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Nuovi farmaci e costi connessi (parte 3)

Nuovi farmaci e costi connessi (parte 3)

(Continua da ---> parte 2)

Da quanto scritto nelle due parti precedenti comincia, spero, ad emergere la complessità intrinseca del lungo percorso che porta alla approvazione di un farmaco. E si noti che ho volutamente tralasciato tutti gli aspetti prettamente scientifici legati al processo di scoperta, di validazione e infine di "idoneità" farmacologica. Per una trattazione un poco più specifica, ma senza eccessivi tecnicismi, potete leggere la pagina sulla progettazione dei farmaci sul sito della Treccani (-->qui).

Entriamo adesso nell'ultima parte di questo breve viaggio analizzando alcuni dati finora solo menzionati.
  • Tra le false credenze vi è quella riferita all'ingente numero di nuovi farmaci annualmente immessi sul mercato. Niente di tutto questo! In Europa il numero di farmaci approvati nel 2013 dall'Agenzia Europea del Farmaco (EMA) è pari a 44 (vedi qui per maggiori dettagli). Il numero non cambia di molto se si va sul ricco, per introiti potenziali, mercato americano. Nei due grafici che seguono risulta abbastanza chiaramente che il numero medio delle molecole approvate negli ultimi 20 anni non è cambiato di molto

Tabella aggiornata al 2018. Nuovi farmaci chimici (NME) o biologici (BLA) approvati negli ultimi 20 anni dalla FDA americana
Un grafico simile del precedente (ma con un sottostante di molecole più ampio) in cui il confronto è centrato sull'aumento dei costi associati senza che vi sia stato un incremento dei prodotti. L'aumento delle conoscenze va infatti di pari passo con l'aumento dei controlli richiesti.

Il ROI (Return on Investment) del settore Pharma negli ultimi 5 anni. Il valore si è più che dimezzato
(credit: Nat. Rev. Drug Discov.  01/2016)
  • Vari sono i motivi che spiegano questi numeri e soprattutto il loro non aumentare, come invece il rapido avanzamento delle conoscenze biomediche avrebbe dovuto fare ipotizzare. Tra questi i sempre crescenti costi associati, dovuti paradossalmente alle maggiori conoscenze acquisite sulla complessità delle malattie, e l'aumento dei dati richiesti in sede di approvazione. Se infatti le conoscenze acquisite nell'ultimo decennio sono state incredibili anche le domande che le nuove conoscenze hanno generato (e che si traducono in controlli sempre più accurati) non sono meno rilevanti. Più si entra nel dettaglio dei meccanismi fisiologici e maggiori sono le cautele che l'ente regolatore impone. Il costantemente alto tasso di fallimento dei farmaci entrati nella sperimentazione clinica ha fatto il resto. Fallimento che non è dovuto a facilonerie nella progettazione dei farmaci ma proprio alla estrema difficoltà di creare molecole efficaci e sicure.
Nel grafico si vede chiaramente come i tempi necessari (e parliamo solo della fase finale, quella della valutazione) non sono cambianti negli ultimi 10 anni (dati riferiti a Europa, USA e Giappone). Se avessi voluto considerare i tempi per ottenere i dati necessari ad uno studio di fase 3, questi avrebbero potuto oscillare tranquillamente tra due e otto anni.

  • Altra domanda. Dove vanno a finire gran parte dei soldi spesi durante lo sviluppo di un farmaco. 
Allocazione dei costi sostenuti per ogni fase dello sviluppo e validazione di un farmaco. Per intenderci, la sperimentazione animale risucchia circa 1/4 del costo totale ed è "sicura", nel senso che è uno dei pochi costi certi per l'industria. Indipendentemente dal fatto che il farmaco sia poi approvato (fine fase-III) o venga cancellato già in fase-I. Voi pensate veramente che se solo ne avesse la "libertà" una industria non cancellerebbe questi costi riversandoli in toto su altre metodiche di valutazione?
Le ragioni principali del fallimento della sperimentazione (leggasi "non approvazione" o "interruzione della sperimentazione") di un nuovo farmaco sono riassunti nel grafico sottostante. 

Particolarmente interessante è "entrare nel grafico" precedente per visualizzare alcuni dettagli molto significativi. Limitiamoci al decennio chiave 1991-2001 e scomponiamo le cause del fallimento di un farmaco (inteso come le cause che hanno portato alla non approvazione in sede regolatoria). Non solo ragioni cliniche ma anche economiche: scoprire che il farmaco sperimentale manca delle ipotizzate proprietà "superiori" rispetto al farmaco già esistente sul mercato lo rende un prodotto "inutile" per i "buyers" (servizio sanitario nazionale, assicurazioni, etc); altra causa importante di fallimento è scoprire che un farmaco "migliore" per le stesse indicazioni è entrato nella sperimentazione dopo il nostro per cui, anche se il proprio candidato ottenesse il semaforo verde, verrebbe poco dopo surclassato dal nuovo arrivato.
L'aumento delle conoscenze biochimiche ha permesso di minimizzare la farmacocinetica come causa di fallimento. Al contrario sono la componente commerciale è divenuta centrale (tipico esempio la presenza di un farmaco preesistente sul mercato e l'assenza di migliorie sostanziali in efficacie o sicurezza del nuovo farmaco)


  • La figura successiva vuole invece evidenziare come varia la percentuale di successo nel passaggio alla fase successiva durante le diverse tappe della sperimentazione clinica.
Apparentemente superare la fase 3 è più facile che superare la fase 2. In realtà il dato deve essere pesato per il numero di sperimentazioni che pur avendo avuto successo in fase 2, non proseguono oltre per motivi vari (presenza di un concorrente di uguale affidabilità sul mercato, rischio di insuccesso elevato, brevetto in fase di scadenza, ...). Un aggiornamento a questi valori viene da uno studio pubblicato nel 2016. Le percentuali di successo da fase 1 a registrazione sono (come media) pari a 63%, 31%,  58% e 85%; il che equivale ad 9,6% complessivo. Tale valore cambia a seconda sia del campo di applicazione della molecola con percentuali fino al 26% in ematologia e 5% in oncologia.
  • Da un punto di vista delle risorse investite è sempre meglio che un prodotto "fallisca" farmacologicamente PRIMA che DOPO. Un fallimento in fase 1 (sicurezza e tollerabilità) o fase 2 (efficacia e sicurezza) riguarda studi clinici con una decina o qualche centinaio di soggetti analizati. Un fallimento in fase 3 (ad esempio il farmaco funziona ma non così bene come atteso o non meglio di quello che esiste sul mercato) sarebbe successivo a trial clinici superiori ai 3 anni e con migliaia di soggetti analizzati per un costo sottostante anche di centinaia di milioni di euro.
    Criteri di selezione molto stringenti in fase 2 rendono più facile il successo in fase 3 dei farmaci "sopravvissuti". Un esempio tipico nel grafico è quello dei farmaci respiratori ("resp"). La selezione che falcidia il 90% dei candidati in fase iniziale fa si che il 90% di quelli entrati nella costosa e lunga fase 3 abbia successo. Non sempre è possibile ("Neuro-D") ma è una strategia intelligente (credit: UCSD)

  • Va bene. Tutto chiaro. Ma manca ancora una informazione fondamentale. A quanto ammontano nel concreto i costi? Reggetevi forte. Il costo stimato per farmaco approvato è di poco superiore a 1 miliardo di dollari! Avete letto bene. Un miliardo di dollari (nota. Il dato più aggiornato riferito al 2015 indica in 1,51 miliardi di dollari il valore medio) E' ovvio che queste stime risentano dei diversi metodi di calcolo e del fatto che si tratta di medie. Se uno infatti prendesse come riferimento il caso limite dei costi sostenuti da una azienda appena nata che ha comprato per nulla il brevetto sviluppato da un'altra azienda fallita, evitando così di investire in ricerca e sviluppo e che ha avuto la fortuna di passare indenne e abbastanza velocemente attraverso tutte le fasi della preclinica e della clinica, allora il costo reale sostenuto da questa azienda fortunata sarebbe ben inferiore ma pur sempre intorno a qualche centinaio di milioni di dollari. E siamo appunto in un caso limite in cui di fatto i costi strutturali e di sviluppo non esistono. Sarebbe come calcolare i tempi di percorrenza autostradali casa-lavoro (e il consumo di benzina) nella settimana di ferragosto e generalizzarli per tutto il resto dell'anno. I costi indiretti sono molto elevati e nell'esempio precedente non tenevano conto della liquidità bruciata dalla azienda fallita. Nella realtà bisogna quindi tenere conto dei costi sostenuti dall'azienda per sviluppare e testare tutte le molecole che hanno preceduto quella che e' riuscita ad arrivare sul mercato. Tanto più sono le molecole che si sono perse per strada in fase avanzata, tanto maggiore sarà l'ammontare dei costi consolidati. 
Riassumendo brevemente, tra le voci di spesa abbiamo la ricerca di base, i test preclinici (ivi compresi gli ingenti costi dei test sugli animali) e infine la lunga (a volte imprevedibilmente lunga) fase di validazione sugli umani che iniziano con il profilo di sicurezza e dosaggio sui volontari sani e si concludono sulla validazione dell'efficacia e della sicurezza su migliaia di pazienti. E ricordiamoci dei costi legati al marketing senza il quale ben difficilmente un medico potrebbe venire a scoprire dell'esistenza di un prodotto migliore per un suo paziente. 
Un dato emerge chiaramente, troppo spesso trascurato da chi contesta ferocemente la sperimentazione animale e attribuisce alla lobby farmaceutica il desiderio di continuarla nonostante sia, a loro avviso, inutile o sostituibile con mezzi più semplici. E' il caso di ricordare che, giusto per essere cinici, il costo derivante dalla sperimentazione animale, tra gestione stabulari e test, è un costo non indifferente che qualunque azienda eliminerebbe immediatamente se non fosse obbligata a fornire i risultati dei test associati. Non ho mai sentito di aziende che tagliano a destra e a manca per risparmiare sui costi ma che tengono in piedi a loro spese un distruttore di liquidità monetaria come gli stabulari, se non fosse strettamente necessario.  
La stima reale dei costi sostenuti in ciascuna fase della sperimentazione clinica è complicata dalle metodologie di calcolo usate. Si va da stime di 43M $ per uno studio facile a 2,9 miliardi di $ "buttati" complessivamente per un farmaco ritirato dopo essere stato approvato-  Nella versione completa si computano costi come il "costo-opportunità" (quanto mi avrebbe reso se invece di investire i soldi in uno studio poi fallito li avessi usati per portare avanti una molecola con maggiori chance di successo e mercato?), il costo di produzione e la tipologia di studio usato. Uno studio recente ha preso in esame i costi sostenuti per i 59 farmaci approvati dalla FDA nel biennio 2015-16 e si va da 2M $ per uno studio di fase 3 con soli 4 pazienti (patologia molto rara) ai 347M $ per uno studio di non inferiorità di un farmaco ad azione cardiovascolare che ha coinvolto 8 mila pazienti. Costi del solo studio clinico, senza costare le spese di produzione e costo-opportunità. Uno studio simile condotto poco prima e centrato su 700 studi clinici condotti dalle 7 principali pharma ha fornito valori medi per la sola parte clinica di 3,4M $ (fase 1), 8,6M $ (fase 2) e 21,4M $ (fase 3).
Schema riassuntivo dei costi associati allo sviluppo di un un singolo farmaco. Per ogni farmaco che non viene approvato o che si perde in uno dei passaggi intermedi, il costo per l'azienda è duplice: da una parte il costo reale di poche decine di milioni di dollari quando va bene (cioè quando la molecola si rivela non adatta e/o tossica nelle primissime fasi); dall'altra i cosiddetto costo-opportunità cioè l'avere perso soldi che potevano essere usati per malattie meno "etiche" ma di sicuro successo commerciale (ad es. un clone del Viagra privo di effetti collaterali)
  • Il prezzo di vendita. Altro aspetto poco conosciuto è quello a cui ho accennato brevemente nella seconda parte, cioè che all'approvazione del farmaco non segue in automatico l'entrata in commercio. Nella maggior parte dei paesi questo passaggio richiede un ulteriore valutazione. Il farmaco, approvato da un punto vista clinico, deve vedersela con il giudizio dei pagatori sul fatto che sia o meno indispensabile. Chi sono i pagatori? Non i pazienti ma chi di fatto paga la gran parte del prezzo di vendita reale del farmaco, cioè il servizio sanitario nazionale nella vece di AIFA (o equivalenti in altri paesi) e le assicurazioni (specialmente in USA). Questi sono gli interlocutori con cui una azienda farmaceutica deve interfacciarsi per stabilire il prezzo di un farmaco. Si parte sempre da un concetto base: tutti questi pagatori hanno un certo budget che per quanto grande sia NON è infinito. I soldi devono essere in grado di coprire il fabbisogno farmaceutico di tutta la popolazione, sia per i farmaci di uso corrente che per quelli usati da un ridottissimo numero di persone e che quindi costano molto di più. Ogni nuovo farmaco che entra attinge a questo fondo e quindi diminuisce la copertura complessiva. Questo il motivo per cui in periodi di crisi compaiono i famigerati ticket; l'unico modo per rimpinguare la cassa senza diminuire la copertura effettiva. Il confronto tra l'azienda e i pagatori è sul prezzo. L'azienda vuole ottenere un prezzo di vendita più alto possibile (almeno in grado di coprire le spese) mentre i pagatori, che di questo prezzo pagheranno gran parte se non tutto, si opporranno. In alcuni casi si arriva perfino all'accordo che una azienda farmaceutica ritira un farmaco "vecchio" in cambio dell'accettazione di uno nuovo (leggi anche QUI per approfondimenti). Attenzione non ci sono qui "cattivi" e "buoni" ma due legittimi gruppi di interesse. In questo ambito l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) è l’autorità nazionale competente per l’attività regolatoria dei farmaci in Italia che rilascia il permesso di entrata sul mercato italiano.
Alla fine di questa lunga, ma allo stesso tempo semplificata, cavalcata sul processo che porta alla approvazione di un farmaco spero risulti chiara l'importanza di conoscerne gli aspetti meno noti.
Ignorare questi passaggi chiave spiega come sia stato possibile da parte di molte persone prendere in considerazione una non-terapia come Stamina o prima la terapia Di Bella. Trattamenti privi non solo di dati concreti riferiti a efficacia e sicurezza ma nemmeno mai sottoposti ai processi di  validazione e controllo rigoroso che solo i protocolli sperimentali permettono di ottenere.

Un altro modo per ottimizzare gli investimenti fatti nello sviluppo di un farmaco è quello di trovarne utilizzi per indicazioni non previste inizialmente. Di seguito una tabella che illustra i casi più famosi di farmaci i cui effetti inattesi (in alcuni casi veri e propri effetti collaterali non voluti e/o gravi - vedi il caso Viagra e Talidomide ) si sono rivelati fondamentali per il trattamento di patologie del tutto diverse da quelle originariamente pensate
Altri esempi di farmaci in uso o dismessi per cui è stata trova una nuova "vita" li trovate seguendo il tag --> NewOldDrugs

Tutto questo spiega i prezzi ... almeno fino a quando non si attivano accordi dietro le quinte che provocano aumenti generalizzati anche per i farmaci "obsoleti". Un problema tipico per la sistema sanitario americano basato sulle assicurazioni, in cui il "pricing" varia a seconda del potere di ottenere sconti (o dalla convenienza a chiederli) da parte dell'assicurazione. Problema trattato nell'articolo --> "Shadow pricing and the art of profiteering from outdated therapies".




(FINE)


Per volesse approfondire l'argomento posso consigliare alcuni link come base di partenza:
- Il ruolo di AIFA nella ricerca clinica (pdf)
- Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) --> "Sperimentazione clinica" e "come nasce un farmaco".






Nuovi farmaci e costi connessi (parte 2)

Nuovi farmaci e costi connessi (parte 2)

(Continua dalla prima parte ---> QUI)

La figura in chiusura della prima parte aveva lo scopo di dare una idea generale del processo che porta alla approvazione di un farmaco. Un processo lungo ed estremamente selettivo, come è facilmente desumibile dalla forma a imbuto: delle migliaia di composti che iniziano il percorso solo uno ne uscirà. E non necessariamente sarà un prodotto vincente (da un punto di vista del ROI, la remunerazione del capitale investito).
Nei prossimi paragrafi capiremo perché superare il processo selettivo non equivalga all'essere un prodotto vincente: per essere tale il farmaco dovrà ripagare i costi dello sviluppo (non soltanto i propri ma anche quelli dei consimili falliti strada facendo) e superare indenne la fase critica dell'entrata sul mercato quando si scontrerà con la concorrenza di prodotti già presenti, con la comparsa di effetti collaterali inattesi ed anche con resistenza dei "clienti" a cambiare farmaco.

Iniziamo riproponendo il tema della precedente figura, rielaborata per mostrare aspetti diversi.
La figura, tratta da PhRMA (Pharmaceutical Research and Manufacturers of America), mostra il processo di selezione mentre si procede da una fase prettamente chimica (disegno e sintesi della molecola; screening dei migliori candidati) alla fase preclinica (analisi di laboratorio e su animali) fino ad arrivare alle tre fasi della sperimentazione clinica, al termine della si potrà presentare la documentazione per l'approvazione finale.
L'entrata nella fase clinica è anche nota come First in Man, a sottolineare il "primo contatto" tra il farmaco e l'organismo umano nella sua complessità e non solo con sue "parti" (ad esempio linee cellulari umane in coltura).
Molteplici sono le informazioni riassunte nella figura precedente: da una parte si può osservare la costante riduzione delle molecole in gioco e dall'altra l'aumento del numero di individui testati.
L'aumento dei pazienti comporta un aumento più che lineare dei costi associati, che comprendono la produzione, il personale coinvolto nella sperimentazione clinica (medici, infermieri, di laboratorio, addetti al monitoraggio e al controllo qualità, etc etc) e i costi di gestione generali.
La gestione di questa fase è in genere appaltata alle CRO, entità esterne specializzate in queste operazioni, per cui più efficienti.
La selezione delle molecole migliori serve proprio per concentrare le risorse economiche (per definizione limitate) su una o pochissime molecole candidate. Non è sbagliato associare questo processo ad una drastica scrematura di ogni molecola che presenti dubbi anche minimi sulla possibilità di non superare  uno qualunque degli stadi più avanzati della sperimentazione.
Prima una molecola viene bloccata minore sarà il costo sostenuto qualora si riveli non idonea.

Il prossimo paragrafo descrive nel dettaglio le fasi della sperimentazione
  • lo sviluppo di un farmaco può essere distinto in una prima fase preclinica, di durata molto variabile comprensiva anche della sperimentazione animale, a cui segue - se tutto va bene - in una fase clinica (nettamente più costosa, la cui durata può oscillare tra i 3 e i 12 anni). La fase clinica si distingue in 3 fasi di cui la fase 1 serve per verificare che non vi siano problemi di tossicità inattesi (per l'intervallo di dosaggio selezionato) ed ottenere conferme sulla farmacocinetica. In questa fase si usano volontari sani, tranne nel caso dei farmaci antitumorali in cui il test è condotto su pazienti volontari a causa dell'azione tossica intrinsecamente associata ad una farmaco che deve uccidere le cellule alterate. Una volta accertato che non ci sono effetti collaterali inattesi si passa al test su un ristretto gruppo di pazienti (fase 2) dove per la prima volta si andrà a valutare non solo la sicurezza (sempre centrale) ma l'efficacia; efficacia che, è bene ricordarlo, è sempre riferita al fine per cui il farmaco è stato creato. Usando come esempio il caso di un farmaco nato come terapia di supporto per pazienti oncologici, la misura della efficacia NON andrà necessariamente a misurare la capacità di elimanare il tumore, ma la normalizzazione di parametri come dolore, appetito, nausea, disease-free survival, ... . In caso di esito conforme alle attese, e ottenuta l'approvazione da parte degli enti regolatori, inizia la fase di analisi della efficacia del farmaco su un gruppo di pazienti molto più esteso (fase 3). Solo alla fine di questa fase si avranno a disposizione dati a sufficienza per valutare se esistono gli estremi per chiedere l'AIC (Autorizzazione entrata In Commercio) che certificherà che il farmaco è ragionevolmente sicuro (unicamente in base al rapporto rischio-beneficio) ed efficace per lo scopo prefissato all'inizio della sperimentazione.
    Esempio di valutazione dell'intervallo di sicurezza tra dose efficace e comparsa di effetti dannosi.

    Quest'ultimo è un aspetto molto importante.
    Qualora dovesse emergere dalla sperimentazione che un farmaco sviluppato (ad esempio) per il trattamento dell'acne mostra come tratto inatteso quello di fare crescere i capelli nei soggetti calvi, il dato osservato non potrà essere presentato per ottenere l'approvazione al termine di quella sperimentazione con l'indicazione di "farmaco per la calvizie". Anche se i dati fossero a prova di errore.
    I risultati sono legati all'obiettivo fissato all'inizio della sperimentazione. Eventuali scoperte nate durante la sperimentazione, per quanto interessanti, dovranno essere validate in studi clinici disegnati appositamente per rispondere ad una precisa domanda sperimentale. (nel caso precedente "il farmaco al dosaggio x nei soggetti con caratteristiche x fa crescere i capelli?")
    Solo un disegno sperimentale con obbiettivi prefissati permette una analisi dei risultati statisticamente affidabile.
    Tutto chiaro? Bene, ammettiamo allora che il nostro farmaco abbia raggiunto l'agognata meta dell'approvazione, in quanto i dati presentati sono ritenuti sufficientemente solidi dagli enti preposti a dimostrare l'assunto della sperimentazione. Il farmaco riceve l'autorizzazione ad entrare sul mercato
    In realtà c'è un passaggio in più tra l'approvazione ufficiale e l'effettiva  entrata sul mercato: la valutazione da parte dell'AIFA - Agenzia Italiana del Farmaco - che confronto il farmaco con altri aventi la stessa indicazione terapeutica già presenti sul mercato nazionale, per valutare che abbia senso "pagarla" e non sia un farmaco metoo
    Ma ammettiamo che il farmaco sia arrivato sugli scaffali, quindi prescrivibile dal medico.
    A questo punto inizia de facto la fase 4 in cui verranno raccolte da parte della rete di farmacovigilanza segnalazioni su problemi legati all'utilizzo del farmaco. Con l'aumento esponenziale degli "utenti" (e quindi della variabilità individuale) il rischio, anzi la certezza per molti farmaci, è che effetti collaterali prima meno che esiziali affiorino (vedi sotto).
    La fase clinica dura MINIMO 3 anni. Riguardo ai tempi di protezione assicurati dal brevetto vedi i paragrafi successivi

    Comincia ora a dipanarsi la discrasia tra un farmaco "funzionante" e il costo complessivo di sviluppo da cui l'azienda potrebbe non rientrare mai, costringendola a vendere il brevetto o a fornirla come "dote" per farsi comprare da una concorrente
    I costi associati (sviluppo e sperimentazione) sono interamente coperti dalle industrie. Sebbene questo sia ovvio, viene spesso sottovalutato il suo impatto specialmente se si considerano i rischi di insuccesso associati e l'entità delle cifre in gioco.
    Esiste una sola certezza fino a che il farmaco non viene approvato: il costo non inferiore ad un certo valore standard, in altre parole quanto si è perso fino a quel momento. I guadagni sono l'obiettivo sperato che nella stragrande maggioranza dei casi si riveleranno essere chimere. Se da una parte è difficile fare delle previsioni sui costi reali sostenuti per l'attività ricerca che inizia con la identificazione del bersaglio e della molecola utile, meglio definiti sono i costi minimi che ciascuna azienda sa di dovere spendere per procedere attraverso ciascuna delle fasi di sviluppo (vedremo i numeri nella parte 3). Costi "certi" a cui si possono aggiungere costi accessori dovuti al prolungamento inatteso degli esperimenti o alla richiesta da parte dei revisori di nuovi dati. Sforare la spesa standard è un evento abbastanza comune quando si è in una fase di sviluppo clinico avanzato; se i dati accumulati fino a quel punto non sono risolutivi né in un senso né nell'altro, l'unica opzione sarà di aumentare il campione in esame allo scopo di raggiungere risultati statisticamente validi.
    Quando si è nella fase 3 della sperimentazione, aumentare il numero di soggetti (o peggio rimodulare i dosaggi ripartendo da capo) può voler dire reclutare anche migliaia di nuovi pazienti. Il dilemma nel caso di risultati positivi ma privi della forza tipica di futuri blockbuster è se entrare nella fase successiva oppure interrompere la sperimentazione accettando i costi fino ad allora sostenuti. 
    La domanda che si pone qualunque board aziendale è se il rischio sia tale da giustificare la spesa aggiuntiva. Una decisione chiave che può, se errata, fare andare gambe all'aria una azienda farmaceutica di medie dimensioni
    Ad esempio un farmaco che abbia ricevuto l'OK ai risultati di fase 2 ma la cui sicurezza o efficacia sia già "al limite" o che si ipotizza che molto difficilmente fornirà dati di superiorità rispetto a farmaci già presenti sul mercato, pone all'azienda davanti ad un bivio tra accettare le perdite o continuare a credere in quel farmaco investendo altri soldi.
    Non ha senso ovviamente mettere sul mercato un clone dell'aspirina ad un prezzo uguale, a meno che non sia privo degli effetti collaterali dell'aspirina.
    La valutazione economica deve essere SEMPRE centrale nell'allocazione di risorse che sono, ripeto, limitate. I soldi allocati per un progetto in corso ripagheranno l'investimento oppure sarebbe meglio usare quei soldi per portare aventi altre molecole promettenti? In altre parole si fa una analisi di costo-opportunità.

    Ecco una prima spiegazione del motivo per cui molti farmaci si perdono per strada.
    Uno studio effettuato nel 2018 sulle 21143 molecole sviluppate nel periodo 2000-2015, indica in 6,2% il tasso di successo (--> Wong et al.)

    Tante molecole iniziano il percorso di validazione; poche raggiungono il traguardo. Il numero di molecole che sopravvive alla selezione della sperimentazione clinica è minimo: per 380 molecole che entrano nella fase I, solo una ventina arriva alla fine. Tutte le molecole perse per strada sono costi netti per le aziende. Da notare che il numero finale è molto simile al numero di prodotti che tagliano il traguardo ogni anno in USA (vedi sotto).


    Per ogni farmaco approvato, potenzialmente in grado di rientrare (forse) delle spese già sostenute, un numero circa 10 volte superiore si perde per strada. Mi riferisco chiaramente solo alle molecole entrate in sperimentazione clinica.

    Tabella simile a quella precedente ma riferita ad una sola azienda: molte migliaia di molecole candidate per arrivare (forse) ad una molecola approvata ... dopo più di 10 anni dall'inizio del processo. E' evidente che la fase preclinica serve per selezionare il miglior candidato (unico) su cui si investirà nella costosa fase clinica.
Questi numeri ci fanno cominciare a vedere il problema di come calcolre il prezzo di vendita del farmaco una volta approvato
Quando si parla di costo di sviluppo bisogna in realtà considerare il costo complessivo sostenuto dall'azienda per la sua attività di ricerca e sviluppo. Il costo reale comprende anche quello dei prodotti che non sono mai arrivati sul mercato
Il prodotto vincente deve coprire i costi di sviluppo generali, altrimenti viene a mancare la sostenibilità finanziaria. Un rischio di sbilanciamento finanziario che non è una mera ipotesi contabile. 
I farmaci che possono fregiarsi dell'ambitissimo titolo di farmaci-blockbuster (farmaci talmente superiori rispetto alla concorrenza da conquistare il mercato e generare un flusso di cassa molto superiore ai costi sostenuti) si possono contare sulle dita di una mano nel carnet di una big-pharma, figuriamoci per una azienda piccola il cui scopo è in genere riuscire a vendersi insieme al farmaco da loro sviluppato.
Nella maggior parte dei casi, i farmaci approvati garantiranno ricavi appena sufficienti a coprire i costi nudi di sviluppo.
Se questi sono i rischi a cui va incontro ogni singolo farmaco, che possibilità possono mai esserci che vengano sviluppati farmaci per malattie talmente rare da rendere impossibile che i costi sostenuti siano ripagati dalla vendita del prodotto?
E' chiaro che un paziente è una persona e che la malattia è tale sia che colpisca una persona su un milione o diverse migliaia. Ma questo ragionamento etico non può essere imposto a enti privati che sopravvivono unicamente se sono in grado di coprire le spese. Imporre loro in modo utopistico di fare ricerca e sviluppo in perdita porterebbe diritti al fallimento. E una azienda farmaceutica in meno vuol dire una azienda in meno in grado di produrre farmaci. 
Far fronte agli obblighi etici è un carico che solo gli stati possono in teoria sostenere (non sempre); non si può né si deve mai derogare dalla consapevolezza che si tratta di soldi pubblici e che distruggere la ricchezza collettiva in modo incontrollato implica la distruzione dei mezzi economici per tutelare fasce molte più ampie di pazienti. 
Per ovviare a questo dilemma operativo si sono andati via via sviluppando due approcci complementari. Da una parte le aziende farmaceutiche per sopravvivere ai costi sempre maggiori hanno di fatto tagliato i costi della ricerca e sviluppo in house optando per il finanziamento di università e istituti di ricerca in cambio della compartecipazione al brevetto di eventuali scoperte. Dall'altra gli stati nazionali e sovranazionali (EU) hanno attivato incentivi fiscali e finanziamenti a fondo perduto per sostenere le attività di sperimentazione delle case farmaceutiche per quei farmaci (chiamati orfani) il cui bacino di utenza è estremamente limitato. Un altro valido ausilio viene dall'attivazione da parte delle autorità regolatorie di corsie preferenziali per questi farmaci, consistenti in un minor costo di gestione delle pratiche e nella richiesta di un numero di pazienti analizzati ben inferiore a quello standard. 

Torniamo ora a quello che avviene subito dopo che il farmaco ha ottenuto la AIC.
  • Ho già scritto che anche dopo l'approvazione le insidie non sono finite. Entrare sul mercato implica entrare in un ambiente molto più "vario" rispetto alle condizioni iper-controllate della sperimentazione clinica. Variegato vuol dire eterogeneità delle condizioni (di salute, genetiche, dietetiche, ambientali, di interazioni con altri farmaci non previsti, ... ) con le quali il farmaco si confronterà. Un esempio classico è quello di una persona che dopo avere usato una pomata per i dolori muscolari, scopre con comprensibile preoccupazione, di avere il volto ricoperto da macchie rosse; si scopre poi che aveva assunto anche un antierpetico a causa di una fastidiosa, e non prevedibile, ulcerazione labiale. Si tratta di un chiaro effetto avverso inatteso, non prevedibile a priori dato che i due farmaci non sono tra loro funzionalmente associabili. Quando il numero di questi effetti collaterali imprevisti diventa significativo o semplicemente viene segnalato come "serio" (serio = ospedalizzazione necessaria) il sistema di farmacovigilanza europeo potrà emettere note restrittive nell'utilizzo fino ad imporre il ritiro dello stesso dal mercato o un Black Box Warning. Il tutto nonostante i risultati positivi dei test di sicurezza ed efficacia condotti in precedenza. Proprio perché tali eventi sono veri incubi per le aziende coinvolte, le stesse sono molto più propense a terminare uno studio in fase iniziale piuttosto che trovarsi di fronte al rischio di farlo alla fine quando i costi saranno ingenti.
  • Ma ammettiamo che il farmaco non presenti controindicazioni o che queste siano assolutamente compatibili con un rapporto rischio-beneficio adeguato e soprattutto che non siano più serie o numerose di quelle associate a prodotti analoghi già da tempo presenti sul mercato. Il nuovo farmaco ha una sfida ancora più grande davanti: conquistarsi i clienti. Una sfida tra le più difficili in un mercato per tradizione conservatore; pensate solo alla difficoltà di fare accettare ai pazienti un farmaco generico, in tutto e per tutto identico farmacologicamente a quello di marca. Una mission impossible a meno che ovviamente il nuovo farmaco non abbia vantaggi tali da rendere i prodotti preesistenti non più appetibili. Se è privo di tratti anche solo percepiti come migliori, il nuovo farmaco sarà in tutto e per tutto definibile come "me-too" (in italiano anche-io) e ben difficilmente riuscirà a conquistare una fascia di mercato sufficiente per ripagare i costi di sviluppo.
  • Qualche paragrafo fa ho accennato ai farmaci blockbluster, vero e proprio sogno ad occhi aperti di un qualunque manager del settore. Ma anche in questo caso si tratta di un nirvana a tempo; c'è infatti l'incubo del tempo che scorre. Ogni farmaco approvato può contare su un periodo di protezione brevettuale della durata di circa 20 anni. ATTENZIONE però! La sabbia nella clessidra non inizia a scorrere quando il farmaco entra sul mercato ma molti anni prima, quando la molecola viene brevettata. Decidere quando brevettare è critico dato che se da una parte aspettare troppo espone al rischio che qualcuno arrivi prima, dall'altra brevettare prima del necessario accorcia il periodo utile di copertura del brevetto. I tempi della clinica e quelli necessari alla approvazione riducono de-facto il tempo "utile" (vale a dire quello in cui il farmaco è presente sul mercato in modo senza emulatori) a circa 7 anni. Nei casi in cui la sperimentazione si sia protratta troppo a lungo (evento comune in fase 3) può verificarsi la temibile circostanza che il brevetto decada prima ancora che il farmaco sia entrato sul mercato. In questi casi le autorità regolatorie forniscono un intervallo di protezione aggiuntivo (periodo di protezione complementare) durante il quale non verranno approvati nel territorio di competenza farmaci identici ... a meno che chiaramente non possiedano caratteristiche superiori (e siano quindi per definizione diversi).
(CONTINUA ---> parte 3)

Nuovi farmaci e costi connessi (Parte 1)

Nuovi farmaci e costi connessi
La realtà al di là della demagogia

Il percorso di sviluppo, dallo screening di molecole con potenziale farmacologico al "candidato" che diventa farmaco dopo avere superato le tante forche caudine della sperimentazione clinica, lascia sulla strada il 97% delle molecole. Il costo complessivo dello sviluppo dei farmaci è quindi elevato in quanto tiene conto anche dei prodotti abbandonati lungo il cammino. Una stima di fine 2017 indicava il costo cumulativo per farmaco approvato in più di 2,6 miliardi di dollari (DiMasi et, J. Health Econom., 2016, 47, 20–33). Un tale dispendio di risorse spiega i prezzi esorbitanti di alcuni farmaci (specie quelli con basso bacino di utenza). Questo non toglie che, specie in USA dove la gestione delle cure mediche è mediata da pagatori privati (le assicurazioni) siano presenti distorsioni nei prezzi dei farmaci che di fatto annullano il concetto stesso di libero mercato, forieri di un drastico calo di efficienza nel sistema: si paga di più, si ha di meno e non sempre il meglio. Un tipico esempio di tali distorsioni lo si ha con lo shadow pricing.

Parte 1
Introduzione
Troppo spesso le discussioni su farmaci e costi connessi degenerano in prese di posizione che oltre ad essere demagogiche denotano una profonda non conoscenza dei meccanismi che regolano l'entrata sul mercato di nuovi farmaci e il razionale dei costi di vendita. Discussioni che altrettanto spesso degenerano in ipotesi di cospirazioni di cartelli globali che agiscono in concerto per impedire l'entrata sul mercato di farmaci in grado di risolvere una volta per tutte la malattia di turno, sia questa cancro, AIDS, malaria, Ebola o la nuova influenza.
Pochi arrivano al traguardo
NOTA. Non perderò tempo qui di contrastare la parte cospirativa dato che smontare una leggenda è di suo un atto illogico. Dare credito alla esistenza di una cospirazione che dovrebbe di fatto annoverare tra le sue fila ogni laureato in scienze biomediche nel mondo è un insulto non tanto all'intelligenza comune quanto a coloro che dal secondo dopoguerra hanno contribuito alle conoscenze scientifiche attuali. Conoscenze che sono appena sufficienti per intravvedere la complessità regolativa di ogni cellula, figuriamoci per pensare di agire con una bacchetta magica su malattie multifattoriali come il cancro. Nonostante la limitatezza oggettiva attuale, i passi avanti compiuti negli ultimi cinquant'anni sono incredibili e ci hanno consentito di passare dalla semplice accettazione di un evento patologico visto come ineluttabile a conoscenze meccanicistiche tali da permetterci di sviluppare terapie fino a 10 anni fa degne di un libro di fantascienza, siano esse basate sulla chimica o sulla terapia genica. E' oggi possibile agire sia con "toppe funzionali" in grado di tamponare una falla del sistema (ad esempio la somministrazione controllata di insulina prodotta industrialmente per sopperire alla morte delle cellule che la producono) che usare approcci più simili alla riprogrammazione di un software difettoso mediante l'inserimento di "patch" correttivi (ad esempio la terapia genica che permette di inserire specificamente in cellule malate il gene normale come sostituto funzionale del gene mutato). Ma le scoperte di questi ultimi anni hanno disvelato un mondo di una complessità imprevista, raffreddando di fatto gli entusiasmi di chi pensava che il Progetto Genoma fosse la tappa decisiva per la comprensione ultima dei meccanismi regolatori in un organismo; l'epigenetica e il mondo degli RNA non codificanti sono il miglior esempio di due meccanismi chiave per la regolazione degli equilibri cellulari (e agli stimoli esterni) la cui centralità è emersa in tutta la sua forza solo dopo il completamento del Progetto Genoma. Negli ultimi dieci anni molto è stato fatto per capire i meccanismi regolatori di questo sostrato informativo ("epigenetica") ma è indubbio che siamo solo all'inizio.
E' giusto ed è comprensibile avere il desiderio di sconfiggere le malattie.
E' meno comprensibile pretendere che malattie fino a pochi anni fa di fatto sconosciute (dato che non vivevamo abbastanza a lungo per poterle sperimentare o invisibili alle capacità diagnostiche di allora) siano considerate un semplice imprevisto che si può risolvere agitando una bacchetta magica con la quale fare emergere dai cassetti degli scienziati e dai "laboratori segreti" delle aziende farmaceutiche la terapia o la pillolina adatta. A questa domanda fa il paio l'idea sempre più diffusa che malattia e invecchiamento siano un accidente e non invece un dazio associato a ciascun organismo vivente (a tal proposito vedi due articoli precedenti -> Cosa ci dice il DNA delle tartarughe e -> Non tutti gli animali invecchiano) .
Fa testo il commento di un medico che mi raccontava l'esperienza giornaliera di dovere spiegare agli ultrasessantenni (per non dire novantenni) che avere dolori alle articolazioni o valori ematici diversi da quelli di un quarantenne non sono il frutto di un problema temporaneo risolvibile con una messa a punto come si fa con la propria utilitaria, a costo di cambiare ogni pezzo usurato. Il mantra dei media spinto da medici irresponsabili è una vita senza malattie, e per di più ultracentenaria, è alla portata di tutti, se si seguono i consigli da loro dispensati (questo spiega come si possa arrivare ad amenità tipo "la dieta del gruppo sanguigno" ...)
Con questo termino la prima parte prettamente introduttiva, il cui fine era quello di invitare alla cautela quando si discute di un mondo estremamente complesso quale è la nascita di un farmaco. Un processo che consiste in realtà di fasi ben separate come la ricerca biomedica, lo sviluppo della molecola candidata, la selezione del candidato con la migliore farmacodinamica e farmacocinetica tra le tante molecole di partenza (processo noto come hit2lead) e la lunga fase di validazione clinica.
Processi fortemente interlacciati tra loro ma unici per caratteristiche di sviluppo.

Da questo punto in avanti entriamo più in dettaglio nel processo di sviluppo ma senza esagerare in tecnicismi, inutili se non controproducenti per i non addetti ai lavori. Essendomi liberato nei precedenti paragrafi degli aspetti di cui ritengo assolutamente inutile discutere, vi accompagnerò in un volo d'aquila lungo il processo di sviluppo di un farmaco facendo particolare attenzione ai costi e alle ragioni che spiegano perché un farmaco costi X e perché alcune malattie siano più "amate" dal mondo farmaceutico di altre. Per fare questo mi avvarrò di schemi e tabelle pubblicate su riviste del settore e come tali controllate (vedi processo di peer-review).
***

Punto di partenza fattuale: creare un farmaco costa ... e molto
Analizzeremo nel dettaglio nei prossimi paragrafi il come e perché di costi astronomici, distinguendo tra i costi diretti (dalla R&D alla fase clinica) e indiretti (costo-opportunità, costo del capitale, ...). Tempo e denaro sono necessari perché un farmaco sia non solo ideato e sviluppato in laboratorio ma riesca a superare il lungo processo di validazione clinica necessario per ottenere dati sufficientemente solidi da essere sottoposti ad una commissione indipendente di esperti nazionali e internazionali. Questi ultimi dovranno esprimersi sul fatto che il farmaco sia sicuro, efficace e, cosa importante, risponda agli scopi per cui è stato pensato. Non basta che un farmaco sia innocuo; deve avere una efficacia almeno pari a quella di farmaci che sono già sul mercato. Solo in questo modo è possibile evitare che un paziente sia esposto ad un trattamento inutile anche se innocuo al posto di uno utile ma (cosa normale) con effetti collaterali. 
Proprio quello che si rischiò di avere con il caso Di Bella (il caso Stamina è diverso in quanto si tratta - ed è la magistratura ad averlo certificato dopo anni di denunce di noi ricercatori - di una vera e propria truffa, per di più compiuta a danno di chi è facilmente circuibile in quanto senza speranza --> qui o seleziona gli articoli raccolti sotto il tag "dimensione-X").
Termino questa prima parte con un grafico che mostra il processo selettivo che falcidia i tanti farmaci candidati fino ad arrivare al farmaco approvato. Analizzeremo in seguito le diverse fasi dello sviluppo (in rosso sulla destra), per il momento vi basti vedere che la molecola che emerge è una sola su molte migliaia tra quelle analizzate in laboratorio. Tutte le altre si perdono per strada in quanto non idonee, con profilo rischio-beneficio non accettabile o non abbastanza efficaci. Le molecole perse sono costi reali (perdite nette), in tutto e per tutto a carico della azienda farmaceutica. Vedremo poi che si tratta di cifre ingenti.
Diagramma semplificato sulla riduzione dei candidati nel processo di sviluppo di un farmaco

(CONTINUA - parte 2)

Il sangue giovane ringiovanisce il cervello vecchio ... (e parlo di scienza NON di vampiri!)

Il sangue giovane ringiovanisce il cervello vecchio
... e NON è una storia di vampiri!

Tra i vari inconvenienti dell'invecchiare vi è un progressivo declino delle capacità cognitive, sebbene con dinamiche diverse nei diversi individui. Se è infatti vero che la genetica, lo stato di salute generale e il comportamento pregresso siano fattori centrali della variabilità interindividuale (e quindi è difficile fare generalizzazioni) è indubbio che anche il più lucido novantenne abbia capacità cognitive diverse da quelle che aveva anche solo dieci anni prima. Questo vale sia per l'anziano premio Nobel che è ancora parte attiva dell'attività di ricerca che per un individuo che durante la sua vita sia sempre alieno da attività intellettuali.
E' una conseguenza ineluttabile dell'invecchiamento che vale anche per altri mammiferi anche se difficilmente un animale allo stato brado raggiungerà mai età comparabili a quelle di un essere umano nella società occidentale del XXI secolo. Anche un leggero declino cognitivo (non intellettuale visto che parliamo di animali ma ad esempio mnemonico o reattivo) avrebbe come conseguenza immediata un abbassamento delle possibilità di sopravvivenza dell'animale (sull'argomento vedi anche un articolo precedente, qui).
Il declino cognitivo è fortemente correlato al decremento della funzionalità dell'ippocampo, che fisiologicamente si manifesta con una ridotta plasticità sinaptica, vale a dire la capacità di formare nuove connessioni sinaptiche e di mantenere attive quelle preesistenti. Le funzioni cognitive cardine, come apprendimento e memorizzazione, sono direttamente dipendenti dalla plasticità sinaptica di distretti chiave come ippocampo e corteccia cerebrale.
Non è un caso che la malattia di Alzheimer, il cui tratto distintivo è la difficoltà a creare nuove memorie e la progressiva cancellazione della memoria consolidata, colpisca tra le prime regioni proprio l'ippocampo (nuova memoria) e si propaghi poi alle zone corticali (memoria esistente).
Ma la "normale" e progressiva riduzione delle capacità cognitive nell'anziano non è quella patologica del malato di Alzheimer, quindi la domanda ad oggi inevasa è se il processo sia reversibile. In assenza, lo ripeto, di patologie cerebrali o neurovascolari concomitanti.

Di interesse su questo argomento è uno studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine condotto su topi anziani. I risultati sono abbastanza chiari e mostrano come le alterazioni alla base del declino cognitivo naturale sia reversibile grazie a … una trasfusione con sangue giovane.
Prego i lettori di darsi una controllata prima di decidere di planare sulla prossima vittima o di emulare le folli gesta della contessa Báthory.


La procedura sperimentale seguita non ha imposto ai topi anziani di passare ad una inusitata dieta a base di sangue preso dalla giugulare di loro giovani simili, ma ci si è basati su di una procedura chirurgica nota come parabiosi. Mediante questa tecnica il sistema circolatorio di due topi (giovani e vecchi in tutte e tre le combinazioni possibili) sono stati collegati.
L'effetto della parabiosi sulla densità di spine
dendritiche (©Villeda)
I risultati sono evidenti: quando la parabiosi era eterocronica (topo vecchio collegato a topo giovane) le regioni cerebrali coinvolte nella memoria tornavano a nuova vita riacquistando i segni della plasticità. Un effetto assente con il collegamento sincronico (topo vecchio collegato a topo vecchio).
Per spiegare questo effetto bisogna postulare l'esistenza di uno o più fattori ematici che dopo avere raggiunto in modo continuativo il cervello anziano hanno riatttivato le funzioni che si erano andate via spegnendo. Un dato che in ultima analisi, anche senza conoscere i fattori coinvolti, indica che l'invecchiamento cerebrale è reversibile e che potrebbe essere utile su soggetti altrimenti sani (chiaro che se esiste una patologia neurodegenerativa pregressa questo trattamento è verosimilmente inutile).
Per cercare di capire cosa sia cambiato nella funzionalità dell'ippocampo, gli autori hanno analizzato i profili istologici e di espressione genica delle regioni chiave sia nei parabionti isocroni che eterocroni (vecchio-giovane).
Da un punto di vista istologico quello che si nota è una aumenta presenza di spine dendritiche (quindi di sinapsi) nei parabionti eterocroni rispetto agli isocroni, in particolare nella zona nota come giro dentato. Il fatto che non si tratti di un effetto a tutto campo (quindi aspecifico) è provato dalla non variazione della densità denditrica in una regione adiacente, nota come CA1.
La suddivisione dell'ippocampo nel cervello umano. Da notare il giro dentato e la zona di controllo CA1 (©wikipedia)

Da un punto di vista genico i dati sono più complessi da riassumere. Diciamo che l'analisi trascrizionale ha di fatto confermato l'attivazione dei processi alla base della plasticità neuronale centrati intorno alla proteina Creb.


Molto c'è ancora da capire, ad esempio vorrei avere maggiori informazioni sui dati comportamentali del topi (ad esempio rimuovendo la parabiosi) ma per quanto letto i dati sono di sicuro stimolanti.

Articolo successivo sul tema --> QUI


Fonti
- Young blood reverses age-related impairments in cognitive function and synaptic plasticity in mice 
   Saul A. Villeda et al Nat. Med. 20, 659–663 (2014)
- Young Blood May Hold Key to Reversing Aging
 New York Times by Carl Zimmer, 4 maggio 2014


Ebola? Tra i rischi legati alle malattie importate, questo è quello meno preoccupante

Lo sbarco di Ebola in Europa? I problemi sanitari sono altri, molto più reali e causati da una totale mancanza di capacità preventiva.

Non è mai piacevole dire "era ovvio prevederlo". Prima di tutto perché si parla di vite umane e poi perché non serve a nulla. Quello che conta è che lo stato italiano in primis e l'Europa a seguire hanno totalmente mancato di attuare politiche preventive minimamente sensate. Di sicuro molti dei responsabili sanitari avevano per tempo lanciato l'allarme ma la classe politica è stata incapace di tradurre concretamente il messaggio in atti preventivi. Vuoi per la burocrazia, vuoi per la complessità decisionale e vuoi per il ben noto agire dei politici, il cui orizzonte temporale è limitato agli eventi associati alle successive elezioni.
Aggiungiamo una buona spolverata di politicamente corretto che imporrebbe, anche qualora fosse identificato un caso di peste bubbonica in una piazza di Milano, di definire il portatore come "diversamente non infetto" suggerendogli "per cortesia e, a suo comodo, di farsi ricoverare nel più vicino centro di malattie infettive".
Nota. E' di questi giorni l'assurda decisione di rimpatriare il corpo del missionario spagnolo deceduto a causa del virus Ebola che ha imposto un trasporto in Europa in una bara sigillata e con misure per gli operatori in stile protezione BL4 (massimo contenimento). PERCHE?!?!?! Un pietismo assolutamente fuori luogo che espone ad un rischio reale anche se minimo. Un incidente può sempre capitare e se avvenisse farebbe fare al virus un salto di diverse migliaia di km attraverso barriere naturali altrimenti insuperabili a causa della dinamica infettiva del virus. Le linee guida impongono qualora il virus debba essere trasportato (ad esempio per caratterizzarlo in laboratori attrezzati) che si provveda al trasporto di un campione e non di una intera salma. Il buon senso avrebbe imposto una immediata distruzione del corpo in loco. Questo è un esempio di un atto inutile che aumenta de facto un rischio altrimenti minimo.
Nota al 23/8. Il caso della italiana in arrivo dalla Nigeria e bloccata in Turchia a causa di sintomi "sospetti" è un esempio di quello che vuol dire una inefficace misura di contenimento. I controlli devono essere tali da impedire anche solo la possibilità di imbarco a casi sospetti e deve essere fortemente rafforzata per ogni volo proveniente dalle aree a rischio. Anche a costo di cancellare alcune rotte per il periodo di rischio. Se la diagnosi verrà confermata il rischio concreto è quello di avere moltiplicato per un fattore tra 2 e 300 (passeggeri ed equipaggio) il fattore di rischio. Cosa ancora più pericolosa se ad essi sia stato consentito di allontanarsi dall'area degli arrivi fino ad una più approfondita visita medica.
Non sto sovradimensionando i rischi legati alle malattie da importanzione. I motivi sono più che fondati e condivisi da larga parte della comunità scientifica. Non a caso ho denunciato più volte da queste pagine la follia totalmente ascientifica che sta prendendo piede in occidente della fuga dai vaccini; un fenomeno non irrilevante dato che trova terreno fertile nelle persone più sensibili alle pseudo-informazioni che dilagano sul web. Un conto è infatti riportare avvistamenti di Elvis nel proprio bar o dire che la missione Apollo non è mai esistita (in questi casi basta un buon psichiatra) un altro è dire non solo che i vaccini non servono ma che per di più sono la vera di causa di altre malattie.

Tornando al tema centrale di questo articolo, diversi sono i fattori che, in modo sinergico, sono diventati dei fattori di rischio mediaticamente meno interessanti dell'epidemia di Ebola ma molto molto più pericolosi. Vediamoli:
  • la diminuita vaccinazione aumenta di fatto il numero di persone sensibili a malattie assolutamente prevenibili;
  • tra queste il morbillo gioca un ruolo centrale dato che il virus è fortemente immunodepressivo. Di conseguenza ammalarsi di morbillo espone in automatico ad altri agenti microbici, i veri responsabili delle complicanze del morbillo. Come ben sapevano i nostri nonni e chi vive in paesi privi di presidi sanitari.
  • la vaccinazione permette di tutelare mediante la cosiddetta herd immunity anche coloro che per motivi di salute non possono essere vaccinati. L'epidemiologia ci insegna che ogni agente infettivo per diffondersi necessita di un bacino minimo di soggetti sensibili. La percentuale di copertura necessaria varia a seconda dell'agente in base alla infettività, al tasso di mutazione e alla esistenza di un serbatoio naturale del microbo, al di fuori dell'essere umano.
  • ho scritto più volte del problema della resistenza agli antibiotici (qui e tag antibiotici a destra). Un fenomeno, causato da un utilizzo non controllato degli stessi negli ultimi 50 anni. La costante diminuzione degli antibiotici utilizzabili riduce, de facto, le armi a disposizione per contrastare quelle che fino al secondo dopoguerra erano infezioni mortali o fortemente disabilitanti. Infezioni assolutamente comuni per chiunque. Per dirla in modo chiaro, in assenza di antibiotici anche una operazione chirurgica estremamente banale come la cura di un ascesso diventa una roulette russa.
  • sommiamo a tutto questo il fatto che i microbi non hanno bisogno del passaporto per migrare ed otteniamo qualcosa di già visto con la SARS. Una pandemia influenzale controllata a fatica e solo grazie al fatto che il virus non ha l'essere umano come bersaglio fisiologico. Senza rimandare a testi troppo tecnici date un occhio al resoconto di come la SARS riuscì in brevissimo tempo a diffondersi grazie ad un unico portatore, prima in un residence di Hong Kong e poi su un volo per Singapore insieme ad un assistente di volo (qui). Per un resoconto più specifico qui o la ricostruzione dell'OMS.
  • ora abbiamo un nuovo fattore di rischio che si innesta direttamente sui precedenti; il ritorno di malattie da tempo scomparse dal panorama europeo grazie a vaccini (ad esempio la poliomenite) o grazie al miglioramento delle condizioni sanitarie e alla disponibilità di antibiotici (tubercolosi). Un "ritorno" che ha preso in contropiede alcuni paesi europei (balcanici) dove la vigilanza stava scemando e il tasso di vaccinazione anti-polio e anti-tbc era in netto calo. In aggiunta a questo la  comparsa di ceppi multiresistenti agli antibiotici (alcuni ceppi di Mycobacterium tubercolosis sono resistenti a 7 antibiotici diversi) rende inutili gli inteventi terapeutici imponendo come un unica via la ospedalizzazione forzata per lungo tempo (come nei vecchi sanatori) dei malati. Il fatto che sia poi politicamente scorretto anche solo pensare che una persona di provenienza extra-europea sia, per ragioni endemiche, più a rischio di essere portare un dato microbo da noi scomparso, sta facendo il resto.
Questo ci dice anche che il problema di Ebola è tutto sommato trascurabile (da un punto di vista del rischio della salute pubblica europea NON della malattia in se) anche se deve essere attentamente monitorato seguendo nel dettaglio le rotte di diffusione.
Immagine in HD qui
Cerchiamo di capirci. Quando si intende "trascurabile" non vuol dire che non è pericoloso ma che, a causa di caratteristiche specifiche, il virus ha un raggio di diffusione molto limitato.
Per tre ragioni chiave:
  • incubazione e decorso rapidi;
  • non si conoscono portatori sani; 
  • i malati sono facilmente identificabili.
Il tempo di incubazione varia tra due e venti giorni, e i sintomi sono da subito evidenti e molto seri. Il virus rimane confinato in una zona molto ristretta. Per questo motivo i focolari di Ebola sono sempre stati sporadici e fortemente limitati a villaggi adiacenti alle foreste centroafricane dove il risiede il serbatoio naturale del virus in animali altrimenti sani.
Nota. Ci sarebbe molto da scrivere riguardo il rapporto virus-ospite. Semplifichiamo il tutto ricordando che il virus è letale o in grado di causare danni rilevanti e in breve solo quando infetta un ospite "evolutivamente nuovo", quindi per lui non congeniale. Il virus più efficiente (quindi quello selezionato) è quello che non uccide il suo ospite e che può quindi diventare una ottima fabbrica di virus. Il virus dell'Herpes è un esempio di virus perfettamente adattatosi all'essere umano mentre il virus dell'HIV lo è molto meno essendo solo recentemente (si stima che questo sia avvenuto nella prima metà del secolo scorso) mutato dal ceppo originario che infetta la scimmia, dove infatti causa per quanto detto sopra una malattia trascurabile. Il virus di Ebola ha come ospite naturale alcuni pipistrelli della frutta della famiglia Pteropodidae.

Chiaro che in un mondo globalizzato un pericolo prima assolutamente trascurabile viene ingigantito dalla possibilità che un infetto proveniente dalle zone a rischio prenda un aereo prima che compaiano i sintomi della malattia.

Quindi quando i telegiornali mostrano le procedure di controllo dei migranti per il terrore Ebola in realtà si sta vendendo una notizia prima di fondamento. Se ci fosse anche un solo malato non solo questo si sarebbe "rivelato" durante la traversata ma il luogo di partenza (in genere le coste intorno ad Alessandria d'Egitto) dovrebbe essere in piena epidemia.
Il vero problema è quindi NON l'azione di screening venduta dalla TV ma l'assenza di screening per quelle malattie croniche, infettive e non chiaramente visibili con un esame superficiale come appunto polio, tubercolosi etc.
Proprio perché il problema non è facilmente affrontabile, essendo la sommatoria di problemi cronicizzati nel tempo, è necessario che l'approccio sia ben pianificato.

Negli aeroporti ai tempi del rischio pandemia SARS erano stati attivati dei controlli della temperatura corporea di ciascun passeggero rilevata attraverso appositi scanner posti nei varchi di attraversamento delle aree partenze/arrivi. Grazie a questi strumenti fu possibile identificare, e mettere in quarantena, i soggetti febbricitanti evitando il contagio a catena, molto facile negli spazi angusti di un aeroplano. Controlli di sicuro non economici ma utili nel monitorare i passeggeri di voli da aree a rischio.
Sarebbe utile implementare controlli similari anche a coloro che, per ragioni forzate, hanno dovuto intrapprendere un duro percorso migratorio che li ha, inevitabilmente esposti, a patogeni di varia natura (a causa di condizioni igieniche, sovraffollamento, assenza di vaccinazioni e di presidi sanitari).
Prevenire è di sicuro più costoso che infilare la testa sotto la sabbia ma è l'unica cosa sensata per la tutela della salute pubblica. Lo svantaggio è che la notizia di Ebola si vende molto meglio.
Nota. Su Ebola vi consiglio di accedere direttamente a fonti validate e non ai media generalisti. Tra tutti quello del World Health Organization (qui).
Per chi è più addentro alle tematiche e non ha problemi con l'inglese parlato, non posso che consigliare l'ascolto di "this week in virology", un podcast settimanale tenuto da un mi "vecchio" professore di virologia alla Columbia University (NYcity) --> mp3 (saltate direttamente al minuto 15. Un articolo sulle stesse tematiche è disponibile qui.


 Per il pericolo polio e tubercolosi vi rimando all'articolo che avevo scritto lo scorso novembre (Polio e TBC: quando il passato minaccia di ritornare) e ai link in esso contenuti. Può essere anche utile la lettura dell'articolo pubblicato nell'area news della Washington University, dal titolo"Health Digest: Ebola outbreak, HIV persistence, kids’ sleep routines".



(articolo successivo sul tema Ebola ---> QUI)

Internet e il cervello dei giovanissimi. Nessun evidenza di effetti a lungo termine

Una delle attività preferite dai genitori meglio intenzionati è rimbrottare i figli circa il tempo passato al computer (internet, giochi, social, studio, etc) con una frase che nel migliore dei casi suona come "a furia di stare li ti brucerai il cervello". Poco importa che magari i genitori trascorrano il tempo libero davanti al televisore. 
Ho voluto tuttavia sottolineare "genitori meglio intenzionati", dato che è ovviamente molto peggio il caso opposto, quello di genitori che non si curano della qualità delle attività dei loro figli e il loro totale disinteresse per attività ludiche fuori dalle pareti di casa.
Sappiamo bene che tra le problematiche associate al passare troppo tempo davanti al computer (così come sui libri) vi sono difetti visivi, carente socialità nel mondo "reale" (i social non sono un sostituto delle interazioni reali !!) e, indirettamente, obesità, scarsa forma fisica e problemi di postura.
Sappiamo anche che quando spinta all'eccesso, la dipendenza da internet è una vera e propria malattia che impone terapie d'urto, come evidenziato dalla comparsa di corsi di disintossicazione dal web. Una piaga sempre più comune in Asia, tanto da avere spinto i governi a istituire campi in cui la rieducazione alla vita normale dei ragazzi passa attraverso molto sport e divieto assoluto di strumenti elettronici.

Mancavano tuttavia dei dati scientifici sulle paventate, specie dalle persone di una certa età, conseguenze a lungo termine dell'utilizzo quotidiano di una normale attività al computer (e del sempre più precoce incontro con il digitale) sulla plasticità cerebrale. I punti chiave sono riassumibili con:
  • la preoccupazione degli adulti per gli effetti delle nuove tecnologie sullo sviluppo del cervello, specie nelle tarda infanzia e durante l'adolescenza;
  • a seconda della modalità di utilizzo del computer, gli effetti sono anche molto diversi. Uno degli effetti ben noti a chiunque abbia giocato anche in modo moderato a Tetris è appunto l'effetto Tetris. Con questo termine si descrive la tendenza del giocatore, quando non gioca, a usare schemi mentali del gioco anche nel mondo reale: pensare ai modi di "impilare" oggetti reali, come le confezioni che vede sugli scaffali di un supermercato, o osservare gli edifici intorno come se fossero da impilare. C'è da dire che l'effetto Tetris è assolutamente reversibile ed ha trovato applicazioni terapeutiche come mezzo per ridurre i flash back post-traumatici.
  • studi precedenti sull'argomento, condotti con tecniche di neuroimaging, non sono stati risolutivi in quanto condotti su campioni non rappresentativi.
Lo studio ora pubblicato su Trends in Cognitive Sciences mostra che allo stato attuale non si può affermare che l'utilizzo di internet sia in grado di influenzare sensibilmente il normale sviluppo cerebrale. Forse potrà apparire strano che uno studio mostri un dato negativo ma questo è il meccanismo su cui si basa una qualunque indagine statistico-epidemiologicdue eventi si dicono "associati" solo quando sono correlati in modo maggiore di quanto si verifichi per puro caso. Se l'ipotesi "sono associati per puro caso" è falsa allora l'associazione è considerata ragionevolmente possibile.
Ricapitolando quanto qui discusso, non ci sono evidenze che l'esposizione precoce e continuativa (ma non ossessiva) al mondo digitale, alteri negativamente i circuiti cerebrali.

Saranno necessari studi più specifici sui giovani sulla falsariga di studi già condotti sugli adulti, volti ad esempio a monitorare l'apprendimento musicale con internet. Solo così si potrà avere un quadro d'insieme che permetta di massimizzare i vantaggi che questi strumenti oggettivamente forniscono, evitando però di cadere nelle trappole del "troppo e male".
Ricordiamoci infine che il cervello è un organo dotato di notevole plasticità, in grado di adattarsi a condizioni molto diverse pur di mantenere una efficienza ottimale. Se da una parte è importante diffidare di chi proclama la bontà della società pre-digitale (in cui io ricordo esistevano molti di esempi di "idioti analogici") dall'altra parte è sempre fondamentale usare il buon senso.
Siamo del resto solo all'inizio di una nuova era e non a caso è stata coniata per i giovani di oggi la definizione di "nativi digitali".

Fonte
- Effects of Internet use on the adolescent brain: despite popular claims, experimental evidence remains scarce
  Kathryn L. Mills, Trends in Cognitive Sciences (2014), Volume 18, Issue 8, p385–387
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