinchè embrioni imparino il richiamo. L'uovo del cuculo rimane nel nido soli due giorni prima di schiudersi (in anticipo sui legittimi nidiace) senza avere imparato la lezione. Risultato? I genitori abbandonano il nido non sentendo alcun richiamo, e vanno a nidificare altrove.
Un sistema a prova di cuculo? Non sempre. Il metodo è estremamente efficace con una specie di cuculo ma non con un'altra dove l'efficienza nello smascherare l'intruso scende al 40% (2 coppie di genitori su 5 si fanno fregare). Come mai? Questa seconda specie di cuculo va a tentativi, emettendo delle note diverse fino a che il genitore adottivo nei paraggi, e non ancora fuggito, risponde.

Nota.
Anche gli esseri umani vengono "istruiti" al linguaggio quando sono ancora embrioni. La prova (o meglio la piu' recente) arriva dall’équipe di Eino Partanen, dell’Università di Helsinki ed è stata pubblicata su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences). In estrema sintesi l'autore afferma che il sistema nervoso dei neonati è già modellato sui suoni che ha udito più spesso nella fase fetale, conservandone la memoria. La ricerca, condotta su una trentina di donne, è consistita nel fare ascoltare una registrazione contenente una pseudoparola ("tatata” e sue varianti) negli ultimi tre mesi di gravidanza. Le donne campione dovevano ripetere durante quei mesi piu' volte al giorno quella parola, a differenza del gruppo di controllo che lo aveva ascoltato solo una volta. Dopo la nascita, i bambini appartenenti al gruppo "esposto" presentavano una risposta neurale specifica ogni qualvolta tale parola veniva pronunciata. Questi risultati sembrano indicare che l’ascolto di suoni nell’utero modella lo sviluppo cerebrale del feto e questo è a sua volta importante nel predisporre all’apprendimento del linguaggio e dei suoni che lo caratterizzano. Secondo gli autori i dati ottenuti potrebbero essere utili per predisporre futuri trattamenti "preventivi" contro disturbi dell’apprendimento, come la dislessia.
Corollario di questi risultati il fato che è sconsigliato esporre il feto, troppo spesso, a musica/suoni ad alto volume in quanto si rischierebbe di compromettere lo sviluppo del suo sistema nervoso (Proc Natl Acad Sci U S A. 2013; 110(37):15145-50) .


Fonti
- Wrens teach their eggs to sing
  Zoë Corbyn, Nature (2012)
- Embryonic Learning of Vocal Passwords in Superb Fairy-Wrens Reveals Intruder Cuckoo Nestlings
  Diane Colombelli-Négrel, Current Biology 22 (22) 2155-2160, 2012


Due o tre cose che lo studio del DNA delle tartarughe ci può insegnare

Cosa ci insegna il genoma della tartaruga?

Studiare il genoma degli organismi più vari non è un esercizio scientifico fine a se stesso, sebbene sia utile ricordare che la scienza ha come "motore interno" la conoscenza dei fenomeni naturali e non l'idea di dovere utilizzare nell'immediato le conoscenze acquisite. Se questo non fosse stato vero il mantra della ricerca allora anche gli esperimenti di Faraday non avrebbero avuto ragione di esistere dato che l'idea stessa di elettricità e del suo utilizzo era ben al di là da venire.
Questo per dire che studiare il genoma di un organismo, sia questo un batterio o un tardigrado, è sensato in quanto
  • tecnicamente fattibile, 
  • economicamente sostenibile e 
  • scientificamente interessante.
Da un punto di vista economico il costo di sequenziare un genoma è oramai alla portata di un qualunque individuo. Si è passati dalle centinaia di milioni di dollari e migliaia di persone coinvolte a fine anni '90 per il Progetto Genoma all'attuale centinaio di euro e un solo operatore necessario, in grado tra l'altro di maneggiare più campioni simultaneamente.
Scientificamente è sensato, in quanto studiare il genoma non vuol dire avere "solo" la sequenza del DNA ma soprattutto comprendere le differenze accumulatesi, la specificità dei meccanismi regolatori e lo specifico network di geni selezionati evolutivamente per rispondere ad esigenze estremamente specifiche, come possono essere quelle di un organismo in grado di andare in letargo o di vivere agevolmente a temperature superiori ai 100 gradi come fanno i batteri termofili. Dal sequenziamento di alcuni organismi è stato in passato possibile estrarre informazioni utili per il progredire delle tecniche; tra tutte cito le proteine fluorescenti scoperte per la prima volta nelle meduse e oggi strumenti fondamentali in biologia cellulare. Se vi interessa l'argomento date una lettura ad un precedente articolo in questo blog (qui).
Credit: H. Bradley Shaffer
Se questo non vi basta allora possiamo anche allungare lo sguardo in avanti e sottolineare le "due o tre cose" che il sequenziamento del genoma della tartaruga, concluso nel 2013, ci sta già iniziando a "dire". Tra questa abbiamo la longevità, sia biologica che riproduttiva, e la capacità di sopravvivere per mesi senza respirare.
Informazioni presenti nello studio pubblicato sulla rivista Genome Biology da un team della UCLA, incentrato sul genoma della testuggine palustre dipinta (Chrysemys picta bellii), un animale abbastanza diffuso nell'area nord-orientale del continente americano. Tra le caratteristiche di questi animali vi è appunto l'estrema longevità associata al fatto che mantengono la capacità riproduttiva anche nel loro secondo secolo di vita. In altre parole "crescono" senza invecchiare, un fatto di cui ho già trattato in un precedente articolo ("Non tutti gli animali invecchiano").
Capire le basi genetiche che differenziano un animale che invecchia (i mammiferi in generale e l'essere umano nello specifico) da uno che semplicemente aumenta di età è non solo scientificamente interessante ma anche utile per contrastare gli aspetti negativi dell'invecchiamento, inteso come deterioramento delle capacità vitali.
Quale il dato principale emerso dallo studio? Contrariamente alle attese il ruolo chiave per "non invecchiare" sembra essere legato non a "geni protettivi" ma allo spegnimento di geni i cui omologhi sono invece pienamente funzionali in uomo. Nelle tartarughe questi geni sono o poco funzionanti o addirittura ridotti al rango di pseudogeni, geni cioè vestigiali e non più attivi. Un fenomeno assolutamente comune evolutivamente e legato alla rimozione di geni ridondanti o dannosi per le "specifiche" fisiologiche via via selezionate.
Anche l'essere umano possiede molteplici esempi di pseudogeni e/o di modificazioni funzionali volte a "cancellare" aspetti morfologico-funzionali legati a precedenti stadi evolutivi. Il più semplice da spiegare tra questi è la coda vestigiale che noi possediamo per un breve tempo durante lo sviluppo embrionale ma che viene successivamente riassorbita. Con una certa frequenza nascono bambini in cui il riassorbimento non è avvenuto; il risultato è la presenza di una "quasi" coda, dove il quasi è legato al suo essere una appendice solo cartilaginea, priva delle vertebre caudali. La causa è un mutazione del gene FGFR2, che annulla in parte le mutazioni "anti-coda" fissatesi con i primati (TE Herman e MJ Siegel, Journal of Perinatology 2008).
Tornando ai geni responsabili dell'invecchiamento biologico, identificare quei geni la cui attività è associata all'invecchiamento può aprire la strada allo sviluppo di trattamenti farmacologici in grado di modularne l'attività trascrizionale; trattamenti beninteso da riservare agli individui in età adulta. Scopo di tale modulazione sarebbe la soppressione dei geni la cui attività è "causa" (probabilmente indiretta) dell'invecchiamento biologico.
Un discorso puramente teorico dato che sono molte le variabili da considerare. E' chiaro infatti che una tartaruga ha esigenze metaboliche ben diverse da quelle di un mammifero; i geni scartati durante l'evoluzione in quanto non utili per la sua specie, e che hanno avuto l'effetto di assicurare a questi animali una anzianità senza acciacchi, sono verosimilmente gli stessi geni che permettono ad un mammifero di essere estremamente più attivo e versatile di una tartaruga.
Se intervenire si potrà, questo potrà avvenire solo dopo avere ben compreso gli effetti a cascata che alterare l'espressione di uno o più di questi geni comporta.

Altra caratteristica molto interessante nelle tartarughe è la capacità di sopravvivere per mesi senza respirare, un fenomeno che si ripete ogni anno quando la testuggine si prepare a svernare rintanandosi sotto i fondali fangosi degli acquitrini; una zona in cui la presenza di organi respiratori addizionali oltre i polmoni come i sacchi vicini alla cloaca, fondamentali per le tartarughe marine sono del tutto inutili dato l'ambiente ipossico che caratterizza i fondali fangosi. Capire come la tartaruga sia in grado di superare indenne una ipossia prolungata, seppure in uno stato metabolico minimo come quello del letargo, è prospettivamente molto utile per migliorare nell'uomo il trattamento farmacologico per minimizzare le lesioni da infarto e ictus, in misura rilevante legati alla ipossia locale. La ipossia è infatti la causa principale della mortalità o della grave invalidità associata a questi eventi ostruttivi.
Il profilo di espressione genica ci ha fornito in questo caso un dato opposto a quello visto in precedenza. Lo svernamento si associa ad una aumentata attività di un certo numero di geni, di cui 19 sono preferenzialmente trascritti nel cervello e 23 nel cuore. Particolarmente interessante il fatto che uno di questi geni è 130 volte più attivo durante la fase ipossica del letargo rispetto al normale. Ciascuno di questi geni è quindi un candidato ideale per futuri trattamenti atti a minimizzare le conseguenze della ipossia nelle malattie cardiovascolari umane.

Come ciliegina sulla torta, questo studio ha permesso di ridisegnare l'albero evolutivo dei rettili. Di seguito l'albero filogenetico aggiornato
Credit: H. Bradley Shaffer & Genome Biology

Non male per uno studio che molti non addetti ai lavori avrebbero catalogato come "secondario".


Non posso non consigliarvi un sito in italiano (tartarughe.info) dedicato alle tartarughe. Anatomia, fisiologia, tipologie e comportamento sono ben descritti e in modo chiaro anche per coloro privi di conoscenze specifiche in campo naturalistico-biologico.

Fonti
- The western painted turtle genome, a model for the evolution of extreme physiological adaptations in a slowly evolving lineage
 H. Bradley Shaffer et al. Genome Biology 2013, 14:R28

- Scientists decode genome of painted turtle, revealing clues to extraordinary adaptations
  The Genome Institute at Washington University


Come affrontare una epidemia (di zombie)? Lo spiega un manuale a fumetti del Center for Disease Control americano

Come gestire emergenze sanitarie? Il CDC ha predisposto un manuale basato su una ipotetica ... epidemia di zombie.

No, non sono improvvisamente impazziti i dirigenti del Center for Disease Control (CDC), il centro che si occupa di monitorare ogni tipo di malattia infettiva su scala globale.
Hanno semplicemente preso atto della sempreverde passione per gli zombie da parte di giovani e meno giovani, e si sono chiesti
"possiamo sfruttare questa passione per veicolare divulgazione su un argomento assolutamente serio, cioè come si gestisce una emergenza sanitaria (materia chiaramente "noiosa" e per addetti ai lavori)?"
La risposta è stata SI, e da qui è nato questo fumetto centrato su una pandemia (epidemia globale) di zombie.
Il successo è stato immediato. Nei primi giorni dalla pubblicazione e con il propagarsi del messaggio attraverso la rete il sito è stato letteralmente assalito da visitatori facendo saltare i server. Persone, soprattutto giovani fan, che non avrebbero mai pensato di concentrarsi su tematiche serie come le modalità di diffusione di una epidemia (e tantomeno meno di visitare un sito serioso come quello del CDC) hanno alla fine imparato, divertendosi e in modo inconsapevole, qualcosa.
I miracoli della capacità didattica americana così diversa da quella dei nostri enti scientifici (ve lo immaginate un fumetto del genere fatto dall'istituto superiore di sanità?).

Quindi, se conoscete l'inglese, avete una sufficiente apertura mentale e soprattutto se siete interessati ad argomenti importanti come la gestione delle emergenze, allora sono sicuro che vi divertirete ed imparerete anche qualcosa.

http://www.cdc.gov/phpr/zombies/#/page/1
la prima pagina del manuale-fumetto

Per accedere al fumetto andate sul sito del CDC qui 
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