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Iniziato il conto alla rovescia per la sonda Cassini

Il momento è arrivato. 
La sonda Cassini ha iniziato ieri (26 aprile) il primo di una serie di "tuffi e risalite" (22 in totale) che la porterà oltre la zona più interna degli anelli di Saturno quasi a toccare la parte più esterna dell'atmosfera e che si concluderà in settembre con il salto definitivo "dentro" il pianeta (--> NASA).
La fase finale è iniziata con il transito di Cassini nei pressi della luna Titano, la cui gravità ha modificato la traiettoria della sonda spingendola verso il pianeta (vedi figura).
Durante le sue ultime orbite, la sonda Cassini passerà nella regione tra gli anelli e il pianeta, un'area mai esplorata prima (credit: saturn.jpl.nasa.gov)
Subito dopo avere iniziato la "caduta" i contatti sono stati persi per alcune ore. Un black-out previsto e voluto per proteggere la navetta nella fase più critica della manovra di avvicinamento, ma nondimeno fonte di ansia per i tecnici in attesa. Fortunatamente nella notte di giovedì la navetta ha inviato il segnale di "tutto ok" facendo tirare un sospiro di sollievo nella sala di controllo della NASA. Come detto, il black-out era previsto avendo la sonda assunto una posizione di sicurezza, orientando l'antenna paraboloide in avanti, come uno scudo, quindi di fatto inutilizzabile per le comunicazioni. Del resto quando si viaggia ad una velocità di circa 122 mila chilometri all'ora in una regione "pericolosa" come quella in prossimità degli anelli, l'impatto con un minuscolo detrito di ghiaccio o roccia avrebbe con ogni probabilità un effetto devastante per la strumentazione di bordo.

In arancione la zona in cui l'orbita di Cassini si è più avvicinata al pianeta. Inizia ora l'esplorazione della parte più interna, quella tra il pianeta e gli anelli interni

Cronistoria
La sonda Cassini (chiamata in onore dell'astronomo che nel 1675 identificò gli anelli di Saturno) ha iniziato il suo viaggio il 15 ottobre 1997 raggiungendo l'orbita di Saturno nel luglio 2004. Un percorso ovviamente non in linea retta ma spiraliforme pianificato in modo da ottenere dai pianeti la spinta verso l'esterno. In questo lungo viaggio Cassini ha intercettato due volte la Terra, una volta Venere e una volta Giove. La procedura ha permesso di minimizzare il peso della sonda, caricandola con solo 1/30 del carburante che sarebbe stato altrimenti necessario.
Video della traiettoria percorsa da Cassini

Una missione coronata da successo fin dagli esordi, con l'invio di una mole di dati impressionante su Saturno e le sue lune, rivelatesi piene di sorprese inattese come la probabile presenza di un oceano sotto la superficie di Encelado (articolo precedente --> "Acqua sotto Encelado").
Particolari dell'atmosfera di Saturno osservati da Cassini durante il suo primo "tuffo".
Credit: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute
La fase finale
Proprio prima di iniziare il tuffo, Cassini ci ha inviato una foto della Terra vista dall'interno degli anelli; una piccola "pallina" luminosa sullo sfondo nero dello spazio.

L'ultima immagine della Terra vista da Cassini
Finora la sonda ha mantenuto una orbita di sicurezza, intersecando solo l'anello denominato F (vedi figura sopra), minimizzando così il rischio di incontri sgraditi e concentrandosi sullo studio delle lune esterne. Ora con le ultime 22 orbite che compirà nei prossimi 5 mesi, Cassini si spingerà in una zona ben più interna, una regione mai esplorata prima. L'ultima orbita è prevista per il 15 settembre quando la sonda accenderà un'ultima volta i propulsori in modo da rimanere ad una data altitudine per 60", tempo necessario per inviare l'ultimo messaggio sulla Terra. Alle 10:44 (GMT) inizierà la discesa finale che la porterà a "schiantarsi" sul pianeta, una scelta motivata dalla necessità di rimuovere la sonda in modo "pulito".
Nota. "Schiantarsi" non è in effetti un verbo corretto dato che Saturno è un pianeta gassoso (forse dotato di un nucleo solido). Da un punto di vista teorica qualunque oggetto dovesse precipitare sul pianeta penetrerebbe attraverso strati di gas via via più densi (e caldi) fino ad essere accartocciato dalla pressione o distrutto dai venti fortissimi che possono raggiungere i 1800 km/h. In verità la sonda verrà distrutta molto prima, quando passerà il cosiddetto Limite di Roche, la distanza dal centro di un corpo celeste oltre la quale l'azione gravitazionale esercitata su un secondo corpo di massa molto minore, è dominante rispetto alle forze gravitazionali che tengono insieme il secondo corpo (in altre parole la gravità di Saturno "smembrerà" la sonda quando ancora nell'alta atmosfera (altri dettagli --> saturn.jpl.nasa.gov)
La scelta di terminare ora (e in questo modo) la missione è stata dettata dalla riduzione delle riserve di carburante e dalla volontà della NASA di evitare il rischio, facendola adagiare su una delle lune, di provocare una contaminazione biologica. Decisione comprensibile essendo in fase  di progettazione sonde che andranno ad esplorare le lune di Saturno allo scopo di verificare la presenza di vita sotto la loro superficie ghiacciata.
Cassini infatti  opera troppo lontano dal sole perché i pannelli solari abbiano una qualche utilità. La sua energia viene da un generatore termoelettrico a radioisotopo (RTG) basato sul decadimento radioattivo di una barra di 33 kg di plutonio-238. Sebbene il plutonio non sia ancora completamente esaurito, l'energia disponibile non sarà a breve sufficiente per mantenere l'orbita, date le dimensioni (quindi l'azione gravitazionale) di Saturno. 
Durante la caduta, Cassini terrà le antenne puntate verso la Terra, trasmettendo così i dati sulla composizione atmosferica e le immagini del suo passaggio attraverso le nuvole.




Tra i momenti chiave della missione di Cassini sono da menzionare:
  • Il rilascio della sonda Huygens, depositatasi sulla superficie di Titano il 14 gennaio 2005 (--> QUI il momento del touchdown).
  • La scoperta della presenza di acqua nel sottosuolo di Encelado, dimostrata dai "pennacchi" che eruttano periodicamente dalla sua superficie.
    I getti di acqua su Encelado
  • Dall'analisi di questi getti di acqua (che sublima immediatamente nello spazio) si è anche scoperta la presenza di idrogeno, dimostrazione della sua presenza nell'oceano sotterraneo. Si tratta di un dato di fondamentale interesse per gli esobiologi in quanto è indicativa della possibilità di sopravvivenza di eventuali microbi lì esistenti, grazie alla energia ricavabile chimicamente dalla combinazione dell'idrogeno con l'anidride carbonica disciolta nell'acqua. Questa reazione chimica, conosciuta come "metanogenesi" perché produce metano come sottoprodotto, è presente anche oggi sulla Terra (nei metanobatteri) ma cosa più importante è una delle vie metaboliche più antiche nell'albero della vita. Questo non vuol dire che su Encelado ci sia la vita, ma che ci sono gli elementi base affinché una qualche forma di vita (nella biologia che noi conosciamo) possa lì comparire.
Di qui a settembre ne vedremo delle belle ... speriamo (--> "Prosssima missione: Europa c/o Giove").

Seguite la missione sul sito della NASA --> "Where is Cassini now?"

***
 Prossima puntata --> "Ultimi giorni di Cassini"

***

Articoli correlati precedentemente apparsi sul blog
--> "La missione Rosetta"
--> "La missione New Horizon"
--> "Vesta e Ceres da vicino"
--> "Il successo di Blue Origin"

e in generale il tag --> "Astronomia". Ricordatevi che il 2017 è l'anno della Luna con molte missioni interessante di cui avevo anticipato qualcosa qualche tempo fa --> QUI.

La pastiglia "stellata" che permette un rilascio costante nel tempo

 Sviluppare il principio attivo di un farmaco è solo uno dei passaggi chiave prima di iniziare la lunga (e costosa) sperimentazione che porterà, nel 10% dei casi, all'approvazione del farmaco da parte degli enti regolatori (maggiori dettagli su --> "Sviluppo del farmaco e costi".
Tra le molte variabili di cui tenere conto il modo di somministrazione è fondamentale ed è una scelta dettata da farmacocinetica (PK) e farmacodinamica (PD), cioè dalle interazioni bidirezionali corpo-farmaco. Se ad esempio non si vuole che il principio attivo sia metabolizzato immediatamente dal fegato è bene evitare la somministrazione orale e procedere per via endovenosa, cutanea, inalatoria o altra via.

Sebbene PK e PD siano parametri chiave nel determinare la via di somministrazione, ve ne è un'altra che negli ultimi anni è diventata sempre più centrale, cioè scegliere la modalità che, a parità di efficacia, dia "meno fastidio" al paziente e non mi riferisco qui agli effetti collaterali che vengono monitorati e quantificati durante tutto il corso dello sviluppo. Mi riferisco invece alla scelta di una posologia "ottimale" (né troppo frequente, né fastidiosa) che minimizzi il rischio di una mancata aderenza del paziente al protocollo terapeutico prescritto (altrimenti nota come compliance).
Se da un lato è vero che una pastiglia è meno "fastidiosa" di una iniezione, è altresì importante che la pastiglia non sia troppo grossa (osservazione banale ma a volte impossibile da implementare a causa della natura del principio attivo e degli eccipienti che porterebbe la pastiglia ad avere dimensioni improponibili) e soprattutto che non sia necessario assumerla 5 volte al giorno perché sia mantenuta la concentrazione minima utile nel distretto corporeo di interesse. Un problema questo ancora più evidente quando il trattamento riguarda patologie croniche che quindi impongono una compliance costante nel tempo (leggasi anni).
Una scarsa compliance anche solo temporalmente limitata può non solo invalidare in toto il trattamento ma nel caso di trattamenti anti-microbici o anti-neoplastici è il modo "sicuro" per favorire la comparsa di ceppi (o cellule) resistenti a quel dato farmaco, con effetti soprattutto nel primo caso disastrosi a livello di popolazione (vedi la diffusione di batteri resistenti agli antibiotici conseguenza di un errato uso degli stessi negli ultimi decenni).
La ricerca farmaceutica cerca da tempo di affrontare il problema mediante nuove formulazioni di farmaco a lento rilascio utili per coprire intervalli di tempo più ampi e minimizzare la frequenza di assunzione. Un esempio di tale approccio lo si può osservare nel diabete insulino-dipendente, con la sperimentazione di farmaci da assumere una sola volta alla settimana (articoli precedenti sul tema, --> QUI e --> QUI).

All'interno di questo filone rientra il prodotto di cui tratto oggi, una "capsula" che una volta ingerita assumerà nello stomaco una forma stellata, rimanendo qui confinata dove continuerà a rilasciare il principio attivo fino al suo esaurimento.  La sua forma impedisce infatti il passaggio da stomaco ad intestino permettendo così di mantenere un rilascio costante nel tempo. Il prototipo è progettato per avere una "usura" controllata, consentendo il transito intestinale (e successiva eliminazione) solo dopo sufficiente usura.
Le aree colorate della stella sono sensibili al pH. In condizioni acide (pH 1,5 dello stomaco) rimangono integre mentre in ambiente neuro o leggermente basico (non appena entra nell'intestino tenue) si dissolvono facendo così perdere la struttura stellata (facilitando il suo transito). Credit: Bellinger et al.

Il prototipo, già testato negli animali per verificarne la sicurezza, nasce nell'ambito degli sforzi per debellare la malaria nei paesi in cui sarebbe impensabile garantire un rifornimento giornaliero di pillole e, cosa ancora più importante, impedire che l'assenza di compliance si traduca nella altrimenti certa comparsa di ceppi di plasmodio multiresistenti
 

L'articolo apparso sulla rivista Science Translational riporta una descrizione accurata del prodotto e i dati raccolti durante la sperimentazione. La capsula è rivestita di gelatina e una volta giunta nello stomaco si apre per assumere una conformazione a stella; la conformazione, oltre ad impedire il transito attraverso il piloro, permette di racchiudere grandi quantità di agente terapeutico. Il farmaco, intrappolato da un materiale biocompatibile come il policaprolattone è rilasciato in modo controllato mano a mano che l'ambiente acido dello stomaco dissolve l'involucro. Le giunture nelle braccia della stella sono invece costituite di materiale sensibile al pH basico, in grado quindi di dissolversi immediatamente nel caso (improbabile) che la stella riuscisse a passare il piloro e ad entrare nel duodeno prima di essersi consumata (creando potenziali problemi durante il transito intestinale).
I test di sicurezza sono stati condotti sui suini a cui sono state fornite le capsule di gelatina con il cibo. L'analisi con i raggi X ha permesso di monitorare la localizzazione delle "stelle" con il passare del tempo, associandola alla curva di rilascio del farmaco. Ogni capsula è in grado di resistere nello stomaco per circa 10 giorni, senza che vi siano indicazioni di lesioni della mucosa gastrica o segni di ostruzione gastrointestinale. Risultati positivi anche quelli riferiti al dosaggio sierico del principio attivo, risultato costante nel tempo.

I dati ottenuti permettono di ipotizzare un utilizzo clinico futuro di queste capsule, specialmente in quei casi in cui sia difficile (da fare o da far rispettare) assicurare una assunzione temporalmente corretta del farmaco.


Fonte
Oral, ultra–long-lasting drug delivery: Application toward malaria elimination goals
Andrew M. Bellinger et al, Science Translational Medicine  (2016) 8 (365)


Pianeti-oceano più probabili nei pressi delle nane rosse

Ho già affrontato in passato il tema dei pianeti-oceano (waterworld) in quanto pianeti di indubbia fascinazione data la loro specificità. E' bene ricordare che con il termine "pianeta-oceano" non si deve intendere un pianeta i cui continenti siano stati ricoperti dalle acque a seguito di qualche cambiamento climatico (come è il caso per il pianeta Terra nell'iconico film Waterworld) ma di un pianeta in cui sono presenti solo oceani profondissimi.
Immaginate di raccogliere tutta l'acqua
sulla Terra e rapportatela al pianeta. La
goccia più piccola rappresenta l'acqua
dolce.
(Credit: H. Perlman &  J. Cook)
L'esistenza di tali pianeti è desumibile dai valori di densità (e di spettrometria se disponibili) che quantificano l'acqua in valori superiori al 10 %  della massa totale; per confronto ricordo che l'acqua sulla Terra rappresenta un misero 0,02 % e che quindi vista da distanze  interstellari apparirebbe come un pianeta arido (sebbene l'acqua nel nostro  pianeta copra il 71 % della superficie, essa è presente solo sulla "buccia", scomparendo quasi totalmente già a partire dalle porzioni intermedie della crosta terrestre).
Vi rimando all'articolo precedente per una trattazione più completa --> "Superterre e pianeti oceano"
Torno sul tema in occasione della pubblicazione di un articolo sulla rivista "Astronomy and Astrophysics Letters" in cui si riportano i calcoli che indicano nelle nane rosse le stelle attorno alle quali è più probabile trovare questi pianeti. Dato che le nane rosse sono il tipo più comune di stelle nell'universo va da sé che i waterworld sono destinati a diventare più una realtà che una curiosità estemporanea mano a mano che il processo di identificazione e catalogazione degli esopianeti si arricchirà di nuovi pianeti (3472 gli esopianeti ad oggi confermati --> qui per i dati aggiornati).
Le nane rosse sono anche le stelle "preferite" come oggetti di studio per gli astronomi che si dedicano alla ricerca di esopianeti in quanto di lunga "vita" oltreché stabili, ideali quindi per massimizzare le probabilità che su uno dei pianeti orbitanti possa comparire la vita. I pianeti-oceano sono in realtà una incognita per il loro potenziale biologico; verosimilmente dotati di una atmosfera estremamente turbolenta mancherebbero anche delle condizioni base per la comparsa della vita (come le sorgenti idrotermali sul fondo di mari non troppo profondi).
Il lavoro è stato condotto all'università di Berna da Yann Alibert e Willy Benz, mediante simulazioni al computer sul tipo di pianeti compatibili con le specificità di queste stelle. I risultati indicano tra l'altro che che il raggio dei pianeti sarebbe tra 0,5-1,5 volte quella della Terra, con una distribuzione di frequenza normale; in altre parole i pianeti più frequenti avrebbero le dimensioni della Terra. Tuttavia più del 90% dei pianeti ricavati dalla simulazione sarebbero costituiti da almeno il 10% in massa di acqua, catalogabili a tutti gli effetti come pianeti-oceano.


Fonte
- Formation and composition of planets around very low mass stars
Y. Alibert and W. Benz, Astronomy and Astrophysics Letters 598(2017)

Il ragno che "suona" la sua tela ci indica i sensori del futuro

Ragnatele come chitarre della natura o più prosaicamente il controllo di integrità della tela fatto dal ragno pizzicandone i fili e producendo così "vibrazioni artistiche".

Non si tratta di una trovata dell'ufficio marketing di una major hollywoodiana in occasione dell'ennesimo reboot di Spiderman.
E' invece arte nel senso etimologico del termine: ars come mestiere, alias come modo per procacciarsi il cibo e vivere. Già molto è stato scritto sulle capacità ingegneristica dei ragni, evidente nelle tele strutturalmente perfette capaci di trasmettere le minime vibrazioni prodotte dalla preda catturata, al guardiano. Meno si sapeva sulla capacità dei ragni di testare attivamente l'integrità della tela e di percepire anomalie locali (come quelle causate da oggetti intrappolati ma immobili quindi non prede), identificarne la posizione e ripararle in tempi brevissimi.

Il "come" è semplice: come il pizzicare uno strumento a corda produce una risposta sonora che ne indica l'accordatura, così il ragno usa le vibrazioni da lui stesso create per avere informazioni sul suo strumento.
Questa la conclusione stupefacente che emerge dallo studio condotto dalla università di Oxford e pubblicato sulla rivista Advanced Materials.
Quando il ragno "pizzica" i fili della ragnatela come se fossero le corde di una chitarra,  le vibrazioni prodotte hanno una gamma di frequenze che veicolano al ragno informazioni molto precise sulla presenza di una preda, di un partner o di un avversario (e queste ultime tre tipologie spesso coincidono) oppure semplicemente su un danno strutturale.
La soluzione di usare la tela come estremità sensoriali per monitorare il territorio è quasi "obbligata" dato che i ragni non hanno una vista particolarmente sviluppata.
Per studiare il meccanismo di trasduzione del segnale i ricercatori hanno prima stimolato in vari modi i fili e poi hanno analizzato la frequenza delle vibrazioni prodotte grazie a macchine fotografiche ultra veloci e a misurazioni laser. Risultato, le oscillazioni di risposta rientravano in una serie di armoniche definite, da cui la comprensione dell'alfabeto vibrazionale che permette al ragno di capire se si tratta di un intruso, di un bocconcino o della necessità di fare manutenzione.
Ovviamente i ragni non hanno a disposizione una luce laser per monitorare micro-variazioni della tela. Molto più artigianalmente eseguono test sulla ragnatela creando onde trasversali (facendo su e giù sulla tela) e onde longitudinali (pizzicandone i fili).
Il sensore che permette loro di percepire le oscillazioni di risposta si trova sulle zampe.


Shira Gordon, una delle ricercatrici coinvolte, ha commentato "la capacità dei ragni di percepire minime variazioni nelle vibrazioni di risposta grazie a specifici organi posti su ognuna delle loro zampe, da una parte è incredibile ma dall'altra sottolinea ancora una volta le proprietà dei fili da loro tessuti: eccezionalmente robusti e in grado di trasferire informazioni grazie a micro-variazioni". Una proprietà che ben spiega l'interesse per questi risultati, al di la dell'interesse naturalistico; dietro l'angolo ci potrebbero essere sensori di nuovi generazione.

(Ti potrebbe anche interessare l'articolo "Spider-style sensor detects vibrations" - BBC)


Fonte
- The Speed of Sound in Silk: Linking Material Performance to Biological Function 
Beth Mortimer et al, Advanced Material (2014) Volume 26, Issue 30,  pp 5179–5183

Robo-api. Come risolvere il problema dell'autonomia energetica durante le missioni

In un precedente articolo (--> "Sviluppare mini droni studiando le api") ho raccontato del sempre maggiore interesse da parte degli ingegneri  per le soluzioni sviluppata dalla natura alle "necessità" di volo automatico negli insetti; lo scopo è ovviamente quello di implementare tali soluzioni nei mini droni per renderli capaci di volare in ambienti complessi.

credit: Graule et al.
Si tratta di un tassello fondamentale quello del volo autonomo, per massimizzare le potenzialità insite in questi "velivoli", di cui la componente ludica è solo la punta dell'iceberg delle sue possibilità (ma importante in quanto fornisce il ritorno economico per pagare la ricerca & sviluppo). Pensiamo in prospettiva a utilizzi come le missioni di monitoraggio in ambito militare o di polizia oppure alla pletora di utilizzi in campo ecologico o di sicurezza ambientale  (fughe di gas, monitoraggio remoto delle condizioni atmosferiche, ricerca di superstiti dopo crolli; ... ).


Se nell'articolo precedente il focus era "copiare" dalle api i meccanismi di feedback sensoriale per un volo "plastico", si affronta oggi un altro tema centrale (la miniaturizzazione della componentistica non è oggi un vero ostacolo), cioè la gestione del consumo di energia, vero vulnus per i dispositivi odierni. Dato che gran parte di queste missioni richiederebbe al drone di rimanere in aria per lunghi periodi, l'energia disponibile è a tutti gli effetti il vero fattore limitante soprattutto perché un drone piccolo può alloggiare una batteria proporzionalmente meno capiente.
Esempio classico è quello di un'auto elettrica che per raggiungere autonomie nell'ordine di un centinaio di chilometri deve essere equipaggiata con pesanti batterie. La maggior parte dei mini droni in commercio hanno autonomie di volo risibili rispetto alle potenzialità del loro utilizzo.
L'aiuto potrebbe venire ancora una volta dallo studio del mondo animale sfruttando la nota capacità degli insetti di aderire alle superfici più varie grazie all'interazione elettrostatica. Un "insetto-robot" con tali capacità potrebbe rimanere nell'ambiente in standby (magari ricaricandosi grazie a mini pannelli fotovoltaici) pronto per essere richiamato in volo quando necessario.
L'interazione elettrostatica è tra l'altro tecnicamente più semplice da implementare rispetto ad altre modalità usate nel mondo animale come quella "adesiva" o "ad artiglio" (usate da pipistrelli, alcuni pesci, lucertole e, su tutti, i gechi).

Studi in tal senso sono in corso presso l'Harvard Microrobotics Lab.
Gli ultimi risultati, pubblicati sulla prestigiosa rivista Science, mostrano mini droni capaci di aderire a materiali come vetro, legno o anche una semplice foglia, consumando fino a 1000 volte meno energia di quella usata durante il volo.
Per interagire con il supporto il RoboBee (la robo-ape) utilizza una sorta di mini elettrodo accoppiato  ad un gel a base di schiuma per assorbire gli urti. Il peso aggiuntivo per questo "upgrade" è di 13,4 mg sul totale di 100 mg, simile a quello di una vera ape. Durante la fase di "decollo" è sufficiente interrompere il circuito dell'elettrodo, il che consente una rapida e "facile" operatività su gran parte delle superfici naturali.

I risultati sono notevoli ma come dicono i ricercatori, il lavoro da fare è ancora molto. 
Per volare il robot sfrutta oggi una serie di telecamere esterne i cui dati sono poi elaborati da un computer; il vero volo autonomo si avrà  solo quando si riuscirà ad implementare nel RoboBee sensori e i processori capaci di un feedback immediato esattamente come avviene nelle api capaci di volare in modo "plastico" attraverso un fitto fogliamo e di individuare siti di atterraggio idonei senza "processamento" cerebrale. Questo permetterebbe al mini drone sia di entrare in modalità di risparmio energetico che di seguire autonomamente, ad esempio, tracce di un gas come il metano fino ad individuare la sorgente e a guidare le procedure di intervento.


video by Harvard Microrobotics Lab

Articoli precedenti sul tema
--> "Il robot che copia il movimento dai serpenti"
--> "Le frontiere della robotica"
--> "Bio-robot e chip per la memoria umana"
--> "Il DNA origami e i nanorobot"
--> "Nanorobot e cervello
--> "Dallo studio delle api un sistema di atterraggio per gli aerei"
--> "RoboBee. Un insetto robot capace di muoversi sia in aria che in acqua"


Fonte
- Perching and takeoff of a robotic insect on overhangs using switchable electrostatic adhesion 
Graule et al. (2016) SCIENCE 352:978


L'età del padre conta

Si è sempre pensato che l'età della madre fosse tra i parametri principali nella valutazione del rischio per la salute (mentale e fisica) del neonato. Un concetto questo suffragato sia da dati epidemiologici (ad esempio nella valutazione del rischio Sindrome di Down) che da ragioni oggettive: se da una parte la competizione esistente tra gli spermatozoi permette un minimo di selezione iniziale che rende molto improbabile la fecondazione ad opera dei gameti inefficienti, dall'altra l'oocita che arriva a maturazione è uno solo, quindi "vince" anche se difettoso.

Nel corso degli anni si sono tuttavia accumulati dati che mostrano come anche l'età paterna (oltre che il suo stile di vita) non sia irrilevante nel determinare il rischio di difetti nella progenie.
Uno studio del Georgetown University Medical Center dimostra ora che i difetti possono derivare non solo dalla presenza di mutazioni ma da qualcosa di più sottile come le alterazioni epigenetiche capaci anche esse di passare alle generazioni successive, sebbene non "sedimentate" - come avviene per le mutazioni - come una alterazione definitiva del codice.
L'epigenetica è lo studio delle modificazioni fenotipiche non dovute ad alterazioni del genotipo, alias della sequenza nucleotidica che definisce un gene o le aree regolatorie adiacenti. Si tratta di modificazioni a carico principalmente (ma non solo) delle proteine che compongono la cromatina, la forma dinamica in cui si trova il genoma all'interno della cellula e che permette al DNA di passare da una forma "aperta" (leggibile dal macchinario trascrizionale e regolatorio) e di natura "fibrosa", ad una forma chiusa estremamente compatta, ben evidente quando si guarda il cariotipo, l'immagine che immortala i cromosomi delle cellule immediatamente prima della divisione cellulare (mitosi). Le modificazioni epigenetiche sono di natura varia (metilazione, acetilazione, etc) e interessano sia il DNA che le proteine "rocchetto" (gli istoni) attorno a cui si organizza il DNA. E' importante sottolineare che tali alterazioni non sono il segno di uno stato patologico ma sono dei segnali regolatori cellulari che indicano alle cellule (a seconda dello stadio maturativo o di input ricevuti) quali sono le aree da "accendere" e quali da tenere spente, in altre parole l'accessibilità alla sequenza nucleotidica. Una trattazione a parte andrebbe fatta per tutte le modificazioni epigenetiche a carico dei diversi tipi di RNA, e che ne determinano la stabilità e funzionalità.
Poiché le cellule non vivono in un ambiente isolato ma sono esposte, sebbene filtrate, a molecole esogene si può capire come lo stile di vita (alimentazione, fumo, etc) abbia un effetto importante sulla funzionalità cellulare, attraverso la modifica dello stato epigenetico.
In tutto questo, l'effetto di una alterazione epigenetica può essere molto simile a quella di una mutazione per la sua capacità di modificare il comportamento cellulare, salvo per il fatto che è una alterazione reversibile. Alcune di queste alterazioni sono trasmesse alla progenie in quanto sfuggono al "ripristino", il processo durante la gametogenesi che cancella gran parte dello stato epigenetico, atto fondamentale per trasmettere l'informazione genetica e non le "cicatrici" esperienziali delle cellule.
Lo studio, pubblicato nel Journal of Stem Cells, conferma che lo stile di vita di entrambi i genitori può influenzare lo stato di salute della prole su base puramente epigenetica.
Non solo quindi l'ambiente materno (con il suo retroterra nutrizionale e ormonale, direttamente interlacciato allo stato psicologico) può influenzare lo sviluppo embrionale ma  anche lo stile di vita e l'età del padre. E questo vale non solo per la progenie "diretta" ma anche per le generazioni successive.
 In letteratura medica non sono rari i casi di neonati diagnosticati con sindrome alcolica fetale (FASD), sebbene le madri fossero astemie o poco inclini all'abuso di alcol. Si stima che fino al 75 per cento dei bambini con FASD siano figli di padri alcolisti, il che conferma come eventi avvenuti prima del concepimento, e di origine paterna, possano avere un effetto sulla prole.
L'analisi descritta nell'articolo è una meta-analisi, vale a dire un'analisi comparata degli studi epidemiologici già presenti in letteratura (ottenuti sia dalla clinica che dalle ricerca preclinica) con il risultato di dati statisticamente più forti e scientificamente più rigorosi.
Rimandandovi all'articolo originale per le metodologie analitiche usate, l'effetto epigenetico paterno è evidente nei seguenti casi:
  • l'età avanzata del padre si correla con tassi incrementali del rischio schizofrenia, autismo, e difetti di nascita nella prole;
  • una dieta bilanciata e a ridotto numero di calorie durante la pre-adolescenza porta alla riduzione del rischio di morte cardiovascolare nei figli e nipoti;
  • l'obesità paterna si correla alla presenza nei figli di adipociti di taglia maggiore, cambiamenti nella regolazione metabolica, diabete, obesità e perfino un maggior rischio di tumore al cervello;
  • lo stress psicosociale (traumi infantili, stress lavorativo, etc) del padre si associa ad anomalie comportamentali nella prole; 
  • l'abuso di alcol provoca una diminuzione del peso del neonato alla nascita e una ridotta dimensione e funzionalità cerebrale.
L'impatto dell'epigenetica paterna è stato in passato sottovalutato e dovrà, con il progredire delle conoscenze a riguardo, evolversi nella produzione di linee guida pre-concepimento (come avviene per la donna) allo scopo di minimizzare i fattori di rischio per la progenie.


Fonte
-   Review Finds Fathers’ Age, Lifestyle Associated With Birth Defects
Georgetown University / news
- Influence of paternal preconception exposures on their  offspring: through epigenetics to phenotype
Jonathan Day et al,  (2016) Am J Stem Cells, 5(1):11-18


***
A completamento di quanto sopra, cito alcuni dei dati noti sull'effetto dell'epigenetica (e quindi dell'ambiente in senso generale) su una o più generazioni successive a quella del soggetto esposto:
Eredità materna
  • L'abuso di alcol provoca la sindrome alcolica fetale, a causa di una diminuita attività metilasica e conseguente ipometilazione del DNA fetale, che provoca una alterata espressione dei geni durante lo sviluppo
  • nei topi le preferenze alimentari delle madri possono essere trasmesse alla prole attraverso il latte materno.
  • Il grado di cure parentali (materne) nei topi ha un effetto diretto sullo stato di metilazione della citosina e a cascata sull'espressione genica nelle cellule cerebrali della prole. In altre parole la qualità delle cure materne ha un impatto sulla futura capacità della progenie di allevare la propria prole, propagando così l'effetto di generazione in generazione. Uno studio simile condotto sui ratti, mostra che i piccoli trascurati hanno una maggiore metilazione nel promotore del gene codificante per il recettore dei glucocorticoidi. Negli esseri umani si osserva un fenomeno nel gene suddetto nel caso di persone abusate da bambini e suicidatesi in età adulta.
  • Un gran numero di studi dimostra che l'ambiente (stress e dieta - anche qualitativa) ha un effetto sia sullo stato di salute "attuale" che su quello della prole.

Eredità paterna
Sebbene da un punto di vista "informativo" vi sia, nelle fasi immediatamente successive alla fecondazione, una netta dominanza materna (gli mRNA paterni sono degradati subito dopo l'entrata nell'oocita e, dato il grado di compattezza del genoma spermatico, bisogna attendere alcune divisioni cellulari prima che i geni paterni vengano nuovamente trascritti "a sufficienza") vi sono altri fattori che possono avere un effetto "immediato".
Ad esempio ogni evento che provochi una ridotta funzionalità spermatica (motilità, etc) può modificare il "dove" avviene la fecondazione nell'apparato genitale femminile. Ma la componente cellulare è solo uno dei fattori in causa data l'importanza del liquido seminale (la sua composizione che a sua volta è alterata dalla dieta) per la funzionalità spermatica. Studi condotti su vari modelli animali hanno inoltre mostrato come la composizione del liquido seminale possa avere un impatto sia sul comportamento post-copulatorio femminile (infiammazione uterina, sintesi di progesterone, ...) che sulla cinetica di sviluppo embrionale.
Tra i fatti noti:
  • studi condotti sulla popolazione olandese e nello specifico sui discendenti di coloro che sono nati nel periodo della grande carestia del 1944, hanno evidenziato l'esistenza di un effetto sulla loro discendenza a 50 anni di distanza, con un legame tra assenza di cibo nei nonni paterni e la frequenza di obesità e malattie cardiovascolari comparse in età adulta nelle due generazioni successive (--> The Dutch Famine Birth Cohort Study).
  • I topi maschi cresciuti con una dieta a basso contenuto di proteine generano una prole con ridotta produzione di colesterolo epatico.
  • L'iniezione in una cellula uovo fecondata di RNA non codificanti prelevati da spermatozoi di maschi (diversi dai padri) allevati con una dieta ad alto contenuto di grassi, provocava nella progenie adulta una aumentata frequenza di patologie metaboliche.


L'olfatto. Un senso sottoutilizzato nell'essere umano

L'olfatto umano è molto più sviluppato di quanto finora ipotizzato
Il naso umano può distinguere almeno 1 trilione di odori differenti, un valore ben superiore al valore finora ipotizzato di 10 mila odori. Una stima minimalista, quella precedente, ma ragionevole se si considera che durante l'evoluzione e il progressivo affrancamento dalla vita "brada" è anche venuta a mancare la pressione selettiva per un olfatto efficiente, centrale invece per molti animali.

La nuova stima, presentata in uno studio pubblicato su Science, è quindi molto interessante e mette in luce potenzialità inespresse del nostro corpo, sempre più anestetizzato in un mondo in cui l'odore "naturale" è un tabù da coprire con fragranze.
Come è stato possibile ottenere un valore così incredibilmente alto? Ovviamente il dato è inferito da numeri campionari più piccoli ma ottenuti nell'ambito di test statisticamente affidabili.
(© wikipedia / G. Brodsky e N. Sobel )
In breve, Andreas Keller, autore del lavoro e ricercatore alla Rockefeller University di New York, ha preparato miscele costituite ciascuna da 10, 20 o 30 composti selezionati da una collezione di 128 molecole "odorose". E' stato quindi chiesto ai 26 partecipanti allo studio di identificare quale miscela, all'interno di un set di tre miscele di cui due uguali, fosse diversa. Uno dei primi dati emersi è che quando le due miscele da confrontare avevano almeno il 51% di identità nei componenti, la maggior parte dei soggetti aveva difficoltà a notare la differenza tra le due.
Calcolando il numero di miscele possibili creabili dal set di odori a disposizione e tali da avere meno del 51% di identità, si è ottenuta la stima di mille miliari di "odori" che un naso umano medio può teoricamente percepire (NdB. Il significato di trilione è diverso nei paesi anglosassoni rispetto all'Italia).

Schema sistema olfattivo (©wikipedia /
B. Auffarth, B. Kaplan, A. Lansner)
Donald Wilson, ricercatore presso la School of Medicine della New York University, dice che i risultati sono interessanti e che questo potrebbe aiutare a svelare il meccanismo di come cervello e naso collaborino nell'elaborazione della percezione olfattiva. La sua idea è che da un punto di vista meccanicistico (l'hardware) le informazioni siano già presenti; quello che manca è un set di istruzioni (software) che aiuti il cervello ad elaborare al massimo le informazioni veicolate dalle vie nervose che partono dall'epitelio nasale (vedi qui per un riassunto sul sistema olfattivo).

Il naso umano, o meglio le cellule specializzate dell'epitelio nasale, è dotato di circa 400 tipi di recettori olfattivi le cui informazioni sono codificate da un numero doppio di geni, circa 853 geni (pari al 3% dei geni totali) in quanto la metà di essi sono pseudogeni cioè geni non più funzionanti. Il numero totale di recettori nell'epitelio nasale è pari a circa 6 milioni. Il confronto con altri mammiferi mostra immediatamente quanto il "peso" dell'olfatto nell'evoluzione della nostra specie sia stato inferiore rispetto a quello di altri sensi: i topi hanno circa 900 geni funzionanti per i recettori; i cani ne hanno qualcuno in meno ma, grazie alla variabilità permessa dallo splicing trascrizionale, sono possiedeono un numero complessivo di recettori olfattivi ugualemente elevato. Il bloodhound, giusto per fare un esempio, possiede circa 300 milioni di recettori olfattivi.

Bloodhound (©wikipedia)
Il cane è in effetti un animale che ha "investito molto", evolutivamente parlando, sull'olfatto come ben si vede dall'estensione delle aree cerebrali dedicate alla identificazione degli odori, un'area 40 volte superiore a quella che presente nell'essere umano.
Risultato, i cani hanno una sensibilità agli odori tra mille e diecimila volte migliore (a seconda della razza) della nostra. Questi numeri ci fanno capire la ricchezza percettiva del cane, la cui "realtà" è arricchita dalle sfumature odorifere con risultati per noi difficilmente immaginabili; una ricchezza sensoriale che potremmo paragonare alla differenza tra la vista di un essere umano allo stesso tempo miope e daltonico, e un normovedente.

Questo non vuol dire che noi siamo olfattivamente ciechi ma semplicemente perdiamo molte informazioni ambientali.
Per fare un esempio della vita di tutti i giorni pensiamo all'effetto che l'aroma della moka induce quando le molecole colpiscono il nostro epitelio nasale e da li innescano tutta una serie di risposte neurali che ci spingono in direzione della caffettiera. O ancora all'immediata azione repulsiva che composti derivanti dalla degradazione di composti organici inducono su di noi. Ipotizziamo ora che il numero di stimoli odorosi in grado di fornire una qualche informazioni sia di molto superiore e, forse, potremmo avere una idea della nostra "cecità olfattiva"
Da un punto di vista scientifico siamo ancora indietro rispetto alla conoscenza dei meccanismi cerebrali innescati da un "odore". Mentre sappiamo molto bene cosa succede quando una molecola colpisce il recettore specifico e come questo attivi una serie di eventi che si traducono nel "firing" neuronale, ben poco si sa di come l'insieme degli input nervosi che dall'epitelio afferisce al cervello, venga analizzato e produca risposte comportamentali o associazioni mnemoniche legate a "stimolazioni" passate (un odore può attivare emozioni riconducibili, ad esempio, alle nostre esperienze di bambini).
Il segnale olfattivo, dalla ricezione alla elaborazione "conscia" passa attraverso una serie di stazioni. Una delle più comuni è un odore che evoca un ricordo, fenomeno in cui gioca un ruolo chiave la corteccia entorinale e l'ippocampo. La relazione tra amigdala e olfatto ricade nel processo di apprendimento associativo e risposta emotiva, cioè in tutti i casi in cui si associa un odore a qualcosa di spiacevole o piacevole (e con esso emozioni) che guida risposte istintive da parte dell'organismo. In questo modo la brezza marina o l'odore di una torta di mele potrebbero farci ricordare le emozioni provate in passato. La componente edonistica del cibo trova invece il suo epicentro nei messaggi che dalla corteccia piriforme arrivano alla corteccia prefrontale.
(Image credit: Neuroscience (ed. 2012) by Dale Purves et al)


Non è nemmeno ben chiaro se ai fini della ricchezza percettiva sia più importante il numero di geni, il numero di recettori o il processamento corticale. Gli elefanti ad esempio hanno quasi il doppio di geni per i recettori (e mi riferisco ai geni funzionanti e non agli pseudogeni) di quelli posseduti da un cane eppure non c'è alcuna evidenza che l'olfatto di un elefante (di sicuro molto importante) sia migliore di quella di un segugio.

© 2014 Yoshihito Niimura / Tokyo University


Una delle difficoltà procedurali nel catalogare la ricchezza percettiva (e quindi nel definire l'estensione della gamma di odori) è come raggruppare gli odori entro categorie definite; a differenza di suono o vista, l'olfatto non segue una scala continua che permetta di distinguere inequivocabilmente i diversi elementi. Con un tale limite intrinseco diventa difficile avere un quadro percettivo preciso come quello fornito dalla scala dei colori o da radiazioni elettromagnetiche per noi invisibili ma perfettamente visibile per altri animali, come avviene per l'infrarosso (vedi qui).
Per il momento dobbiamo accontentarci dei nuovi risultati che mettono in evidenza una ricchezza sensoriale che non sapevamo di possedere.

Un altro aspetto interessante che dovrà essere attentamente studiato riguarda le anomalie patologiche dell'olfatto, siano esse congenite o conseguenti a traumi, malattie o all'uso di medicinali. 
E' noto che i soggetti schizofrenici, depressi, le persone che soffrono di emicrania e gli anoressici, hanno disfunzioni olfattive di grado variabile. In alcuni casi gli integratori a base di zinco si sono rivelati utili per migliorare queste sintomatologie.
Vale infine la pena sfatare una vecchia leggenda metropolitana che vedeva nella compensazione sensoriale un fatto "ovvio"
Uno studio recente ha dimostrato che persone con normale visione erano in grado, dopo un periodo di formazione mirato, di ottenere una capacità di percezione olfattiva molto maggiore di quella presente in persone ipo- o nullo-vedenti. In altre parole una minore o assente capacità visiva NON si associa per sé ad una maggiore acutezza olfattiva!


Fonti
- The human nose can distinguish at least 1 trillion different odours, a resolution orders of magnitude beyond the previous estimate of just 10,000 scents
 C. Bushdid et al. (2014) Science 343, 1370–1372

- Human nose can detect 1 trillion odours
 Nature (2014)

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