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Il fruttosio agisce sul cervello favorendo una alimentazione eccessiva

Ho trattato in passato il tema controverso del fruttosio. Controverso perchè se da una parte l'essere il fruttosio lo zucchero più abbondante della frutta e del miele lo ha di fatto semplicisticamente associato alle proprietà della frutta, dall'altro è da tempo sotto la lente d'ingrandimento dei ricercatori che lo additano a principale responsabile dell'obesità e delle malattie correlate.
Facciamo un passo indietro e riassumiamo alcuni concetti base.
  • Il fruttosio è insieme al glucosio il monosaccaride più "usato" dal nostro organismo.
  • Mentre il glucosio è spesso inglobato in molecole a diverso grado di complessità (ad esempio nel saccarosio, amido, glicogeno, etc) e quindi deve essere reso disponibile per scissione enzimatica, il fruttosio è pronto per essere usato.
  • Il fruttosio grazie al suo elevato potere dolcificante è ampiamente usato nella industria alimentare  (sotto forma di High Fructose Corn Syrup). E' inoltre uno zucchero "di moda" (lo potete vedere spesso sui banconi dei bar) visto il minore apporto calorico e il minore indice glicemico. 
L'insieme di questi fattori ha determinato una impennata dei consumi negli ultimi anni, soprattutto in USA, con conseguenze rilevanti sulla percentuale di obesi nella popolazione.
Alcuni dati recenti aiutano a comprendere come e perchè l'organismo "percepisca" in modo diverso il glucosio e il fruttosio. Elementi questi che come vedremo hanno diretta influenza sull'aumento di peso.
L'articolo a cui farò riferimento oggi è stato pubblicato sul Journal of American Medical Association da una equipe della Yale School of Medicine. Il dato centrale del lavoro è che mentre il glucosio inibisce l'attività cerebrale delle regioni coinvolte nel desiderio di cibo, il fruttosio è meno "bravo" in questo processo. In termini semplici il primo rende sazi più facilmente del secondo.

Robert Sherwin, uno degli autori, ha analizzato mediante la tecnica non invasiva della risonanza magnetica funzionale, il cervello di volontari sani non obesi allo scopo di valutare i cambiamenti nel flusso sanguigno cerebrale in seguito all'ingestione di  glucosio o fruttosio. Da queste analisi è emerso che mentre il glucosio diminuiva il flusso sanguigno nelle regioni cerebrali deputate alla regolazione dell'appetito, il fruttosio non aveva effetti rilevanti. Stesso dicasi per la regolazione della sensazione di soddisfazione e di sazietà.
Entrando un poco più nello specifico, il glucosio riduce l'attivazione dell'ipotalamo, della insula e dello striato, regioni queste coinvolte nella regolazione dell'appetito, della motivazione e nei meccanismi di reward (appagamento/ricompensa). L'aumento dei livelli di glucosio ematico attiva le connessioni ipotalamo-striatali, generando gli effetti prima citati.

Una dieta ricca di fruttosio (soprattutto in forma "libera" cioè privo dei molteplici nutrienti presenti nella frutta) favorisce una maggiore ingestione di calorie a causa del ridotto senso di sazietà indotta. Un processo che in qualche sembra anche favorire il fenomeno della l'insulino-resistenza; una condizione tipica del diabete di tipo II.

Altri articoli nel blog sul tema fruttosio, qui e qui.
Potrebbero anche interessarti articoli su "dieta del gruppo sanguigno" e sui difetti della correlazione "dieta ipocalorica e longevità".

Fonti
- Study suggests effect of fructose on brain may promote overeating
  Yale University, news

- Effects of Fructose vs Glucose on Regional Cerebral Blood Flow in Brain Regions Involved With   Appetite and Reward Pathways
 K.A. Page et al, JAMA. 2013;309(1):63-70


***aggiornamento gennaio 2016***

Uno studio condotto su ratti pubblicato da un team della UCLA evidenzia che una dieta ricca di fruttosio rende problematico il recupero cognitivo successivo a traumi cranici.

Fonte
- Dietary fructose aggravates the pathobiology of traumatic brain injury by influencing energy homeostasis and plasticity
R. Agrawal et al, J Cereb Blood Flow Metab, (2015) 






Le api e la perfezione delle celle esagonali. Mistero risolto

Risolto il mistero delle perfette celle esagonali dei favi negli alveari delle api
Il mistero della forma esagonale delle celle dell'alveare (da cui il nome "a nido d'ape") ha suscitato nel corso dei secoli un misto di ammirazione e di reverenza in filosofi e naturalisti. Uno schema quello esagonale che non è casuale; è infatti la forma geometrica che, dato un certo spazio, ottimizza il numero di celle possibili aventi dimensioni adeguate alla funzione.
Celle con uova e larve
(credit: Waugsberg via wikimedia)
Fra le tante spiegazioni proposte una delle prime pervenute è quella del matematico Pappo di Alessandria (4 d.c.) che ipotizzava una capacità innata delle api di eseguire calcoli matematici o in alternativa una qualche dote "magica" che permettesse loro di misurare lunghezze e angoli.
Una esagerazione? Mica tanto. Basta andare con la mente ai tempi delle medie per ricordarsi che il disegno di un esagono regolare necessita di compasso e righello (vedi qui). Strumenti che ovviamente le preziosissime e stupefacenti (sotto molti aspetti) api non usano quotidianamente.

Deciso a risolvere una volte per tutte questo interessante enigma naturale, il professor Bhushan Karihaloo della Cardiff University of Engineering si è cimentato nella sfida. Sfida vinta con la pubblicazione dei dati su una rivista della Royal Society.
Afferma in proposito Karihaloo "in passato sono state fornite alcune incredibili spiegazioni, alcune di tipo esoterico. La realtà è molto più semplice".
Strati opposti di celle si incastrano perfettamente (vedi anche sciencefriday.com)

In sintesi, si è scoperto che le celle all'inizio sono circolari e diventano esagonali solo in seguito al passaggio del flusso di cera. Una ipotesi che, è bene dirlo, era stata proposta già da Darwin ma senza prove documentali a supporto. 
Più dettaglio la cera viene mantenuta in uno stato semi-fuso grazie al calore generato da api operaie specializzate. Quando la temperatura raggiunge circa i 45 °C, la cera inizia a fluire lentamente e si dispone spontaneamente a formare strutture esagonali per motivi legati alla tensione superficiale agente sulle giunzioni di incontro che formano il favo.
a) cella in origine e b) dopo due giorni (®B. Karihaloo et al)
Risolto il mistero rimane "l'ammirazione e lo stupore", per usare le parole di Karihaloo, "per il lavoro delle api nel riscaldare, impastare e assottigliare la cera esattamente nei punti dove c'è bisogno".
Non si può che condividere tale ammirazione per i meccanismi evolutivi che selezionano "comportamenti utili"

Fonti
Secrets of bee honeycombs revealed
Cardiff University, news center
- Honeybee combs: how the circular cells transform into rounded hexagons
 J. R. Soc. Interface, 6 September 2013 vol. 10 no. 86 20130299

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Un pianeta blu nella costellazione della Volpetta

Un mondo blu che orbita intorno ad una stella lontana è il primo pianeta extrasolare il cui colore è stato rilevato direttamente e non ipotizzato in base a parametri terzi.
Il pianeta HD 189733 b, identificato nel 2005, è uno degli esopianeti più studiati. Orbita attorno ad una stella della costellazione della Volpetta (Vulpecula), posta a circa 19 parsec dalla Terra. Per confronto consideriamo che Alpha Centauri si trova a 1,34 parsec.

Lo scorso dicembre il team dell'astrofisico Tom Evans della università di Oxford ha sfruttato il telescopio spaziale Hubble per cercare di osservare il pianeta e la stella. Un tentativo in realtà senza grosse possibilità di successo visto che la risoluzione ottica di Hubble non consente, a tali distanze, di distinguere la stella dal pianeta. L'immagine catturabile è di conseguenza una fusione dei due corpi.

Per cercare di campionare questa "immagine mixata" Evans ha atteso che il pianeta orbitasse "dietro" la stella; in tal modo l'immagine catturata da Hubble sarebbe stata privata della componente planetaria.

Come apparirebbe il sole visto dalla stella HD 189733
(credit: space.com)
 Dalla analisi dello spettro luminoso catturato prima e dopo si è così capito che, visto che la componente che mancava era quella blu, l'immagine che noi potremmo percepire se fossimo più vicini sarebbe quella di un pianeta blu. I dati sono stati pubblicati su Astrophysical Journal Letters.

"É la prima volta che questo approccio viene usato per la luce visibile" afferma Alan Boss, della Carnegie Institution for Science di Washington. Nonostante la apperente semplicità "la tecnica impone un tour de force tecnico non indifferente".
Non gli si può dare torto. La quantità di luce visibile che rimbalza su un pianeta è piccola se paragonata alla superficie stellare e questo rende i pianeti difficili da osservare. Fortunatamente, il pianeta HD 189733 b non è di tipo terrestre in quanto a dimensioni, e questo ha reso l'analisi fattibile.
Nonostante il colore sia evocativo di un pianeta marino, è meno che improbabile che sul pianeta ci sia acqua allo stato liquido. Molto più probabile che si tratti di una gigantesca palla di gas come Giove. Del resto lo stesso Nettuno appare bluastro (da qui il nome della divinità associata al mare), un colore dovuto alla elevata presenza di metano nell'atmosfera.
Nel caso di HD 189733 b gli astronomi ipotizzano che il colore sia dovuto a nubi cariche di particelle riflettenti di natura silicea (come a dire gocce di vetro fuso) poste nella atmosfera medio-bassa. Se infatti tali nubi fossero localizzate nella parte esterna dell'atmosfera la luce stellare verrebbe semplicemente riflessa generando l'immagine di un pianeta bianco. Secondo Evans il passaggio della luce attraverso uno strato di sodio, che assorbe molto bene la luce rossa, farebbe si che la luce riflessa (privata della componente rossa) appaia blu. 
Questa è tuttavia solo una delle spiegazioni possibili. Secondo Jonathan Fortney della University of California Santa Cruz, "il colore del pianeta è [invece] coerente con l'idea che la dispersione della luce nell'atmosfera sia causata da molecole di idrogeno".
Comunque sia, è bello sapere di essere stati in grado di osservare un pianeta blu a tale distanza.

(vedi tag a lato "esopianeti" per altre notizie sull'argomento)

Fonti
- First distant planet to be seen in colour is blue
  Nature 2013.13376 (doi:10.1038)
- The Deep Blue Color of HD 189733b (...)

La crescita della popolazione mondiale in un video

Il video che allego è un ottimo spunto di riflessione sulle problematiche legate all'aumento della popolazione.
 
Visualizing How a Population Reaches 7 Billion from NPR on Vimeo.

Potrà forse sembrare un argomento off-topic rispetto ai temi scientifici trattati in questo blog. In realtà è direttamente collegato alla scienza per una serie di motivi:
  1. il miglioramento delle condizioni di vita e la disponibilità di tecnologie sia in ambito medico che agricolo (un processo esploso negli ultimi 100 anni) ha di fatto ridotto i meccanismi intrinseci di controllo normalmente operanti in ogni popolazione naturale.
  2. L'aumento della età media nella popolazione occidentale (e la negazione operata da alcuni come Veronesi della liceità stessa dell'invecchiamento, trattato alla stregua di una malattia da eliminare) ha un forte impatto, come vediamo oggi, sullo stato sociale. Un aumento della vita media che non si riflette in un miglioramento della qualità di vita. Anzi, paradossalmente più a lungo si vive maggiore è la possibilità di sviluppare malattie come la demenza. In Europa si stima che il morbo di Alzheimer rappresenti il 54% del totale delle forme di demenza con una prevalenza (casi totali) nella popolazione over-65 intorno al 4,4%. Un valore che sale fino al 24% per gli over-90. Il che sommato al totale delle forme di demenza fa si che circa 1 persona su 2 di una certa età non sia più in grado di rapportarsi con l'ambiente circostante.
  3. Seppure limitati e a bassa penetrazione, l'azione combinata degli aiuti in cibo e medicine fornito da onlus et al ha portato ad un aumento della popolazione indigente nelle regioni che, per motivi geografici, non possono sopportare un aumento della popolazione. L'effetto paradossale è che un relativamente modesto (per noi) miglioramento nell'accesso alle risorse si è tramutato in un aumento vertiginoso della popolazione in aree non di grado di sostenere tale aumento. Un aumento che ha di fatto causato carestie disastrose sconosciute in quelle aree anche solo 100 anni fa. Una popolazione dedita alla pastorizia o alla agricoltura di sussistenza è compatibile con un ambiente semidesertico dato che è in equilibrio con le risorse locali. Una volta rotto l'equlibrio l'impatto è umanamente tragico.
  4. L'aumento di una qualsiasi popolazione in natura è possibile finchè non viene raggiunto un punto critico nell'utilizzo delle risorse che induce arresto e regressione fino a raggiungere un nuovo equilibrio. In ambito umano un incremento di popolazione per essere sostenibile necessita di produzione alimentare locale adeguata e, cosa spesso trascurata, di bonificare i sottoprodotti della colonizzazione umana. L'assenza di soluzioni adeguate introduce nuove variabili come la rapida diffusione di malattie infettive. A titolo di esempio vale la pena citare le condizioni di affollamento, non supportate da adeguate opere di smaltimento, della Londra tra il '650 e il '900. Oppure le condizioni critiche attuali di megalopoli come quelle indiane.
  5. Non posso non sottolineare inoltre alcune considerazioni prettamente genetiche legate alla natalità risultante da tecniche di inseminazione artificiale. In termini semplici, favorire la trasmissione del patrimonio genetico di individui a fertilità ridotta o assente  equivale ad arricchire nella popolazione la frequenza di alleli deleteri. Una situazione che, a cascata, aumenta il ricorso a tecniche di fertilizzazione.
La soluzione? Ovviamente non possiamo ipotizzare di non aiutare chi ne ha bisogno e/o di favorire il miglioramento delle condizioni di vita. Questo è alla base della nostra umanità.
Sarebbe forse necessario valutare i criteri di intervento e gli effetti a medio termine, prima di attivare campagne il cui effetto finale determina, in ultima analisi un aumento della povertà locale distruggendo le deboli economie locali e creando megalopoli. A meno che lo scopo non sia quello di creare gli enormi agglomerati suburbani osservabili in Kenya.

Implentare operazioni a tappeto di educazione al controllo delle nascite (l'educazione è il vero motore) nelle popolazioni che per una serie di motivi vivono in aree non in grado di garantire l'accesso alle risorse base, è un dovere verso quelle popolazioni. Popolazioni a cui si sono dati gli strumenti minimi per ridurre la tragedia della mortalità infantile senza che questo si traducesse in un miglioramento vero a causa dell'aumentato carico familiare. Insostenibile come vediamo per le comunità locali. Il Bangladesh è un esempio perfetto: una regione estremamente fertile ma con il non trascurabile problema di essere in zona monsonica; l'impatto della stagione delle piogge oggi è umanamente molto più pesante ora data l'elevatissima densità di popolazione rispetto a cent'anni fa quando l'equilibrio fra uomo e risorse disponibili era ottimale.

Il video giunge alla conclusione che il punto critico verrà raggiunto intorno al 2100. Anche ipotizzando la comparsa di sistemi di produzione alimentare innovativi, l'effetto sicuro sarà una devastazione dell'ambiente anche solo per la scomparsa delle aree di biodiversità. E noi facciamo parte della biosfera. L'amazzonia e gli spazi naturali dell'Africa (giusto per fare due esempi) non meritano di fare la fine delle foreste che ricoprivano l'Europa o della perduta flora/flauna della Cina centrale. 
In questo senso, la crescita incontrollata della popolazione è un problema che la scienza dovrà affrontare molto presto.

Epigenetica ed inattivazione del cromosoma X: un video riassuntivo

L'epigenetica copre un'area estremamente affascinante della ricerca scientifica il cui studio permette di comprendere i molteplici livelli alla base della regolazione genica. Livelli che non sono il semplice susseguirsi di geni e di elementi regolatori nel genoma ma sono invece profondamente intrecciati con l'ambiente circostante.
Scrivevo in un precedente articolo che l'epigenetica può essere considerata come un revival della teoria lamarckiana, aggiustata alle conoscenze attuali. Una sorta di neo-lamarckismo (vedi qui).

Sarebbe troppo riduttivo pretendere di esaurire in poche righe la vastità dell'argomento. Semplificando il tutto, l'epigenetica ci insegna che oltre all'informazione contenuta nel DNA, l'espressione genica (per tempi, modi ed entità) dipende dall'interazione continua fra DNA, RNA e proteine. Un intreccio che vede nella cromatina, nei suoi stati di compattamento differenziale e nei segnali che su di essa vengono impressi (sotto forma di metilazione, acetilazione, etc) il vero motore da cui origina la specificità cellulare. Un meccanismo così sofisticato che permette di generare, a partire da una informazione genetica identica in quanto condivisa, sia una cellula muscolare che un astrocita. 
Fra le definizioni migliori del termine epigenetica abbiamo 
  • Holliday ('90). "The study of the mechanisms of temporal and spatial control of gene activity during the development of complex organisms".
  • Riggs ('96). "The study of mitotically and/or meiotically heritable changes in gene function that cannot be explained by changes in DNA sequence".
Oppure traducendolo letteralmente "quello che sta sopra la genetica" (intesa come informazione basata sulla sequenza).

La conoscenza dei meccanismi epigenetici permette di affrontare tematica molto complesse come lo sviluppo di malattie in individui ugualmente predisposti (esempio classico quello di gemelli), il cancro ma anche la modalità con cui gli stress ambientali (alcol, droghe, inquinamento, stress psicologici) vengono registrati nella cromatina e li rimangono per un tempo indefinito anche una volta cessato l'evento stressogeno. Molti sono gli articoli presenti in letteratura scientifica a tal riguardo (vedi anche un mio post precedente).
Lo studio delle modificazioni epigenetiche permette anche di affrontare l'argomento del controllo del dosaggio dei geni localizzati sui cromosomi sessuali. Il problema cardine che l'evoluzione si è trovata ad affrontare con il differenziamento dei cromosomi sessuali è come gestire la presenza di una sola copia di geni in un sesso (ad esempio i mammiferi maschi hanno una sola copia dei geni presenti sul cromosoma X). Se questo può apparire un problema minimo val la pena ricordare che la monosomia anche di un solo cromosoma non è compatibile con la vita nei mammiferi e all'opposto i danni che la trisomia di un piccolo cromosoma come il 21 induce (sindrome di Down). Solo poche trisomie sono compatibili con la vita. In tutti questi casi, monosomie o trisomie, la patologia nasce dalla espressione deficitaria o eccessiva dei geni presenti su quei cromosomi e che in seguito si ripercuote a cascata sui geni a valle posti su cromosomi non coivolti direttamente.
L'evoluzione ha escogitato modi diversi negli insetti, nei vermi e nei mammiferi per normalizzare una espressione altrimenti anomala. Nei mammiferi ha optato per lo spegnimento di uno dei due cromosomi X nelle femmine, in altri animali si è optato invece per una raddoppiata espressione dell'unica copia cromosomica presente.
Qualunque sia il metodo, l'epigenetica gioca un ruolo fondamentale "scrivendo" istruzioni regolatorie sulla cromatina.
Stop. Non voglio approfondire argomenti troppo specialistici per un lettore semplicemente curioso di scienza.
Meglio mostrare una eccellente simulazione al computer, creata dal Walter and Eliza Hall Institute of Medical Research, di quello che avviene nel nucleo. Devo specificare che pur essendo le immagini molto belle il commento è ovviamente in inglese.




Articolo precedente sull'argomento




Cammelli giganti a nord del circolo polare

Non si tratta del titolo di un B-movie anni '50 né di un avvistamento tipo mostro di Loch Ness e tantomeno di un pesce di aprile. Si tratta del sorprendente risultato di una ricerca condotta da paleontologi canadesi in collaborazione con biotecnologi inglesi. Una collaborazione nata dalla necessità di definire la provenienza di reperti ossei trovati dai canadesi nell'isola di Ellsmere. I reperti, vecchi di tre milioni di anni secondo la datazione al carbonio 14, erano infatti troppo esigui per poterne ricavare informazioni dettagliate sull'animale.

Image credit: Science
Non sorprende, osservando la figura allegata, che i paleontologi in un primo momento li avessero confusi con del legno fossile; solo una successiva ispezione con la strumentazione presente al campo base permise loro di scoprire che non era legno ma ... una tibia. Rimaneva da capire a che animale fosse appartenuta.
Dalle dimensioni di un reperto osseo, e grazie all'anatomia comparata, è spesso possibile risalire alla dimensione (e a spanne anche alla famiglia) dell'animale. Diversa cosa è ovviamente caratterizzare il reperto con precisione assoluta. Negli ultimi anni tuttavia i progressi fatti dalla genetica molecolare e dalla biotecnologia hanno reso possibile approcci prima fantascientifici. I canadesi decisero di contattare i colleghi inglesi in quanto questi avevano messo a punto un procedimento noto come collagen fingerprinting (impronta digitale del collagene). Una tecnica che permette, partendo da quantità minime di collagene osseo, di risalire alla specie (vivente o estinta purché ben nota).
Si scoprì così che il profilo molecolare era quasi identico a quello dell'odierno dromedario e dell'estinto ma recente cammello gigante dello Yukon (vissuto soli 2 milioni di anni fa) le cui ossa erano state trovate 1200 km a sud dal luogo dell'attuale ritrovamento.
La dimensione dell'osso è circa il 30 % maggiore di quella dei camelidi odierni, il che ovviamente suggerisce che l'animale fosse altrettanto più grande.

Il dato tuttavia di maggiore interesse è il luogo del ritrovamento. Pur considerando la deriva dei continenti e l'età dei reperti, la zona era anche al tempo artica, quindi inattesa per una specie che noi associamo ai climi torridi. In realtà all'epoca la temperatura dell'Alaska era meno fredda dell'attuale a causa di un generale surriscaldamento.
 Ricordo che cammelli e dromedari fanno parte della famiglia dei Camelidi a cui appartengono anche il lama e l'alpaca.
Il doppio ritrovamento dei reperti in questa zona fa pensare che qui sia vissuto il paracamelus (se mi passate il termine, il corrispettivo della nostra Lucy nei camelidi); dato interessante in quanto permette di fare luce sulla linea evolutiva dei camelidi.

La caratteristica forma appiattita del piede, gli occhi grandi e i depositi di grasso non sarebbero altro che adattamenti al freddo che con il tempo si sono rivelati utili anche ai loro discendenti trovatisi a vivere in ambienti altrettanto estremi.
Perché il cammello dell'Alaska si sia estinto non è chiaro. Probabilmente un insieme di cause legate al raffreddamento successivo e/o alla presenza di predatori agguerriti (ad esempio gli antenati dei Grizzly).
(articolo successivo su animali giganti estintisi recentemente qui)


Fonti
- Mid-Pliocene warm-period deposits in the High Arctic yield insight into camel evolution
  Natalia Rybczynski et al, Nature Communications, 2013, 4(1550)
 
- University of Manchester, news


Anche le scimmie hanno la crisi di mezza età


Anche gli scimpanzé e gli oranghi, come gli esseri umani, sperimentano la crisi di mezza età. Il dato parrebbe suggerire che le ragioni biologiche di tale fenomeno erano già presenti nell'antenato comune a questi primati.
Lo studio è stato condotto da una equipe eterogenea composta da ricercatori (primatologi e psicologi) e da uno studioso di economia comportamentale quale Andrew Oswald dell'università di Warwick.

Dall'analisi comparata del comportamento di 508 grandi scimmie ospitate in strutture protette in giro per il mondo (dagli USA a Singapore) è emerso che gli scimpanzé e gli orangutan hanno una curva ad U dello stato di benessere in funzione dell'età: alta nei giovani, discende ai minimi nella mezza età (in entrambi i sessi) e risorge con l'avanzare dell'età.
La prima domanda che viene in mente è come sia stato misurato lo stato di benessere nei primati. Bella domanda. 
I ricercatori si sono basati sulla valutazione da parte di chi (allevatori, volontari, ricercatori), conoscendo molto bene le scimmie osservate, ne poteva riportare le alterazioni comportamentali che comparivano con gli anni. Un esempio è l'attività e la voglia di interagire con gli altri.
Dice Andrew Oswald a riguardo "speravamo di risolvere il puzzle scientifico del perché la felicità umana percepita, cambiasse nel corso della vita seguendo una curva ad U. Inaspettatamente [veramente inaspettato?] abbiamo visto che tale curva non è causata dai problemi del mutuo, da crisi coniugale, da telefoni cellulari o in genere da una qualsiasi delle altre appendici della vita moderna. Le scimmie hanno infatti gli stessi problemi eppure non fanno la fila alle 6 di mattina per comprarsi l'ultimo iPhone o si cominciano a vestire come teenager fuori tempo massimo".

Questo non esclude che gli eventi economici, le dinamiche sociali e culturali abbiano un peso non irrilevante. Tuttavia non ne sono la causa prima.
Queste osservazioni mostrano invece l'importanza di spiegazioni evolutive e/o biologiche come miccia della crisi. Fra tutte l'indiziato principale va cercato nelle alterazioni ormonali associate alla mezza età. Il calo degli ormoni, l'aumentata competizione con i membri più giovani del branco e chissà la percezione di un vigore fisico declinante potrebbero agire sinergicamente nel fare peggiorare l'umore. Un peggioramento momentaneo però. Il sopraggiungere della pace dei sensi (tranne in alcuni nostri governanti) riporterà serenità.

Fonte
- Research finds evidence of 'mid-life' crisis in Great Apes
 University of Warwick, news

 - Evidence for a 'Midlife Crisis' in Great Apes Consistent with the U-Shape in Human Well-Being
PNAS 2012 109 (49) 19871-19872

Metodo Stamina. Alla fine il cerchio si chiude

L'articolo di Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini (pubblicato sul Il Sole 24 Ore di domenica) è del tutto esaustivo. Come nel caso Di Bella, anche qui troppe persone prive della necessaria cultura scientifica hanno preteso di imporre la validità di una cura priva delle basi scientifiche minime.
Non sono tanto i tre milioni di euro buttati in una sperimentazione inutile, quanto le false speranze diffuse in questo modo. La sperimentazione su essere umano è importante ed è fondamentale per lo sviluppo di terapie sicure. Appunto per questo motivo tale sperimentazione impone che sia fatta in modo adeguato (con controlli) e partendo da dati preliminari sufficientemente solidi.
La Scienza e' rigore. Tutto il resto meglio lasciarlo ai politici e ai vari talk-show televisivi (lasciamo stare poi quelli che hanno manifestato solo per sentito dire ...).
Articolo sull'argomento, qui.
Articolo successivo, qui.

Consiglio la lettura sia dell'articolo citato in apertura (qui allegato) che dell'articolo pubblicato su Nature (link a fondo pagina).
articolo per sola consultazione (® Il Sole24ore 7/7/2013)

articolo per sola consultazione (® Il Sole24ore 7/7/2013)


Altro articolo che consiglio di leggere e' quello di Nature in cui viene smascherata la falsita' dei dati
Italian stem-cell trial based on flawed data
Nature, 2 luglio 2013 (link)
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21 luglio
Aggiungo a quanto sopra la sinossi di un nuovo editoriale apparso su Nature il 18 luglio (qui per l'articolo completo) e scritto dal prof. Paolo Bianco.
Il titolo dell'articolo è eloquente "Don’t market stem-cell products ahead of proof"
Translational medicine is said to reflect a need to harness the huge wealth of scientific knowledge in biomedicine. In fact, it is a direct consequence of the globalized outsourcing of research and development by the pharmaceutical industry, resting on the creation of commercial enterprises within academia. A commercial drive in academia can, however, significantly alter scientific concepts in biology and medicine.
Mesenchymal stem cells (MSCs) provide a prime example of this. (...) Against mainstream scientific evidence, these firms argue that the cells are veritable injectable drug stores.
(...) articles suggesting that intravenously infused MSCs can be used as a single agent to mute or cure a long list of unrelated diseases in multiple organs (...). These are extraordinary claims that would require extraordinary evidence, which, in my view, does not yet exist
(...) Commercial products have been converted into scientific concepts. It highlights an important dark side of the commercialization of science. The marketing of MSCs as a cure-all is no coincidence (...).
(...) ntravenously infused MSCs can cure multiple unrelated diseases, which (to my knowledge) is not proven at this time. These statements, and the trials that fuel them, represent a new kind of advertisement within science. They can distort science and medicine, mislead the public, create illusions for patients, sabotage health-care systems (...).
(...) Translating science into effective medicine cannot be based on indiscriminate development of commercial products (...) 
(©nature.com)


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Nota aggiunta a dicembre 2013
Siccome in Italia non vogliamo farci mancare niente, ecco arrivare l'intervento del TAR che dice "di scienza me ne occupo io anche se non so di cosa parlo": vedi qui.

e lo sconcerto internazionale di fronte a questa farsa
- Stem-cell fiasco must be stopped (Nature, )


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Casi simili
Il caso Celltex Therapeutics in Texas (bloccata dalla FDA americana) ed i rischi di un Far West medico-staminale in assenza di controlli rigorosi, possibili solo con le regole della sperimentazione clinica.
- Stem cells in Texas: Cowboy culture, (Nature 494, 166–168 - 14 February 2013)



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Nasce prima un buco nero o una stella? Può un buco nero andare in giro "da solo"?

Nasce prima un buco nero o una stella?
La domanda potrebbe sembrare retorica o al più degna di un gioco mentale se non fosse per la notizia a riguardo apparsa su The New Scientist.
Nell'articolo si cita il rapporto comparso sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, in cui viene affrontata la genesi dei buchi neri massicci (anche detti buchi neri obesi) presenti nelle galassie con poche stelle.

Andiamo con ordine.
La teoria corrente spiega i buchi neri (o meglio ancora ne prevede l'esistenza) come il punto di arrivo del ciclo vitale di una stella massiccia come conseguenza del suo collassamento. Se questo è oramai un punto fermo, quello che solleva dubbi è come possono esistere buchi neri la cui origine è stimata "solo" un miliardo di anni dopo il Big-Bang. Un intervallo di tempo nemmeno lontanamente sufficiente per coprire non solo il ciclo vitale di una stella massiccia ma anche la sua formazione.
Quindi, come possono esistere buchi neri così vecchi?
Secondo Bhaskar Agarwal, un astrofisico del Max Planck Institute di Garching in Germania (e autore dell'articolo) questi buchi neri giganti sarebbero originati dal collassamento di enormi nubi di idrogeno nello spazio primordiale, che avrebbero raggiunto una densità tale da impedire l'accensione della stella, generando direttamente il buco nero.
Questa ipotesi spiegherebbe quindi l'esistenza di galassie con poche stelle. Non si tratterebbe di una galassia spopolata a causa del cannibalismo del buco nero (o meglio non è solo questo il motivo) ma di galassie in cui solo poche stelle sono riuscite a formarsi con l'idrogeno rimasto. 
Altre notizie sui cosiddetti buchi neri obesi, qui
(articolo successivo sul tema: esiste l'orizzonte degli eventi?)

Fonte
- Unravelling obese black holes in the first galaxies
  Bhaskar Agarwal et al.,  MNRAS (July 11, 2013) 432 (4): 3438-3444



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Altra domanda apparentemente "strana".
 Può un buco nero lasciare la propria galassia?

E' noto che gran parte (o forse tutte) delle galassie ospitano nel proprio centro un buco nero. In particolari condizioni (fusione con altri buchi neri o cattura di stelle avvicinatesi troppo) il buco nero diventa super-massiccio. Ma questo non presuppone che l'ipotesi che un buco nero possa accrescersi indefinitamente; a tal proposito esistono diverse teorie che definiscono un limite superiore alla sua massa (mentre in teoria potrebbero esistere dei buchi neri microscopici).
Ma come coniugare l'idea di un buco nero che "si ciba" di tutto quello che passa troppo in prossimità con l'osservazione fatta nel 2012 della scoperta di un buco nero che si allontana dalla propria galassia (CID-42, a 4 miliardi anni luce da noi) alla velocità di diversi milioni di km/h? Sembrerebbe un controsenso gravitazionale, eppure le immagini ottenute dal telescopio a raggi X Chandra della NASA sono "chiare". Il buco nero è ben lontano dal centro e in un futuro lontano (date le dimensioni della galassia e la nostra limitata scala temporale) ne uscirà.
La galassia CID-42 al centro di questa immagine contiene una fonte di raggi-X particolarmente forte. Dal confronto tra i dati ottenuti con diversi sistemi di rilevazione si può osservare lo spostamento verso l'esterno del buco nero supermassiccio (stima basata dall'intensità della radiazione-X). Un buco nero è difatti non osservabile direttamente, per ovvie ragioni e la sua presenza è ipotizzabile solo grazie alla "radiazione di Hawking" derivante dalla cattura di materia. Come apparirebbe questo buco nero se si fosse già allontanato dalla galassia e avesse consumato il gas circostante? Verosimilmente sarebbe assolutamente invisibile se non per l'attività di lente gravitazionale sulle stelle dello sfondo. In teoria un viaggiatore sfortunato potrebbe finirci "addosso" se non quando troppo tardi ....
(Credit: X-ray: NASA/CXC/SAO/F.Civano et al; Optical: NASA/STScI; Optical (wide field): CFHT, NASA/STScI)

Una teoria ipotizza che questo buco nero sia il risultato della fusione di due buchi neri appartenenti a due galassie distinte entrate in "collisione". Ho messo il tutto tra virgolette in quanto il termine "scontro tra due galassie", è alquanto fuorviante data l'ampiezza dello spazio interstellare intragalattico che fa si che le stelle di ciascuna galassia si "mischino" senza praticamente entrare in contatto (o con una frequenza molto bassa). In seguito a questa sovrapposizione due saranno gli esiti possibili: le due galassie proseguiranno sulla propria "strada" dopo la temporanea sovrapposizione; si formerà una nuova galassia se le forze gravitazioni (in cui la materia oscura gioca un ruolo predominante ed è per questo che gli scontri tra galassie sono oggetto di interesse) saranno tali da tenere le stelle "intrappolate".
A differenza dello spazio interstellare, un buco nero non è tuttavia una entità "rarefatta" ma al contrario è "estremamente fisico" essendo dotato di una massa considerevole. Se i due buchi neri delle galassie collidenti transitano sufficientemente vicini il risultato non può essere che la loro fusione. Essendo oggetti "fisici" il buco nero risultante avrà, come accade con due palle da biliardo che si scontrano fondendosi, una velocità e direzione probabilmente diversa da quella delle due originarie e questo potrebbe spiegare l'espulsione del buco nero dalla galassia.
Sebbene questa sia la spiegazione principale addotta proposta per la galassia CID-42, non è sempre necessario ipotizzare una fusione tra buchi neri. Secondo gli astrofisici, la serie di onde gravitazionali, cioè l'increspatura dello spazio-tempo (il mezzo attraverso cui tutti i corpi spaziali si muovono), che corpi di massa eccezionalmente alta come i buchi neri inducono, potrebbero indurre delle perturbazioni direzionali nei corpi che transitano sufficientemente vicini. Come le onde spostano una pietra sulla spiaggia così l'onda gravitazionale potrebbe avere indotto uno dei buchi neri a cambiare direzione rispetto alla galassia in se.

Altro video sulla galassia CID-42


Fonti

- Giant Black Hole Kicked Out of Home Galaxy 
Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, Release No.: 2012-17
-Giant Black Hole Likely Booted from Home Galaxy
 SPACE.com
- Are Rogue Black Holes Wandering the Universe?



 

Tumore alla mammella: lo screening salva la vita (e l'esempio della Jolie)

E' di queste settimane la notizia della mastectomia preventiva a cui si è sottoposta Angelina Jolie. Una operazione sicuramente drastica ma che, date le condizioni genetiche, l'età e il vissuto della donna, è giustificata. Con questo non si vuole dire che sia un esempio da seguire ma che, ripeto, essendo la Jolie portatrice di una mutazione predisponente ad alta penetranza (pari a circa 87%) ha permesso di minimizzare (non di eliminare) il rischio associato, e cosa ancora più importante di eliminare l'ansia che la consapevolezza di essere a rischio comporta. Una consapevolezza che tramuta i controlli periodici, a cui ogni donna è bene si sottoponga in veri e propri calvari, data la quasi certezza, delle donne portatrici, che prima o poi il responso sarà positivo. Soprattutto perchè alcune delle mutazioni di BRCA non aumentano solo il rischio di tumore al seno ma anche all'ovaio. Tralascio il giudizio circa i commenti diffusi urbi et orbi dall'antico Umberto V. "sufficiente sottoporsi a controlli ogni 6 mesi"(SIC!). Il che iniziando a 16 anni fanno … quante ansie laceranti?
Lasciamo stare. Un giornalista vero, e non il solito zerbino che i media italiani inviano, avrebbe dovuto chiedere semplicemente "i rimborsi regionali ottenuti valgono l'ansia generata dalla paziente? Come fa a dire che la decisione della Jolie non è razionale?" . Per concludere, certamente è meglio che una ventenne posticipi questo intervento a dopo la maternità, quando i vantaggi di un intervento radicale supereranno gli svantaggi.


Torniamo a parlare di scienza, usando i numeri, e della importanza di screening periodici nelle donne il cui rischio è quello della media della popolazione e di età paragonabile. I numeri che riporto derivano da un recente studio inglese pubblicati sotto forma di "letter" sul British Journal of Cancer.

Punto di partenza dello studio: le donne che si sottopongono a screening routinario sembrano avere un rischio del 10% superiore rispetto a quelle che non lo fanno (Collette et al, 1984; van Dijck et al, 1996; Puliti et al, 2008). Le ragioni sono varie:
  • l'esistenza di fattori di rischio generici (spesso chi si sottopone a screening ha in famiglia casi di malattia, quindi è geneticamente a rischio) 
  • la paura delle malattie in genere e il conseguente stato d'ansia sono fattori noti nell'aumentare il fattore di rischio.
Dai valori citati nell'articolo si stimano 749 diagnosi di tumori alla mammella ogni 10 mila screening. I valori sono ricavati dai 681 casi realmente diagnosticati nell'ambito dello studio Marmot, aumentato del 10%.
Ci si è quindi chiesto cosa sarebbe successo (in base a valori derivati dalla popolazione reale) a queste donne se non si fossero presentate allo screening.
Primo calcolo. Donne che fanno lo screening:
    ⁃    749 sarebbero state trovate positive e avrebbero ricevuto il trattamento terapeutico d'elezione;
    ⁃    di queste 749, circa 157 sarebbero morte di tumore. 56 in meno rispetto a quelle ipotizzabili nel gruppo che non si sottopone a screening (quindi con fattore di rischio inferiore del 10%);
    ⁃    delle 592 rimanenti, 56 avrebbero avuto la vita salvata (o per lo meno allungata) proprio grazie alla diagnosi precoce. 167 sarebbero state trattate, data la positività allo screening, per noduli che non avrebbero creato problemi nel corso della vita (casi categorizzati come sovradiagnosi). Le restanti 369 sarebbero state trattate in anticipo per un tumore che sarebbe stato scoperto e trattato successivamente in assenza di screening

Secondo calcolo. Prendiamo ora le stesse donne e ipotizziamo che non abbiano potuto/voluto sottoporsi a screening. Di queste
    ⁃    582 sarebbero state diagnosticate con il tempo positive al tumore e avrebbero ricevuto le cure del caso (582= 749-167 le sovradiagnosi prima citate). 168 avrebbero sviluppato dei tumori poco aggressivi/non sintomatici che non avrebbero alterato l'aspettativa di vita.
    ⁃    Delle restanti 582 donne trovate positive, 213 sarebbero morte di tumore alla mammella cioè 56 in più rispetto a quelle che si sono sottoposte a screenig preventivo. 369 avrebbero ricevuto una terapia risolutiva e sarebbero sopravvissute.

Al netto dei numeri, lo screening preventivo può causare maggiori problemi di ansia e un trattamento terapeutico "eccessivo" (trattati anche i noduli non pericolosi), ma salva almeno 56 donne ogni 10 mila analizzate.
Il che non è irrilevante visto che parliamo di vite salvate.

Conclusione. Lo screening preventivo nelle persone "normali" è importante purchè non si leghi a stati d'ansia esagerati e a frequenze superiori a quelle consigliate (dipendenti dall'età).

Fonte
Mortality benefits and overdiagnosis estimates for women attending breast screening
N Ormiston-Smith, H Scowcroft and CS Thomson, British Journal of Cancer (2013) 108, 2413–2414.

Aumenta la temperatura? Meno femmine nei pesci

Negli uccelli in genere e in alcun pesci e rettili, la determinazione del sesso è basata sui cromosomi Z e W. I maschi sono ZZ mentre le femmine sono ZW.
Tuttavia in alcuni pesci e rettili (maggior parte delle tartarughe, coccodrilli e alcune lucertole) il sesso di un individuo è determinato dalla temperatura ambientale più che dalla genetica (vedi qui per ulteriori informazioni nel caso  delle tartarughe).

Rapporto maschi/femmine al variare della temperatura
"Scegliere" il sesso in base alle condizioni esterne permette a questi animali di ottimizzare il successo riproduttivo; in condizioni non ideali saranno le femmine ad essere favorite in quanto in grado, ovviamente di generare progenie anche con pochi maschi.
Ma c'è di più. Si è infatti scoperto che, caso unico tra i vertebrati superiori alcuni rettili possono, in particolari condizioni, riprodursi per partenogenesi, vale a dire che l'uovo non necessita di fecondazione. Un fenomeno ben distinto da quello presente in alcun insetti dove la partenogenesi è la "routine". Mentre infatti nelle api i maschi sono aploidi in quanto derivano da uova (aploidi) non fecondate, nei rettili la partenogenesi genera individui diploidi, che sono:
  • cloni del genitore se la cellula uovo è originata da mitosi e non meiosi.
  • non clonali se la ricombinazione meiotica è avvenuta. La diploidia in questi casi viene mantenuta o "saltando" la seconda divisione meiotica oppure attraverso la fusione dell'oocita con il secondo nucleo polare, normalmente eliminato.
La partenogenesi è stata osservata in rettili quali serpenti (boa, pitoni e vipere americane) e nei draghi di Komodo. In questi ultimi la progenie è non clonale (Watts et al, 2006)
Meiosi e partenogenesi. Meccanismi possibili (®Helen Pilcher, New Scientist)
Altre informazioni sull'argomento sono facilmente recuperabili in letteratura scientifica e/o in rete. In particolare per la partenogenesi e per il drago di Komodo vedi il sito della University of Wisconsin, qui e qui.


Dopo la necessaria introduzione all'argomento, passo alla notizia per cui questo articolo è stato pensato. Una notizia pubblicata da Navarro-Martin e collaboratori sulla rivista PLoS genetics, riguardante il meccanismo molecolare responsabile della determinazione del sesso, temperatura dipendente, nei pesci, per essere più precisi nella spigola.

Iniziamo con il dire che a differenza di mammiferi e uccelli non esiste nei pesci teleostei una unica modalità che determina il sesso dell'embrione. Alcuni pesci ben studiati, come zebrafish, hanno meccanismi di determinazione del sesso ancora poco compresi. Quello che è certo è che il differenziamento dei cromosomi sessuali è praticamente nullo (vedi Woei Chang Liew et al, a fondo pagina): un fenomeno spiegabile con il fatto che i geni alla base del differenziamento sessuale non si sono "ancora" (da un punto di vista evolutivo) separati su cromosomi specifici.

La spigola di mare europea (Dicentrarchus labrax) è particolarmente interessante in quanto la percentuale di maschi nella popolazione varia a seconda della temperatura in cui gli individui si  sono sviluppati. 
Nell'articolo di Navarro-Martin si mostra come l'azione della temperatura si esplichi attraverso la modificazione dello stato di metilazione del promotore del gene cyp19a. Ad un particolare stato di metilazione corrisponde uno specifico livello di espressione genica del gene target e quindi di espressione della proteina cyp19a. Al variare dei livelli di questa proteina corrisponderà una variazione dei geni e/o dei pathway metabolici a valle. Un effetto a cascata.
Il gene cyp19a codifica per un proteina, l'aromatasi, specificamente espressa nelle cellule gonadiche; si tratta di un enzima che converte gli ormoni maschili negli ormoni femminili necessari per lo sviluppo ovarico (molto simile a quanto avviene nei mammiferi dove una aromatasi trasforma il testosterone in estradiolo).
Nei pesci (animali eterotermi) la variazione della temperatura ambientale induce inevitabilmente un cambiamento dell'attività metabolica. Nello specifico si è visto che quando la temperatura esterna aumenta, anche lo stato di metilazione del promotore dell'aromatasi aumenta. Di conseguenza la trascrizione del gene (quindi la quantità di proteina) diminuisce.

Meno aromatasi
= meno ormoni in grado di favorire lo sviluppo delle ovaie
 = meno pesci femmina. 

Sulla base di questi risultati, gli autori concludono che l'aromatasi è la chiave per comprendere  come la temperatura ambientale influenzi la determinazione del sesso in questi pesci.
Studi simili condotti nei rettili hanno confermato che alle temperature "mascolinizzanti" il gene cyp19a viene spento.
Uno studio interessante che mostra lo stretto legame fra alterazioni dell'ambiente e modificazione dei meccanismi biologici.



Fonte
- DNA Methylation of the Gonadal Aromatase (cyp19a) Promoter Is Involved in Temperature-Dependent Sex Ratio Shifts in the European Sea Bass
PLoS Genet. 7, e1002447 (2011)



- Sex determination in fish 
Jean-Nicolas Volff, Genome Biology 2002, 3:reports0052

- Polygenic Sex Determination System in Zebrafish
 Woei Chang Liew et al, PLoS ONE 7(4): e34397.
   
- Facultative parthenogenesis discovered in wild vertebrates
W. Booth et al., Biol Lett. 2012 Dec 23;8(6):983-5
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